30 marzo 2011

Disoccupazione e libertà di licenziare: esiste un legame?

I liberisti dicono che il tasso di disoccupazione dipende anche dalla libertà di licenziare: dove si licenzia liberamente, il tasso di disoccupazione sarebbe più basso. Quindi consigliano di liberare l'imprenditore dai vincoli al licenziamento, a cominciare dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

Fino a due anni fa si citava, come prova, gli USA. Il tasso di disoccupazione era inferiore al tasso di disoccupazione europeo. Era... Oggi la disoccupazione USA è poco inferiore al 10%, mentre in Germania siamo al 7,3% benchè non sia facile licenziare e, anzi, aziende come Siemens promettono di non licenziare mai.


Ci sono almeno due buone ragioni per dire che il tasso di disoccupazione non dipende -se non in modo marginale- dalla libertà di licenziare.

La prima è che, all'interno dello stesso stato, ci sono tassi di disoccupazione diversi. Difficile immaginare che la differenza tra il 5% di una regione e il 15% di un'altra dipenda dalla libertà di licenziare, perchè le regole sono uguali.

La seconda è che è difficile immaginare un'impresa che aumenta in modo rilevante il numero di lavoratori solo perchè è libera di licenziarli. Può succedere nelle imprese con meno tecnologia: un hotel può assumere un maggior numero di dipendenti per offrire un servizio migliore, ma non si aumentano i lavoratori alla catena di montaggio.

Molti lavori richiedono una formazione costosa. Se licenziati, l'impresa perde l'investimento. Non conviene licenziare chi ha imparato un mestiere o chi ha buoni rapporti con un cliente dell'azienda.

In ogni caso è la domanda che spinge le imprese ad assumere. Sarebbe curioso il caso di un'impresa che assume esclusivametne perchè libera di licenziare.

A conferma di ciò c'è la crisi: oggi il tasso di disoccupazione americano supera quello tedesco, anche se negli USA le regole sono molto più favorevoli all'impresa. Inoltre gli studi sembrano suggerire, come riportava nel 2003 Emiliano Brancaccio su Liberazione (vedi qui), che la libertà di licenziamento influenza solo in modo marginale il tasso di disoccupazione.

Ma come si spiega che in Germania, dove si licenzia con più difficoltà, il tasso di disoccupazione è attorno al 7,5% mentre gli USA sono poco sotto il 10%?

Proprio con le regole: se è più difficile licenziare un lavoratore, l'impresa cercherà di fare in modo che il suo lavoro sia più redditizio. In caso di crisi si assottiglia il guadagno dell'impresa che non lo licenzierà fino a quando guadagna. Se un'impresa invece, libera di licenziare, investe poco nel lavoratore e si accontenta di un guadagno inferiore, lo licenzierà più facilmente.

Così le imprese più vincolate cercheranno di formare il lavoratore, di fornirgli gli strumenti di cui necessita, di conquistare i mercati più redditizi.

La crisi ha colpito maggiormente le imprese e le economie che puntavano sul basso costo della manodopera poco qualificata, mentre si rafforza l'economia tedesca dove è più difficile licenziare.

E' una lezione anche per l'Italia, dove molti esponenti del governo (come Sacconi e Brunetta) e anche parecchi dell'opposizione (Ichino) puntano solo su un lavoro poco qualificato e a buon mercato, ignorando le ricadute positive di regole più restrittive.

29 marzo 2011

I soliti noti..

Sta suscitando proteste la presa di posizione del vicepresidente del CNR, de Mattei, sul terremoto in Giappone. A Radio Maria de Mattei ha spiegato che i terremoti sono "voce della volontà di Dio".

Parole sconcertanti che provengono dal vicepresidente del CNR.

Ma quali titoli ha de Mattei per fare il vice-presidente di una istituzione che deve occuparsi di "discipline e tecnologie diffusive ed innovative" ?

Nessuna. Infatti è professore di storia del cristianesimo in una università privata cattolica. Ma è anche consulente di vari esponenti politici di destra, come Fini, del governo Berlusconi e fa parte di Allenza Cattolica che per statuto (art.4) propone "la promozione di una civiltà cristiana nella prospettiva dell'instaurazione della regalità di Cristo anche sulle società umane".

Insomma un esponente di una destra religiosa antiscientifica, come dimostrano i suoi libri contro il darwinismo. Uno che sta al CNR come Hitler alla democrazia.

Ed è andando a cercare le pubblicazioni di de Mattei (vedi qui) che si scoprono cose interessanti. Si scopre che un paio di libri sono stati pubblicati dall'editore Solfanelli di Chieti.

Solfanelli... Vi dice qualcosa?

La casa editrice Solfanelli è stata fondata da Marino Solfanelli, che ha scritto la presentazione del libercolo Il paese dell'utopia di un altro esponente dell'esterma destra, Auriti.

Chi ha pubblicato il libro di Auriti? L'editore Tabu Fati, fondata dal figlio di Solfanelli.

Ma se questa subcultura di estremisti riesce a mettere un proprio uomo alla vicepresidenza del CNR, perché su Radio Maria non parlano tutti i giorni del signoraggio? Forse l'argomento è una tale bufala che non ci cascano neppure i cattolici di destra più invasati?

26 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 3


Quando nasce il divario nord-sud? E perchè?
S'è già visto che l'economia del sud era più debole, le aziende più piccole, i mercati di sbocco meno ricchi.

La situazione è peggiorata quasi subito, dopo l'unificazione del paese, quando il governo italiano ha deciso di eliminare i dazi doganali interni e di rendere uguali per tutti i dazi verso l'estero.

In un solo giorno, i dazi che proteggevano le aziende del sud dalla concorrenza straniera si sono ridotti dell'80%, mentre sono scomparsi i dazi applicati ai prodotti di altre zone d'Italia: "le tariffe [dazi] del 188 e del 1887 contribuiscono potentemente al peggioramento cumulativo del divario tra Nord e Sud" (1) e solo nel 1904 si prendono provvedimenti (la legge per Napoli) a favore di alcune zone industriali.

Nel frattempo il divario era cresciuto: "soprattutto a partire dal 1881, allorchè inizia una fase di consistente industrializzazione del nord e entra invece profondamente in crisi l'industria tradizionale meridionale". (1)
Anche il fisco sfavorì il sud: il bilancio in (quasi) pareggio, vanto della destra storica, fu possibile grazie all'imposta sul macinato che colpiva gli italiani più poveri. In un'Italia che correva a velocità diverse, era il sud, più lento, a pagare il prezzo del bilancio in pareggio (o quasi).

Dunque il divario iniziale è cresciuto per effetto della politica liberista della Destra storica che ha messo tutti sullo stesso piano: chi era più competitivo, chi aveva accesso a mercati più ricchi, chi disponeva di infrastrutture migliori ha avuto la meglio.

Chi non conosce questa pagina della storia economica, preferisce la tesi del complotto: il sud era al top ma qualcuno l'ha affossato. Chi? Il nord... anche se il parlamento dopo il 1861 rappresentava tutta l'Italia e i deputati del sud contavano, e non poco, tanto che quando si crea la Banca d'Italia, Giolitti lascia al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia il diritto di emettere moneta, convinto che altrimenti i deputati eletti al sud non avrebbero sostenuto il progetto.


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(1) V.Valli, Politica economica, Carocci, pag. 222

25 marzo 2011

Cara, cara cultura


Siamo alle solite: per finanziare qualcosa per cui non ci sono i soldi, nello specifico i fondi alla cultura, la politica non sa fare altro che appellarsi all'italica fedeltà alla pompa della benzina.
I fondi allo spettacolo sono finanziati con un bell'aumento delle accise.

Senza voler tornare di nuovo sulla composizione del prezzo del carburante alla pompa, vale la pena di ricordare che le accise sono un'imposta di fabbricazione sulle risorse, ma poi ci va calcolata l'IVA. Quindi l'effetto finale è decisamente superiore al semplice aumento delle accise.

Poi bisogna considerare che tutte le merci si muovono su gomma, quindi un aumento del carburante comporta un aumento dei prezzi dei trasporti che si riverbera su tutti i prezzi al consumo, generando alla fine inflazione.

La ciliegina sulla torta è che se non ci sono i soldi per la cultura e bisogna spremerli alla pompa, invece i soldi per la politica ci sono sempre!

Probabilmente basta avere qualche amico in qualche ministero ed ecco che i problemi magicamente si risolvono!

Speriamo che Napolitano rimandi il decreto indietro!

23 marzo 2011

Truffatori: a volte ritornano...


Da qualche settimana le cronache parlano di Aiazzone.

Aiazzone era un signore biellese che costruì una fabbrica di mobili a Biella. Poi decise di venderli e aprì a Biella un negozio, molto pubblicizzato sulle tv private, come si diceva allora. Un signore dal volto rassicurante spiegava che le consegne sarebbero avvenute in tutta Italia, "isole comprese" e cercava di convincere i potenziali clienti con uno slogan diventato famoso: "provare per credere".

A 39 anni però il signor Aiazzone morì in un incidente con il suo piccolo aereo. Era il 1986 e il mobilificio che portava il suo nome rimase in vita, guidato dalla moglie, aprendo numerosi punti vendita in tutta Italia.

25 anni dopo si sta trasformando in un incubo per migliaia di malcapitati che hanno deciso di provare a comprare una cucina, un letto, l'armadio o la cameretta per i bambini. Gente che ha sottoscritto un contratto di finanziamento con una finanziaria o ha versato un anticipo, senza mai ricevere i mobili.

Anzi di Aiazzone si sta occupando il tribunale fallimentare di Torino, su richiesta della procura della Repubblica, perchè il mobilificio ha praticamente chiuso: non paga i dipendenti nè i fornitori e non consegna la merce prenotata.

A capo dell'azienda non c'è più la signora Aiazzone, che ha venduto da tempo l'azienda, ma alcuni personaggi discutibili. Uno è un imprenditore del settore, Semeraro, che qualche mese fa si è presentato in tv per rassicurare i clienti e qualche settimana fa, invece, ha maltrattato un inviato delle Iene che voleva fargli qualche domanda.

Un altro si chiama Palenzona ed è il fratello di uno dei principali esponenti di Unicredit. Il terzo si chiama Borsano e ha un curriculum assai interessante.

Saltò fuori dal nulla negli anni '80 diventando presidente del Torino calcio. Ebbe poca fortuna sportiva, e fece di tutto per farsi notare. Si fece pagare in nero dal Milan cui vendette un calciatore, divenne deputato del PSI, cedette fittiziamente il Torino al suo notaio, Goveani, a sua volta travolto dalle inchieste giudiziarie e finì in galera un paio di volte. La prima voltà per i reati commessi da una sua finanziaria e la seconda per il commercio di elettronica con annessa evasione dell'IVA e di altre imposte.

Uno col senso degli affari e qualche ... vizietto, si disse allora, come quello di cambiare sede alle società: quando arrivarono le prime denunce e richieste di fallimento, lui prese le sue aziende e le spostò da Torino ad Acqui Terme, dove il tirbunale fallimentare e la procura erano molto "teneri" nei suoi confronti.

Oggi come allora si assiste a un gran valzer di società, comprate e vendute, spostate di sede, a dipendenti non pagati ma neppure messi in cassa integrazione o licenziati perchè chi rappresenta le aziende semplicemente non c'è, non si fa vivo, promette ma non mantiene. Un gioco già visto negli scorsi anni con i call center Agile/Phonemedia.

Il tempo passa, ma certi metodi restano e a volte certi incubi per il malcapitato tornano.

Non resta che sperare che, come per i call center, arrivino le manette, le sole a fermare il furbetto di turno.

21 marzo 2011

L'Italia unita fondata su fame e malattie

Qualche anno fa, una parte dello schieramento politico italiano voleva inserire nella Costituzione Europea un riferimento alle radici cristiane dell'Europa: il cristianesimo ha fatto l'Europa, è un elemento comune a tutti i popoli, si diceva.

Il tentativo, osteggiato dai paesi europei che non si preoccupano di compiacere il Vaticano, dimostrava una scarsa conoscenza della storia economica e non solo.

Come credere, infatti, alle radici cristiane di popoli nelle cui case, fino a pochi decenni fa, non c'è mai stata una bibbia, vista la palese ostilità della chiesa (cattolica) alla diffusione dei propri testi sacri tra i non addetti ai lavori, e che in ogni caso non sarebbe mai stata letta, vista l'alta percentuali di analfabeti?

La realtà dell'Italia unita nel 1861 è ben diversa da quella descritta da chi si gonfia il petto ricordando l'eroismo dei garibaldini e i discorsi altisonanti dei patrioti e dei governanti: l'Italia del 1861 era un paese povero e analfabeta, unito dalla fame, dall'ignoranza e dalle malattie. Non certo da idee e valori che appartenevano a pochi.

Camillo Benso conte di Cavour, il primo capo del governo dell'Italia unita, morì nel giugno 1861 all'età di 50 anni per le conseguenze della malaria che l'aveva colpito da giovane, quando abitava in mezzo alle risaie del vercellese. Era ricco, apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri, ma la sua vita si interruppe a pochi mesi dalla proclamazione dell'Unità.

Se questa è stata la sorte del primo ministro, figuriamoci come viveva il resto d'Italia. La malnutrizione era diffusa, quasi l'80% degli italiani era analfabeta, come ricorda la Banca d'Italia in una mostra (vedi qui), la vita media era breve, attorno ai 30 anni, la maggior parte degli italiani campava d'agricoltura e non sapeva cosa ci fosse al di fuori del piccolo territorio in cui viveva. E di certo nel resto d'Europa le cose non andavano tanto meglio.

Dunque era un pò paradossale la richiesta di inserire le radici cristiane nella Costituzione europea: un destino comune fatto di fame, analfabetismo e malattie ha unito i popoli molto più delle religioni. Infezioni e malattie hanno sempre ucciso più delle guerre.

Se oggi si vive meglio e più a lungo, dobbiamo ringraziare le persone con il loro ingegno e il loro lavoro, che non a caso è l'elemento fondativo della Repubblica, come ci ricorda l'articolo 1 della Costituzione. Il lavoro e non la religione ha migliorato la vita di milioni di persone che oggi vivono, in media, quasi il triplo di un cittadino del 1861.

PS: la Banca d'Italia ricorda che a fine Ottocento, sotto il peso di ignoranza e analfabetismo, moltissimi rifiutavano le banconote, forse perché non sapevano leggere le cifre scritte sulla carta, e preferivano le monete in metallo prezioso.

Anche oggi in molti vorrebbero tornare alle monete in metallo prezioso....l'analfabetismo è sempre tra noi.

Qui il link della Banca d'Italia sull'Unità

20 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 2

Proseguiamo con Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Mondadori

I neoborbonici spiegano che il tonnellaggio totale delle navi ai tempi dei Borboni era molto elevato, ma non raccontano che "nonostante il sensibile aumento del naviglio, la maggior parte delle imbarcazioni era dedita alla pesca e al piccolo commercio costiero...si spiega pertanto come il tonnellaggio medio della flotta mercantile napoletana fosse soltanto un terzo di quello del Regno di Sardegna".

Ricordano che la prima ferrovia italiana è nata nel napoletano, ma non ricordano che mentre le ferrovie inondavano il resto d'Europa, "a Napoli c'erano più chiacchiere che fatti" e che, come ricordava il ministro delle finanze De Ruggiero nel 1849 "non vi era quasi viaggio nel quale non si aveva a soffrire un sensibile ritardo, dovendosi di necessità chiamar quasi sempre i soccorso di un'altra macchina.. [a causa dello] stato deplorevole delle locomotive...quasi tutte inutili al servizio".

E cosa pensare dei vari record del Regno delle Due Sicilie citati dai neoborbonici? Castronovo non li nega: "Napoli [aveva] la corte più fastosa, l'aristocrazia più agiata e sfavillante, l'esercito più numeroso, la marineria più consistente" ma contestualizza il tutto. "Tutt'intorno [c'erano] il deserto desolante dei latifondi, le campagne più povere e depredate, le strade meno praticabili, i contadini più sfruttati, la popolazione più analfabeta."

Il confronto con l'Italia centro-settentrionale non lascia dubbi: altrove c'erano "maggiori potenzialità di sviluppo, in primo luogo per gli effetti positivi indotti dal rinnovamento sia pur parziale dell'agricoltura e dal rifiori del movimento commerciale, per l'esistena di numerosi corsi d'acqua in grado di azionare le prime macchine... inoltre le filande e gli opifici [della] fascia prealpina..potevano disporre di ampi circuiti commerciali lungo le vie di comunicazione"
"In secondo luogo l'industria del nord poteva contare su un più alto indice di consumi interni: più articolato, meno ristretto era infatti lo scenario delle classi sociali e dei redditi famigliari. Infine la struttura urbana era più densa che nel mezzogiorno, più ricca di piccoli e medi centri".

Qui il precedente articolo sui neoborbonici

19 marzo 2011

Vittorio Ghidella









E'morto ieri, a 80 anni, Vittorio Ghidella, per qualche anno amministratore delegato di Fiat Auto, famoso soprattutto per aver progettato la Fiat Uno, ma anche la Lancia Delta e la Croma.

La Uno, prodotta in sei milioni di esemplari, fu fondamentale per rilanciare Fiat, in ginocchio dopo le crisi petrolifere degli anni '70.

Ma il successo non fece salire Ghidella al vertice del gruppo. Qualche anno dopo averla progettata finì per dimettersi, dopo uno scontro durissimo con l'amministratore del gruppo Cesare Romiti.

Non fu solo una lotta per il potere, che si estese anche ai dirigenti dell'azienda.
Ghidella voleva che il gruppo Fiat si concentrasse sull'auto, capì, sul finire degli anni '80, che i tempi dei profitti abbondanti stavano finendo, chiese investimenti e accordi con altri produttori.
Romiti invece era uomo di potere e di finanza, mandato da Cuccia a rimettere in sesto Fiat e a salvaguardare i prestiti bancari. Avevaimparato la lezione di Cuccia, che non amava l'industria, non condivideva l'entusiasmo degli imprenditori per il lavoro in fabbrica e i prodotti. Guardava i bilanci e decideva senza riguardi per nessuno.

Ghidella si scontrò con Romiti e perse. Gianni Agnelli si era schierato col manager romano.

La storia gli ha dato ragione. Non solo perchè gli investimenti di Romiti in molti settori economici si rivelarono un disastro per Fiat, costretta a vendere partecipazioni acquistate a caro prezzo e a registrare perdite colossali, ma anche perchè la Fiat di Marchionne sembra quella sognata 25 anni fa da Ghidella. Un'azienda concentrata sull'auto, checerca di diventare un produttore mondiale, entra nel mercato americano con Chrysler e punta a crescere nei mercati emergenti.

Chissà se il giovane Elkann troverà il tempo per ricordare Ghidella. E gli errori del nonno.

17 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 1


Oggi si celebrerà il 150° anniversario della unità d'Italia, anniversario della firma decreto che sanciva la nascita del Regno d'Italia.

Qualcuno non gradisce. I leghisti odiano l'idea di un'Italia unita e dimenticano che il nucleo più consistente dei garibaldini partiti da Genova erano bresciani e bergamaschi. Ma anche al sud c'è chi non ama l'unificazione. I neoborbonici credono che il regno delle Due Sicilie era una sorta di paradiso economico, trasformato in purgatorio se non proprio in inferno dai Savoia e dai governi dell'Italia unità.

Valerio Castronovo è un celebre storico italiano. Nel libro L'industria italiana dall'Ottocento a oggi (Mondadori, 1980) ci sono informazioni sufficienti a capire se il sud era l'isola felice descritta da alcuni neo-borbonici. Ne riporto alcuni passi perchè chi lo desidera si possa fare un'idea di cos'era davvero il sud al tempo dell'unificazione del paese.

"La più alta percentuale di popolazione dedita all'industria rispetto al resto del paese, che alcune statistiche attrinuivano al Mezzogiorno al momento dell'Unità, potrebbe generare false impressioni. In realtà l'economia meridionale accusava fin dalla prima metà del secolo accentuati sintomi di debolezza e ristagno. I motivi ..vanno ascritti alle condizioni particolarmente arretrate dell'agricoltura, gravata dalla sopravvivenza di estesi latifondi... nè le campagne meridionali avevano conosciuto lo sviluppo di grandi operre di bonifica, dissodamento e di sistemazione idraulica, come era avvenuto in val padana e in alcune zone della Toscana".

"Non si era avuto al Sud un processo reale di trasformazione economica e sociale... i nuovi ceti emergenti erano non meno riluttanti ... a incrementare gli investimenti e a modificare i vecchi contratti di colonìa ... fondati sullo sfruttamento oppressivo dei contadini."

"La sopravvivenza di un'oligarchia poco incline a ...rinnovare le tecniche di lavorazione agì da freno anche per lo sviluppo di altre attività economiche ... [perpetuando] il carattere eminentemente speculativo del sistema creditizio e del commercio agricolo, monopolizzati da gruppi d'affaristi le cui operazioni [vettovagliamento truppe e appalto di monopoli dello Stato] gravavano pesantemente sulle finanze pubbliche e sottraevano risorse ai settori più dinamici".

"In questa situazione ... l'attività industriale aveva presto assunto risvolti speculativi. Ciò valeva in particolare per l'industria cotoniera... i progressi nella coltivazione del cotone.. avevano indotto alcuni commercianti svizzeri a stabilire varie manifatture [in alcune zone della Campania], protetti dopo la Restaurazione dal governo borbonico, che aveva loro accordato un inasprimento delle tariffe doganali... ma le loro iniziative non avevano fatto da battistrada a una più ampia diffusione diffusione dell'industria tessile. Il monopolio sul mercato interno e altri privilegi di cui godevano le società svizzere avevano scoraggiato ulterori investimenti nella lavorazione del cotone...Scarsi rimasero i rapporti fra l'industria tessile [i macchinari arrivavano dall'estero e sfruttavano il basso costo del lavoro per esportare i prodotti all'estero]"

"L'industria meccanica [è] cresciuta in gran parte non tanto sulla base di investimenti privati, quanto sulla protezione e sui contratti sottoscritti dal governo. Nel 1860 l'officina di Pietrarsa era seconda per entità solo a quella di Sampierdarena...tuttavia in un periodo in cui in Liguria, Piemonte e Lombardia il protezionismo doganale non sorreggeva più da tempo le fortune di officine meccaniche e di costruzioni marittime, a Napoli l'industria meccanica continuava a vivere esclusivamente grazie ai pesanti dazi stabiliti sui prodotti esteri."

"Malgrado le sue dimensioni, essa non fu in grado di generare nuova domanda o di promuovere tutt'intorno un tessuto connettivo di nuove imprese sussidiarie".

15 marzo 2011

La produzione di energia elettrica in Italia

















Quanta energia si produce e come, in Italia?

Nel 2009 si sono prodotti 292.642 GWh, l'8,3% in meno dell'anno precedente, divisi in tre grosse categorie:

1 - 219.007 GWh provengono dal termoelettrico;
2 - 4.305 GWh sono prodotti dall'idroelettrico da pompaggi;
3 - 69.330 GWh arrivano da fonti rinnovabili.

In pratica 3/4 arrivano da termoelettrico e 1/4 da fonti rinnovabili.

Il termoelettrico è prodotto per 2/3 con gas, per poco più del 10% usando prodotti petroliferi e per il resto da comustibili fossili e solidi.

Le fonti rinnovabili invece consistono per il 70% in produzione idroelettrica. Con l'eolico si producono poco più di 6500 GWh e con il fotovoltaico solo 677. Circa 13000 GWh arrivano invece da geotermico, biomassa e rifiuti.

Se si confrontano i dati con l'anno precedente si nota il calo consistente nella produzione (-8,3%) provocato dalla crisi, derivante dal saldo tra una minore produzione di termoelettrico (-35000 GWh) e un aumento delle rinnovabili (circa 10.000 Gwh).

La crisi economica ha aiutato l'ambiente, aumentando il peso delle fonti rinnovabili sulla produzione totale.

13 marzo 2011

L'eredità di Keynes

Il mio primo manuale di economia definiva l'economia come la disciplina che studia cosa si produce, come si produce e per chi si produce. Adotttava il punto di vista dell'azienda, che offre beni e servizi per soddisfare una domanda che l'impresa non può modificare facilmente.

La singola impresa può offrire prodotti più competitivi, sottrarre clienti ai concorrenti, diminuire i costi ecc ma non influenza la domanda, se non in modo marginale.

Il punto di vista "aziendale" ha influenzato le scelte degli economisti, che per molto tempo hanno trascurato la domanda, convinti che dipendesse dall'offerta e che difficilmente potesse diminuire al punto da provocare crisi economiche prolungate.

La legge di Say, elaborata a inizio ottocento spiegava che la domanda si adegua sempre all'offerta.

Say osserva che in un'economia basata sul baratto, chi produce un bene e non lo consuma, non vede l'ora di scambiarlo con un altro bene, che vuole consumare. L'offerta determina la domanda che perciò non può scendere troppo, garantendo che l'economia non subisca crisi violente. Inoltre Say considerava la moneta una merce che si scambia con altre merci.

Più di un secolo dopo, il protrarsi della crisi del 1929 ha spazzato via la legge di Say: le imprese offrivano beni e servizi, ma la domanda era insufficiente.

Keynes ha spiegato che la domanda non dipende dall'offerta, che la moneta non è una merce da barattare con altre merci, e che, specie nei momenti di incertezza, non si corre a spendere i soldi.

Grazie a Keynes, la domanda aggregata è diventata oggetto di studio, e si è posta in relazione la domanda aggregata con il reddito e le scelte di consumo delle persone.

Grazie a Keynes si è compreso che se la domanda è debole, le imprese non investono e non creano nuova occupazione e che una crisi può aggravarsi, richiedendo misure drastiche, compreso il ricorso al debito, per frenare la caduta dell'economia e rilanciare la domanda e l'occupazione.

Keynes ha avuto il merito di aver offerto un nuovo punto di vista da cui osservare l'economia.
Al punto di vista dell'impresa che offre beni e servizi, si è affiancato il punto di vista dello stato e dei lavoratori, ognuno con proprie esigenze.

Keynes ha messo al centro dell'economia il tema dell'occupazione, ha criticato le riparazioni di guerra imposte alla Prussia sconfitta nella prima guerra mondiale ed ha fatto parte della delegazione britannica a Bretton Woods. Avrebbe voluto diritti di prelievo più consistenti, per rendere più stabile il sistema, ma ha perso, sconfitto dagli americani poco inclini a limitare gli interessi privati.

E ha lasciato un forte insegnamento alle generazioni successive di economisti: l'economia non può essere ridotta allo studio e alla difesa degli interessi di imprese e privati cittadini, ma è una disciplina a più ampio respiro che può anzi deve occuparsi di tutti gli aspetti economici della vita e degli interessi di tutti.

Ben altro dall'opinione, diffusa da chi non gradisce Keynes e considera l'economia una disciplina al servizio degli interessi privati, secondo cui "keynesiano" è chi predica un costante aumento della spesa e del debito pubblico.

11 marzo 2011

Il mercato del lavoro


Il mercato del lavoro

Parlare di mercato del lavoro significa nella maggior parte delle volte ricadere in una lunga enumerazione di problemi, in genere opposta a seconda che la si guardi dal lato del dipendente o dal lato del datore di lavoro.
Io invece voglio analizzare la questione da un punto di vista prettamente fiscale, provando anche a fornire qualche interessante soluzione.
Innanzi tutto partiamo da un dato: quanto costa un lavoratore dipendente all’azienda?
Poniamo alcuni parametri:
- trascuriamo alcuni settori particolari come l’edilizia o l’agricoltura
- consideriamo TUTTI i costi, compresa l’IRAP, che come sappiamo incide direttamente sul costo del lavoro, in quanto quest’ultimo non è deducibile dalla base imponibile IRAP, l’INAIL, le addizionali comunali e regionali, il TFR.
Orbene i risultati sono i seguenti:
1. il dipendente avrà netto in busta paga 1.200 € al mese per 13 mensilità, quindi 15.600 € l’anno.
2. Il costo aziendale per un dipendente è pari a 31.240 €

E’ del tutto evidente che la forbice è semplicemente troppo ampia: il dipendente prende troppo poco e al datore di lavoro costa troppo.

Questo ha i seguenti effetti:

1. Nel momento in cui assumo un dipendente io, datore di lavoro, farò i calcoli sul rendimento del dipendente partendo dal costo del lavoro, quindi un dipendente che mi costa oltre 30.000 € l’anno dovrà essere un dipendente già qualificato, serio e di sicuro affidamento. Viceversa per il dipendente 1.200 € al mese saranno uno stipendio da fame e quindi si sentirà sottopagato!
2. I dipendenti non avranno reddito disponibile da spendere, infatti con 1.200 € al mese e con un affitto o un mutuo da pagare, non rimane nulla per “far girare l’economia”. Per dirlo con uno slogan. E guarda caso la bassa crescita dell’Italia negli ultimi 15 anni è dovuta in buona parte alla debole domanda interna. Ma come può essere forte la domanda interna se ai dipendenti non rimane niente da spendere?
3. Come si può biasimare un datore di lavoro se invece di assumere un dipendente gli fa fare lo stesso lavoro qualificato (!?) dandogli 2000 € al mese (più IVA) facendogli aprire la partita IVA? Il dipendente è più contento perché ha più soldi in tasca e lui detrae tutto e risparmia!
4. Certe lavorazioni in Italia non si possono più fare perché antieconomiche. E qui non parliamo di concorrenza cinese a 400 € al mese, ma rendiamoci conto che un operaio statunitense è più economico di uno italiano.

Allora cosa fare?

Io posso azzardare alcune ipotesi:

1. Se si vogliono mantenere alcune garanzie, quindi lo stesso livello retributivo che garantirà la stessa pensione, non si possono toccare i contributi versati, a meno che non sia lo stato stesso, per scelta politica, a versarne una parte. Una soluzione potrebbe essere introdurre degli sgravi contributivi, come succede attualmente con i contratti di apprendistato, facendo in modo che una parte dei contributi li versi lo stato, in particolar modo quelli a carico del datore di lavoro (circa il 9%). Attualmente l’agevolazione dei contratti di apprendistato dura 3 anni e fino all’età di 26-28 anni. Però se fossero estesi ad esempio per 10 anni, e per lavori qualificati, allora, dopo 10 anni per il datore di lavoro sarebbe altamente antieconomico liberarsi di un dipendente per far posto ad un altro da addestrare da zero.
E’ ovvio che tale agevolazione non andrebbe applicata ai lavori con bassa qualifica.

2. Diminuire la tassazione sul lavoro dipendente e aumentarlo su quello autonomo, in modo che assumere un dipendente sia più economico che servirsi di un professionista o di un artigiano con partita IVA. Questo sarebbe di forte contrasto all’evasione, in quanto i lavoratori dipendenti non posso evadere (o almeno, evadono molto poco...). Inoltre diminuendo il numero delle partite IVA si potrebbero aumentare i controlli su tutti gli altri. Ciò andrebbe accoppiato con una riforma della tassazione delle società, introducendo una “tassa sulle società” apposita. Infatti oggi le società di persone pagano l’IRAP e i soci l’IRE, non pagano tutti l’IRES.

3. Eliminare la possibilità di avere soci lavoratori: tutti i soci di tutte le società dovranno essere dipendenti, per lo stesso motivo sopra.

4. Diminuire la tassazione in generale, in modo di diminuire la differenza tra costo del lavoro e busta paga percepita dal lavoratore.

La riforma, non accontenterebbe tutti: lavoratori autonomi e professionisti sarebbero svantaggiati e le aziende con dipendenti sarebbero avvantaggiate. Ma queste sarebbero scelte puramente politiche.

09 marzo 2011

L'asino economico: l'amministratore delegato di Enel

Pare che la poltrona dell'amministratore delegato dell'Enel sia a rischio: Fulvio Conti potrebbe presto lasciare il posto a un uomo designato dalla Lega Nord. E così lui sembra trasformarsi nell'attore di uno spot a favore del nucleare, con previsioni a lungo termine che fanno sorridere.

Conti stamattina ha spiegato (allego in fondo le dichiarazioni riportate da msdowjones.it) che se tutto va bene (e c'è da dubitarlo) la prima centrale nucleare entrerà in funzione nel 2020. Enel punta a costruirne 4 in collaborazione con la francese EDF e, a fronte di una spesa di 18 miliardi, a creare 3500 posti di lavoro per ogni centrale. Il tutto poi con forti ricadute socio-economiche, sul clima (le centrali nucleari non producono CO2), sulla ricerca e lo sviluppo, ecc (l'intera dichiarazione la trovate in fondo).

Viene da ridere.

In Finlandia, a Olkiluoto (vedi qui), la centrale in costruzione, simile a quelle perviste in Italia, costerà il 50% in più del previsto (1,7 miliardi di euro in più rispetto ai 3,2 miliardi di euro stabiliti da contratto) ed ha un ritardo di 3 anni dopo 3 anni di lavoro. Possiamo dunque credere che si costruirà la prima centrale nucleare nel 2020 e con i costi preventivati?

E quali saranno le forti ricadute per l'Italia? Enel e il governo sembrano sparare cifre a caso sul ruolo del nucleare. Per il governo si punta a coprire il 25% del fabbisogno di energia elettrica, per l'Enel la metà.

Se ha ragione Enel e se -per ipotesi- l'energia nucleare costasse un terzo in meno della media delle altre forme energetiche, lo sconto sulle bollette sarebbe del 5%. Tra 15-20 anni, quando le centrali entreranno in funzione.

Dunque le dichiarazioni di Conti fanno sorridere. Chi conosce l'economia sa che è molto difficile fare previsioni a così lungo termine, specie in un settore come la produzione di energia elettrica in cui la tecnologia può cambiare tutto in poco tempo.

Nei prossimi 20 anni le centrali esistenti saranno modificate
, arriveranno nuove tecnologie che ridurranno i consumi di petrolio o carbone a parità di energia prodotta e si svilupperanno nuove tecnologie capaci di produrre energia in modi alternativi e più efficienti.

Quello di Conti sembra uno spot ingannevole, come quello sul forum nucleare di recente bocciato dal giurì di autodisciplina pubblicitaria (vedi qui), elaborato senza alcuna conoscenza dell'economia.




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"Sul nucleare non siamo fuori tempo massimo, i nostri tecnici stanno continuando a lavorare". Lo afferma l'a.d. di Enel, Fulvio Conti, parlando in audizione alla Camera.

"Se entro l'anno sara' completata la parte amministrativa e si riuscisse ad avere la piena funzionalita' dell'Agenzia per la sicurezza nucleare -spiega Conti- sara' ancora possibile avere la prima centrale entro il 2020, come previsto". Per rispettare l'obiettivo 2020, ha aggiunto Conti, "entro il prossimo anno dovrebbe partire il processo di richiesta delle autorizzazioni per i siti".

Quello che serve all'Italia, ha aggiunto ancora Conti, e' un mix bilanciato di fonti, con "un po' di nucleare. Il Governo dice il 25%, noi con EdF ci prefiggiamo il 12,5%, ma se riusciremo a fare di piu', sara' anche meglio. Quello che serve e' avere la certezza sui tempi, il riconoscimento degli stranded cost - per cui se cambia il Governo e si decide che il nucleare non si fa piu' c'e' bisogno di qualcun altro che paghi per questo, perche' nel frattempo noi abbiamo fatto gli investimenti - e quindi una logica di lungo termine".

Sul fronte dei costi, Conti ha ricordato che per la prima unita' serviranno 5 miliardi di euro, per la seconda 4,7 mld, per la terza 4,3 mld e per la quarta 4 mld, per un totale di 18 miliardi di euro. Ogni unita' prevede ricadute occupazionali per circa 3.500 persone. Uscire dal nucleare fu "un errore strategico, politico ed economico con tragiche e costose conseguenze"; il ritorno al nucleare, invece, porta al sistema Paese "notevoli ricadute socio-economiche", in termini di competitivita', sicurezza degli approvvigionamenti e lotta al cambiamento climatico, oltre a dare "un forte impulso per l'occupazione, la formazione specialistica e l'universita'".

Conti ha inoltre fatto il punto sul contributo dato all'Italia dall'Enel: nel periodo 1999-2010 Enel ha dato un contributo quantificato in 180 miliardi di euro per lo sviluppo del sistema Paese. Il manager ha fatto riferimento, fra l'altro, ai 34 miliardi di dividendi distribuiti, agli oltre 28 miliardi fra imposte sul reddito e contributi previdenziali e ai circa 33 mld derivanti dalla privatizzazione dell'Enel.

Fulvio Conti ha poi evidenziato la crescita dell'azienda, spiegando che "ci siamo indebitati il giusto per consentire lo sviluppo". Enel ha "usato la leva del debito come e' giusto che sia quando si fanno operazioni di trasformazione di questo tipo e abbiamo anche usato la leva propria con l'aumento di capitale che e' stato un grande successo per consentire che le dimensioni dell'azienda venissero piu' che raddoppiate. Abbiamo un rapporto fra debito ed Ebitda di 2,6 volte, al di sotto di aziende piu' celebrate, che hanno invece performance peggiori delle nostre"

Quando i titoli di stato rendevano il 5%

Nel 1900 i titoli di stato rendevano il 5%. L'importo del singolo titolo, numerato a mano, era di 30 lire.

Ecco com'erano.

L'ha scovato su una bancarella Romeo G., che ringrazio per la scansione.

L'italiano...

Comprereste un'auto usata da...?

E' la domanda retorica che si usa, ricordando una vecchia pubblicità americana, per chiedersi se una persona è credibile.

Visto il banner in questo sito c'è da domandarsi: accettereste consigli di investimento da chi non sa scrivere "obbligazioni" in modo corretto?

07 marzo 2011

Le regole di Basilea e il paradosso di Lehman Brothers

Basilea, che ospita la sede della Banca dei Regolamenti Internazionali, è la capitale mondiale delle regole che riguardano il mondo bancario.

Da qualche anno le banche si impongono regole prudenziali che prendono il nome della città svizzera: Basilea I, Basilea II indicano gli accordi che impongono alle banche di possedere taluni requisiti patrimoniali. In pratica la banca sommano i diversi prestiti concessi alla clientela, ognuno "pesato" per la sua rischiosità, e si impone che il capitale detenuti dalle banche a scopi prudenziali superi una certa percentuale degli impieghi ponderati per il rischio.

A cosa serve tutto ciò?

Se presti 100 euro -questa è la logica- devi avere almeno 6 euro in contanti, o in titoli facilmente trasformabili in contanti, per fronteggiare i rischi. Rischi di subire perdite, se il cliente non paga o di subire una fuga di capitali, se chi ha depositato soldi in banca li ritira spaventato dalle perdite.

Se la banca ha una riserva liquida (o quasi) da usare, si evita il panico e si dà tempo alla banca di cercare altri capitali.

E' per questo che ogni tanto si legge che una banca ha calcolato il proprio core tier 1 e che supera i valori minimi previsti dall'accordo di Basilea. E' un modo per dire: tutto a posto, state tranquilli, i vostri soldi sono in buone mani.

Le banche italiane hanno un core tier 1 superiore al 6% (si veda qui). E' un buon segno, ma è un dato importante?

Lehman Brothers
, la banca americana il cui fallimento ha causato il crollo dell'economia nel settembre 2008, aveva un core tier era del 10%: Lehman Brothers stava meglio di tante altre banche in tutto il mondo, anche se poi è fallita.

Si può pensare che i parametri sono relativi, che i valori imposti non garantiscono per davvero nulla e nessuno, e che servirebbero percentuali più elevate per garantire il cliente.

E' così? No e la ragione è che il core tier 1 va spiegato. Si immagina che una banca possa subire perdite perchè il cliente non restituisce i soldi ricevuti in prestito e che i correntisti possano ritirare i propri soldi. Se questo avviene, le riserve della banca possono tamponare la ferita. Dimostrando che con i propri capitali la banca può coprire il "buco", la banca può evitare ulteriori fughe di capitali e sistemare temporaneamente la situazione in attesa di trovare nuovi capitali.

Ma non serve a nulla se i clienti continuano a ritirare i capitali dalla banca o se ci sono clienti che hanno depositato somme enormi che possono ritirare all'improvviso, come nel caso di Lehman Brothers.

Un core tier del 10% significa che a fronte di prestiti per 100 miliardi di dollari, Lehman aveva almeno 10 miliardi in contanti. C'erano però hedge funds che avevano depositato presso la banca somme gigantesche e quando hanno ritirato tali fondi, la liquidità di Lehman s'è prosciugata velocemente.

Con le banche tradizionali tutto ciò è molto più difficile, perchè dispongono di migliaia di piccoli correntisti che non ritirano i capitali con la stessa facilità e velocità di un hedge fund, come dimostra la vicenda di Erik Cantona (vedi qui).

Così si spiega il paradosso di Lehman Brothers, che aveva un core tier 1 molto elevato prima di fallire.

Il core tier 1 è come l'estintore. Utile se c'è un piccolo incendio, inutile se brucia un intero edificio. Il core tier 1 dice che la banca in caso di necessità ha soldi da parte e li può usare per spegnere l'incendio. Ma se l'incendio divampa, vale a dire se i capitali fuggono, i pochi soldi messi da parte non sono sufficienti e la banca fallisce, come successo con Lehman Brothers, se non trova altri capitali con cui rimpiazzare i miliardi che hanno lasciato la banca.

04 marzo 2011

Due paradossi della scuola

La lettera di una professoressa di latino a Repubblica (vedi qui) sull'inutilità della materia, spinge a chiedersi: perchè la scuola italiana ha tanti problemi?

La prima cosa che viene in mente sono i tagli ai fondi pubblici destinati alla scuola. Ma possono i tagli a spiegare perchè la scuola non prepara in modo adeguato e magari offre materie come il latino e il greco che gli studenti paiono amare sempre meno?

A mio avviso no. C'è qualcosa di paradossale nella scuola italiana. Anzi i paradossi sono due. Del primo parla la Banca d'Italia in uno studio sulla qualità dei servizi pubblici italiani (vedi qui). Dove gli studenti ottengono i voti migliori, le competenze reali, misurate con test uguali per tutti, sono inferiori e viceversa nelle regioni in cui gli studenti ricevono voti più bassi, le competenze reali sono superiori.

Il paradosso si spiega con il diverso ambiente lavorativo: dove conta maggiormente la competenza reale, i docenti sono più severi e meno propensi a fare regali agli studenti. La scuola perderebbe credibilità se assegnasse voti alti a chi non li merita.

Dove invece contano di meno le imprese private e le competenze reali e si spera di più nel concorso pubblico, accade il contrario: conta il voto alto e il docente regala qualcosa, sapendo che in tal modo offre un vantaggio al proprio studente.

Se conta il voto, lo studente ha interesse a fare scelte che aumentano i voti, anche a scapito delle competenze reali. Se conta il voto, non c'è interesse a rendere migliore, più seria e severa la scuola: se è più facile prendere un buon voto in latino che in chimica, lo studente preferirà il latino e non vorrà una scuola che dedica più attenzione alla chimica.

Il secondo paradosso invece è farina del mio sacco. Immaginate una scuola molto semplice in cui si insegnino due materie, il latino e la chimica. Al termine degli studi, ci si può laureare in chimica o in letteratura latina (latino, per semplificare).
Se le imprese hanno bisogno più di chimici che di latinisti, cosa succederà ai chimici e ai latinisti usciti dagli studi universitari?

Chi ha più probabilità di trovare in poco tempo lavoro ben pagata in un'impresa privata e di fare carriera? Il chimico, naturalmente. E chi invece busserà alla porta della scuola alla ricerca di una cattedra, magari provvisoria? Il latinista.

Ma se i migliori chimici trovano un buon lavoro nelle imprese private, mentre buona parte dei migliori latinisti aspira a diventare insegnante, gli studenti avranno ottimi professori di latino e insegnanti meno bravi, preparati e motivati in chimica. Anzi è possibile che l'insegnante di chimica sia un chimico un pò frustrato, non essendo riuscito a trovare un buon lavoro come chimico in un'azienda privata. O magari -nella realtà- non è neppure un chimico. E' magari un fisico o altro che insegna anche chimica.

E' chiaro il paradosso: i migliori insegnanti sono esperti nelle materie meno richieste dalle imprese private. Ma proprio perchè sono i migliori, i più preparati, quelli che hanno studiato di più e con più entusiasmo la loro materia (il latino) preparano gli studenti meglio in latino.

Le imprese richiedono più chimici che latinisti, ma la scuola offre lezioni migliori in latino. E magari offre anche più ore di latino che di chimica, perchè se ci sono molti latinisti e pochi chimici che aspirano a una cattedra, al ministro dell'istruzione può venire in mente la soluzione: aumentiamo le ore di latino, così occuperemo i latinisti che non trovano un altro lavoro.

I due paradossi spiegano perchè la scuola va a rotoli a prescindere dalla disponibilità di soldi. E forse lo spiega da sola anche l'insegnante precaria, che ingenuamente sembra credere che il latino sia una buona materia per imparare a ragionare. Quasi che non fosse possibile ragionare studiando un'altra materia.

03 marzo 2011

Come bruciare 120.000 posti di lavoro (per fare una centrale nucleare)

Per molti mesi, nel 2010, ci siamo indignati dell'assenza del ministro dello sviluppo economico, ma forse abbiamo sbagliato. Infatti Paolo Romani, un imprenditore televisivo con un passato burrascoso e fedelissimo del presidente del consiglio, fa rimpiangere il periodo in cui al ministero c'era Berlusconi, ovvero nessuno.

Infatti Romani è intenzionato a ridurre drasticamente gli incentivi alle energie rinnovabili.

Produrre energia con i pannelli solari o le pale eoliche conviene, grazie agli incentivi.
Lo stesso succedeva con l'energia nucleare. Per far digerire il rospo dell'energia nucleare si erano studiati incentivi economici e regole che impedivano alle amministrazioni locali di ostacolare la costruzione di centrali.

I referendum sul nucleare hanno spazzato via incentivi e regole restrittive e con essi le centrali. Invece la tecnologia offre oggi pale eoliche, pannelli solari e altri modi per produrre energie rinnovabili, mentre gli accordi internazionali e le regole nazionali prevedono disincentivi economici a carico di chi inquina e incentivi a vantaggio di chi produce energia pulita.

Romani vorrebbe capovolgere tutto questo, tagliando gli incentivi alle rinnovabili, con la scusa che l'Italia raggiungerà nel 2011 l'obiettivo di 8.000 megawatt previsto per il 2020, mettendo a rischio 120.000 posti di lavoro, mentre costruzione di centrali nucleari, che se va bene avverrà tra molti anni, con costi elevati per la collettività e non produrrà alcun vantaggio immediato sulle bollette energetiche, assomiglia a una faccenda militare, col governo che impone e nessuno che può opporsi.

Le scelte di Romani hanno sortito, per ora, l'effetto sperato: il decreto legislativo oggi rinvia le decisioni sugli incentivi. 120.000 posti sono salvi, almeno fino a giugno.

Certo è curioso un governo che in un periodo di crisi mette a rischio 120.000 posti di lavoro per incentivare la costruzione di centrali nucleari che, se tutto va bene, avverrà tra qualche anno.

Ancora più curioso se si pensa che il settore energetico corre come pochi altri e che le energie rinnovabili convengono, come racconta l'esperto di energie di Repubblica (vedi qui). Secondo una ricerca infatti a fronte di incentivi pari a 6,6 miliardi in 30 anni, i costi per chi produce anidride carbonica sono più che doppi, superando i 14 miliardi. A questi vanno aggiunti altri i mancati costi che da soli coprono quasi la metà della somma spesa in incentivi.

Insomma, Romani vuol far tornare indietro l'Italia al nucleare, mettere a rischio un settore in forte crescita, eliminare gli incentivi e gravare le tasche di tutti noi di spese che possiamo evitarci.

Si stava meglio quando il ministro dello sviluppo economico era impegnato a procurarsi ragazze per il bunga-bunga e non pensava ad un modello di sviluppo economico vecchio. Come lui.

02 marzo 2011

Gheddafi, l'aspetto ridicolo della tragedia

La tragedia libica offre anche momenti divertenti. Ecco due notizie odierne.

1 - "Sono pronto a una verifica dei miei conti. Il mio salario è di soli 465 dinari (273 euro), non ho asset, non ho orgoglio ad avere dollari americani" ha detto oggi il dittatore libico. Da non crederci.

2 - Oggi per la prima volta dal 22 febbraio, Unicredit è riuscita a rintracciare il proprio vicepresidente, il governatore della banca centrale libica Farhat Omar Bengdara.
Quando qualcuno chiedeva al presidente Rampl dove fosse il rappresentante del primo azionista di Unicredit, lui rispondeva: non riusciamo a contattarlo. E poi dicono che le banche...

01 marzo 2011

Legati mani e piedi!


Colgo l'occasione di un articolo per tornare sul tema Banche.

Alcune banche hanno introdotto un balzello: fino a 3 Euro per prelevare contante allo sportello!
Questo è il risultato della lotta al riciclaggio e all'uso del contante: adesso ci troviamo costretti a usare per pagamenti ed incassi solo ed esclusivamente le banche e queste sono libere di modificare i costi come gli pare!

Ma questa non è l'unica trovata: costi per effettuare i bonifici fino a 10 Euro per le ristrutturazioni (che vanno effettuati OBBLIGATORIAMENTE in banca e non si possono fare on line!), costi per i bonifici RICEVUTI, costi per ritirare il contante, costi per l'affidamento, costi per lo sconfinamento, costi per l'home banking, costi per l'addebito delle utenze, costi per pagare le ricevute bancarie (o i RID), costi per incassare le ricevute bancarie (o i RID), polizze obbligatorie nel caso di mutui casa, interessi sugli interessi (sembravano sconfitti, invece, a volte, ritornano...), tassi passivi al limite dell'usura e tassi attivi pari a zero!

E come bel corollario: non si può usare un sistema alternativo, altrimenti si incentiva il reciclaggio!

In sostanza siamo costretti a usare le banche - e non mi dilungo di come siano ridotte le imprese - e queste possono modificare le condizioni a loro piacimento inserendo costi come vogliono.

Direi che come minimo ce la siamo voluta....

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