In 10 giorni il tranquillo Mario Monti s'è trovato alle prese con una serie di emergenze e di incontri stressanti: è andato a Camp David per il G8, a Chicago per parlare di NATO, a Brindisi per i funerali di una sfortunata ragazza, poi è arrivato il terremoto in Emilia, è andato a Bruxelles per la riunione informare dell'eurozona, ha affrontato la strana proposta di Catricalà sul CSM e oggi si trova a fare i conti con i danni pesantissimi e i morti in Emilia.
In mezzo a tutto ciò ha trovato il tempo per commentare le inchieste sul calcio corrotto, spiegando che se fosse per lui occorrerebbe sospendere il campionato per 2-3 anni per far maturare il paese.
Dichiarazioni che hanno, giustamente, scatenato le critiche, soprattutto perchè Monti ha aggiunto che il calcio usa soldi pubblici per coprire le perdite. A cosa si riferiva Monti? Forse alla leggina inventata nel 2003 che consentiva di svalutare i calciatori e spalmare la svalutazione in 10 anni. Una norma peraltro nata per risolvere un problema molto contingente: offrire l'opportunità a molti presidenti di iscrivere le proprie squadre al campionato senza dover ricapitalizzare le società.
Monti, che nel 2002-3 era commissario europeo, forse si lamenta del calcio ricordando la pessima figura dell'Italia guidata da Berlusconi che si inventò il decreto salva-calcio?
Forse per questo o per lo stress, Monti ha partorito l'idea di sospendere il campionato di calcio. Una scelta che, se mai fosse attuata, vorrebbe dire distruggere il calcio professionistico italiano. Senza campionato le squadre dovrebbero licenziare i calciatori, perdendo i soldi spesi per acquistarli, e non potrebbero pagare i debiti, quindi fallirebbero.
Tutto ciò per risolvere i problemi di un calcio corrotto e per far maturare gli italiani? Sorge il dubbio che lo stress a cui è sottoposto Monti in queste settimane gli abbia ispirato strani desideri di moralizzare l'Italia come farebbe un parroco alle prese con qualche bambino dispettoso.
31 maggio 2012
29 maggio 2012
Ponzellini. Ovvero le banche controllate dalla politica
Da stamattina Massimo Ponzellini, ex presidente della Banca Popolare di Milano, è agli arresti domiciliari accusato di reati come la corruzione e l'appropriazione indebita.
Cosa faceva Ponzellini? Il banchiere al servizio dei politici del calibro di La Russa, Santanchè, Marco Milanese. Costoro lo chiamavano, gli chiedevano di far ottenere finanziamenti a favore di amici, gente che se si fosse recata in banca senza raccomandazioni sarebbe stata messa alla porta, e in cambio gli offrivano poltrone e soldi.
Sembra di essere tornati indietro di molti anni, prima della riforma bancaria dei primi anni '90. La politica nominava i banchieri e chiedeva loro di finanziare gli amici, vale a dire business deboli, che altrimenti non meritevoli di ricevere credito.
Ponzellini ha continuato a fare lo stesso lavoro, pare, appoggiato da politici che chiedevano favori e ringraziavano Ponzellini con soldi e cariche.
E questo che vorrebbe chi chiede di nazionalizzare le banche e sostituire i manager indipendenti (si spera) dalla politica con manager eletti direttamente dalla politica?
Cosa faceva Ponzellini? Il banchiere al servizio dei politici del calibro di La Russa, Santanchè, Marco Milanese. Costoro lo chiamavano, gli chiedevano di far ottenere finanziamenti a favore di amici, gente che se si fosse recata in banca senza raccomandazioni sarebbe stata messa alla porta, e in cambio gli offrivano poltrone e soldi.
Sembra di essere tornati indietro di molti anni, prima della riforma bancaria dei primi anni '90. La politica nominava i banchieri e chiedeva loro di finanziare gli amici, vale a dire business deboli, che altrimenti non meritevoli di ricevere credito.
Ponzellini ha continuato a fare lo stesso lavoro, pare, appoggiato da politici che chiedevano favori e ringraziavano Ponzellini con soldi e cariche.
E questo che vorrebbe chi chiede di nazionalizzare le banche e sostituire i manager indipendenti (si spera) dalla politica con manager eletti direttamente dalla politica?
28 maggio 2012
La verità di Barca
Fabrizio Barca, attuale ministro per la coesione territoriale, a L'infedele ha spiegato un paio di interessantissime verità.
Quando ero in Banca d'Italia e si stava costruendo l'unione monetaria, avevamo capito che si stava creando qualcosa molto instabile. Ma perchè lo si è fatto? Perchè i politici pensavano che nel caso fosse emersa un'instabilità che non si assorbisse da sola, il sistema politico europeo sarebbe intervenuto per porvi rimedio.
Una domanda sorge spontanea: qualcuno ha spiegato a Angela Merkel come è nato l'euro?
Quando ero in Banca d'Italia e si stava costruendo l'unione monetaria, avevamo capito che si stava creando qualcosa molto instabile. Ma perchè lo si è fatto? Perchè i politici pensavano che nel caso fosse emersa un'instabilità che non si assorbisse da sola, il sistema politico europeo sarebbe intervenuto per porvi rimedio.
Una domanda sorge spontanea: qualcuno ha spiegato a Angela Merkel come è nato l'euro?
25 maggio 2012
L'irrefrenabile voglia di uscire dall'euro
Nelle ultime settimane molti invocano l'uscita dall'euro e il ritorno alla lira o la creazione di un euro di serie B, destinato ai paesi meno competitivi. Un'idea che sembra basarsi sulla speranza di risolvere i problemi economici con il ritorno a una moneta svalutabile rispetto alle monete forti.
I guai della nostra economia si risolverebbero se potessimo tornare alla lira?
Facciamo un piccolo esercizio: andare sul sito dell'Audi e cercate l'auto più piccola, la A1. Il modello più conveniente, con un motore 1,2 litri, costa oltre 17.000 euro, oltre 5.500 euro in più di una Punto. L'Audi costa, in altri termini, circa il 50% in più di una Punto.
Possiamo pensare che una svalutazione aiuterebbe le imprese italiane a vendere più prodotti in Germania, se, inoltre, dai confronti internazionali il costo del lavoro italiano è decisamente meno caro di quello tedesco (come risulta ad esempio qui: http://www.assolombarda.it/fs/2008411165754_185.pdf )?
Come pensare che la possibilità di svalutare aiuterebbe di certo la Grecia dove i salari minimi non raggiungono i 600 euro mensili, contro una cifra almeno tripla di un operaio tedesco?
Le esportazioni, poi, sono cresciute dell'11% nel 2010 e del 5,6% nel 2011e le esportazioni "pesano" sul PIL molto meno dei consumi: un aumento dei consumi dell'1% ha lo stesso effetto sul PIL si un aumento di quasi del 3% delle esportazioni. Possiamo immaginare un PIL che aumenta supponiamo del 2% all'anno solo per effetto dell'aumento delle esportazioni (del 6% all'anno)? E infine possiamo credere che l'uscita dall'euro non avrebbe altro effetto se non quello di mettere il turbo alle esportazioni italiane?
Di sicuro se tornassimo alla lira lo spread salirebbe: chi sottoscrive i titoli di stato italiani chiederebbe un tasso più elevato per far fronte alla probabile svalutazione della moneta: se si svaluta del 2% all'anno, lo spread salirebbe almeno di 200 punti, con effetti disastrosi sui conti pubblici e sulla disponibilità e il costo del credito per famiglie e imprese.
Perchè allora uscire dall'euro? Forse per poter sperare di far salire le esportazioni a tassi cinesi e illudersi che in questo modo i problemi dell'economia si risolveranno?
Torniamo alla differenza di prezzo tra l'Audi A1 e la Fiat Punto: perchè un'auto si vende a un prezzo più elevato dell'altra? Se il prezzo fosse la sola determinante delle scelte dei consumatori, l'Audi non si venderebbe e chi svaluta costantemente la propria moneta vedrebbe crescere piùrapidamente la propria economia. Ma così non succede. L'Audi si vende a un prezzo superiore a altre auto e il prezzo (come la svalutazione della moneta) non è tutto: chi invoca il ritorno alla lira sottovaluta le conseguenze della sua proposta o forse cerca un modo per sfogare le frustrazioni, comprensibili dopo anni di crisi economica. Solo così si spiega l'irrefrenabile desiderio di uscire dall'euro.
I guai della nostra economia si risolverebbero se potessimo tornare alla lira?
Facciamo un piccolo esercizio: andare sul sito dell'Audi e cercate l'auto più piccola, la A1. Il modello più conveniente, con un motore 1,2 litri, costa oltre 17.000 euro, oltre 5.500 euro in più di una Punto. L'Audi costa, in altri termini, circa il 50% in più di una Punto.
Possiamo pensare che una svalutazione aiuterebbe le imprese italiane a vendere più prodotti in Germania, se, inoltre, dai confronti internazionali il costo del lavoro italiano è decisamente meno caro di quello tedesco (come risulta ad esempio qui: http://www.assolombarda.it/fs/2008411165754_185.pdf )?
Come pensare che la possibilità di svalutare aiuterebbe di certo la Grecia dove i salari minimi non raggiungono i 600 euro mensili, contro una cifra almeno tripla di un operaio tedesco?
Le esportazioni, poi, sono cresciute dell'11% nel 2010 e del 5,6% nel 2011e le esportazioni "pesano" sul PIL molto meno dei consumi: un aumento dei consumi dell'1% ha lo stesso effetto sul PIL si un aumento di quasi del 3% delle esportazioni. Possiamo immaginare un PIL che aumenta supponiamo del 2% all'anno solo per effetto dell'aumento delle esportazioni (del 6% all'anno)? E infine possiamo credere che l'uscita dall'euro non avrebbe altro effetto se non quello di mettere il turbo alle esportazioni italiane?
Di sicuro se tornassimo alla lira lo spread salirebbe: chi sottoscrive i titoli di stato italiani chiederebbe un tasso più elevato per far fronte alla probabile svalutazione della moneta: se si svaluta del 2% all'anno, lo spread salirebbe almeno di 200 punti, con effetti disastrosi sui conti pubblici e sulla disponibilità e il costo del credito per famiglie e imprese.
Perchè allora uscire dall'euro? Forse per poter sperare di far salire le esportazioni a tassi cinesi e illudersi che in questo modo i problemi dell'economia si risolveranno?
Torniamo alla differenza di prezzo tra l'Audi A1 e la Fiat Punto: perchè un'auto si vende a un prezzo più elevato dell'altra? Se il prezzo fosse la sola determinante delle scelte dei consumatori, l'Audi non si venderebbe e chi svaluta costantemente la propria moneta vedrebbe crescere piùrapidamente la propria economia. Ma così non succede. L'Audi si vende a un prezzo superiore a altre auto e il prezzo (come la svalutazione della moneta) non è tutto: chi invoca il ritorno alla lira sottovaluta le conseguenze della sua proposta o forse cerca un modo per sfogare le frustrazioni, comprensibili dopo anni di crisi economica. Solo così si spiega l'irrefrenabile desiderio di uscire dall'euro.
23 maggio 2012
Pensierino su Grillo e Michael Moore
Alla fine del film The Corporation, Michael Moore racconta l'ironia del fatto che i suoi film sono distribuiti dagli studios di proprietà di grandi corporations, nonostante i suoi film contestino tutto ciò in cui credono le corporations. Uso i loro soldi per contestare ciò in cui credono, mi distribuiscono perchè sanno che milioni di persone vengono a vedere il mio film e loro faranno soldi. E io sono riuscito a diffondere le loro idee usando questa falla del capitalismo: il vizio dell'avidità, spiega Moore.
Vi fa venire in mente qualcosa?
A me fa venire in mente Beppe Grillo, che quasi spera nel fallimento delle banche e poi riesce a far eleggere un bancario a sindaco del comune di Parma.
Vi fa venire in mente qualcosa?
A me fa venire in mente Beppe Grillo, che quasi spera nel fallimento delle banche e poi riesce a far eleggere un bancario a sindaco del comune di Parma.
22 maggio 2012
Le perdite di J.P. Morgan
Qualche settimana fa ho fatto un salto sulla sedia leggendo una notizia su repubblica.it (vedi qui): J.P.Morgan aveva investito 100 miliardi di dollari in derivati, scommettendo sul peggioramento dei conti di un'infinità di aziende europee.
Era una notizia allarmante: se la banca americana avesse avuto ragione, i conti delle imprese e quindi le economie europee avrebbero subito un forte peggioramento. In caso contrario, per J.P. Morgan sarebbero stati guai.
La scorsa settimana è scattato l'allarme-perdite per JP Morgan, una delle grandi banche d'affari americane. Due miliardi di perdite all'apparenza inattese hanno gettato nel panico gli azionisti e fatto crollare il titolo di oltre il 10% in una settimana e messo in ridicolo James Dimon, il numero uno di JP Morgan, da sempre ostile a regolamentare il settore bancario e, soprattutto, quello dei derivati.
Ma cosa è successo davvero?
I derivati dovrebbero servire a coprire le banche come JP Morgan dai rischi. Presti soldi a un'impresa e, temendo che l'impresa possa fallire, compri un derivato che funziona come un'assicurazione, ti fa incassare soldi se il prestito va male, ovvero se l'impresa fallisce.
Ma i derivati non servono solo a questo, funzionando invece come veri strumenti finanziari, scommesse sull'andamento di un'impresa o di uno stato. Si può "scommettere" su tutto: sull'incremento come sul decremento di valore di un titolo o su strumenti estremamente complessi, indici azionari o di altro genere.
Quando la scommessa funziona, si guadagna e si perde in caso contrario. E JP Morgan ha perso, investendo, tramite un proprio ufficio londinese, somme enormi in derivati. L'investimento è stimato in 100-150 miliardi di dollari, le perdite superano i 2 miliardi ma potrebbero essere molti di più.
In molti chiedono la testa di Dimon e una regolamentazione del settore, necessaria perché la crisi economica è stata scatenata dalle perdite potenziali delle banche che avevano acquistato complicatissimi derivati. Ma non c'è solo il rischio che le perdite di JP Morgan scatenino un'altra crisi come quella di Lehman Brothers. C'è anche il rischio che un colosso bancario da una parte punti su derivati che promettono ricchissimi guadagni se il valore di un titolo o dello spread sale (o scende) e dall'altro, svolgendo l'attività bancaria tradizionale, influenzi l'andamento del titolo dello spread.
Due ottime ragioni per sperare che J.P.Morgan perda soldi per gli investimenti sbagliati sui derivati e si arrivi a una regolamentazione del settore che riduca il potenziale distruttivo dei derivati. Una volta tanto le perdite di una banca sono una buona notizia.
Era una notizia allarmante: se la banca americana avesse avuto ragione, i conti delle imprese e quindi le economie europee avrebbero subito un forte peggioramento. In caso contrario, per J.P. Morgan sarebbero stati guai.
La scorsa settimana è scattato l'allarme-perdite per JP Morgan, una delle grandi banche d'affari americane. Due miliardi di perdite all'apparenza inattese hanno gettato nel panico gli azionisti e fatto crollare il titolo di oltre il 10% in una settimana e messo in ridicolo James Dimon, il numero uno di JP Morgan, da sempre ostile a regolamentare il settore bancario e, soprattutto, quello dei derivati.
Ma cosa è successo davvero?
I derivati dovrebbero servire a coprire le banche come JP Morgan dai rischi. Presti soldi a un'impresa e, temendo che l'impresa possa fallire, compri un derivato che funziona come un'assicurazione, ti fa incassare soldi se il prestito va male, ovvero se l'impresa fallisce.
Ma i derivati non servono solo a questo, funzionando invece come veri strumenti finanziari, scommesse sull'andamento di un'impresa o di uno stato. Si può "scommettere" su tutto: sull'incremento come sul decremento di valore di un titolo o su strumenti estremamente complessi, indici azionari o di altro genere.
Quando la scommessa funziona, si guadagna e si perde in caso contrario. E JP Morgan ha perso, investendo, tramite un proprio ufficio londinese, somme enormi in derivati. L'investimento è stimato in 100-150 miliardi di dollari, le perdite superano i 2 miliardi ma potrebbero essere molti di più.
In molti chiedono la testa di Dimon e una regolamentazione del settore, necessaria perché la crisi economica è stata scatenata dalle perdite potenziali delle banche che avevano acquistato complicatissimi derivati. Ma non c'è solo il rischio che le perdite di JP Morgan scatenino un'altra crisi come quella di Lehman Brothers. C'è anche il rischio che un colosso bancario da una parte punti su derivati che promettono ricchissimi guadagni se il valore di un titolo o dello spread sale (o scende) e dall'altro, svolgendo l'attività bancaria tradizionale, influenzi l'andamento del titolo dello spread.
Due ottime ragioni per sperare che J.P.Morgan perda soldi per gli investimenti sbagliati sui derivati e si arrivi a una regolamentazione del settore che riduca il potenziale distruttivo dei derivati. Una volta tanto le perdite di una banca sono una buona notizia.
20 maggio 2012
C'era una volta il boom di internet. Erano gli anni '90 e quando un'impresa del settore si quotava al Nasdaq le azioni schizzavano alle stelle, anche se l'impresa era nuova, costruita da qualche ragazzo, qualche computer, qualche scrivania, un progetto ricco di speranze e nessun profitto.
Si scommetteva sul futuro e spesso le scommesse erano irrazionali. Spesso si calcolava il prezzo delle azioni in base alle potenzialità: l'impresa non faceva utili ma si ipotizzava che potesse farli e che ogni cliente (spesso si trattava di utenti registrati a un sito) valesse un certo numero di dollari di utili futuri. I dubbi e le critiche erano messi da parte, seppelliti dall'entusiasmo di un mercato che trasformava in oro ogni idea, arrivando a premiare anche imprese di altri settori purchè infilassero un suffisso .com o .net nel nome, come successo con Basicnet, azienda del settore abbigliamento proprietaria di marchi come KWay e Robe di Kappa.
Poi, nella primavera del 2000, la bolla di internet è scoppiata e tutto è diventato più razionale. Fino all'altro ieri, quando al Nasdaq è stata quotata Facebook. 38 dollari per azione, diventati 42 non appena sono iniziate le quotazioni. 38,23 dollari al momento della chiusura. Un flop, almeno per chi si aspettava il solito rally di borsa, con le azioni che salgono del 10 o del 20% in una sola seduta di borsa.
Facebook ha 900 milioni di utenti, oltre 500 milioni di persone la usano ogni giorno, ma gli utili sono modesti, meno di un centesimo dell'enorme valore di borsa (circa 100 miliardi di dollari). E non mancano i dubbi: Facebook ha alzato il prezzo di collocamento e la percentuale di azioni quotate nelle scorse settimane, mentre General Motors ha deciso di tagliare la pubblicità su Facebook perché non serve a vendere automobili.
Il prezzo di 38 dollari per azione pare dunque esagerato. Include la speranza che Facebook cresca in futuro, ottenendo utili e facendo crescere il servizio con l'offerta di nuovi servizi, ma è anche la conseguenza, forse, della volontà di chi in Facebook ha investito tempo e soldi di ottenere ricchi guadagni.
Si scommetteva sul futuro e spesso le scommesse erano irrazionali. Spesso si calcolava il prezzo delle azioni in base alle potenzialità: l'impresa non faceva utili ma si ipotizzava che potesse farli e che ogni cliente (spesso si trattava di utenti registrati a un sito) valesse un certo numero di dollari di utili futuri. I dubbi e le critiche erano messi da parte, seppelliti dall'entusiasmo di un mercato che trasformava in oro ogni idea, arrivando a premiare anche imprese di altri settori purchè infilassero un suffisso .com o .net nel nome, come successo con Basicnet, azienda del settore abbigliamento proprietaria di marchi come KWay e Robe di Kappa.
Poi, nella primavera del 2000, la bolla di internet è scoppiata e tutto è diventato più razionale. Fino all'altro ieri, quando al Nasdaq è stata quotata Facebook. 38 dollari per azione, diventati 42 non appena sono iniziate le quotazioni. 38,23 dollari al momento della chiusura. Un flop, almeno per chi si aspettava il solito rally di borsa, con le azioni che salgono del 10 o del 20% in una sola seduta di borsa.
Facebook ha 900 milioni di utenti, oltre 500 milioni di persone la usano ogni giorno, ma gli utili sono modesti, meno di un centesimo dell'enorme valore di borsa (circa 100 miliardi di dollari). E non mancano i dubbi: Facebook ha alzato il prezzo di collocamento e la percentuale di azioni quotate nelle scorse settimane, mentre General Motors ha deciso di tagliare la pubblicità su Facebook perché non serve a vendere automobili.
Il prezzo di 38 dollari per azione pare dunque esagerato. Include la speranza che Facebook cresca in futuro, ottenendo utili e facendo crescere il servizio con l'offerta di nuovi servizi, ma è anche la conseguenza, forse, della volontà di chi in Facebook ha investito tempo e soldi di ottenere ricchi guadagni.
18 maggio 2012
L'inflazione di Ernesto Preatoni
Servizio Pubblico giovedì sera ha ospitato Ernesto Preatoni, in passato consulente finanziario, noto per aver creato un gruppo immobiliare che costruisce e vende case a Sharm El Sheikh, ma anche per scalate nel campo bancario.
Si parlava di crisi e Preatoni ha formulato la sua proposta per affrontare la crisi del debito: creare inflazione. L'imprenditore cita uno studio che spiega che nessuno ha mai ripagato i debiti pubblici e che il rapporto debito/PIL è sceso per effetto dell'inflazione.
L'inflazione sarebbe la soluzione. I BTP a tre anni sono stati emessi al tasso fisso del 3,5%. Se l'inflazione salisse al 10% il tasso di interesse reale sarebbe negativo, e di fatto il possessore di BTP pagherebbe una tassa allo stato che li emette, facendo scendere il rapporto debito/PIL: il debito infatti aumenta ma il PIL molto di più per effetto dell'aumento dei prezzi.
Una soluzione a dire il vero insensata, per diverse ragioni.
Come si fa, anzitutto, a creare inflazione? Lo Stato agiscesolo su alcuni prezzi, dai carburanti ai biglietti dei treni, ma non può certo imporre a chi produce yogurt o biciclette di aumentare i prezzi.
Se anche esistesse un bottone da premere per far salire i prezzi, non c'è dubbio che l'inflazione colpirebbe soprattutto le classi sociali meno ricche, come è sempre successo. Chi ha un reddito basso spende tutti (o quasi) i suoi soldi, e se i prezzi salgono, può comprare di meno. Chi è ricco risparmiaunaquota rilevante del suo reddito e lo può investire in attività, come gli immobili, che non risentono dell'aumento dei prezzi.
Preatoni obietta che i lavoratori potrebbero chiedere aumenti di salari e pensioni, tutelandosi dall'aumento dei prezzi. Ma se ciò accadesse, l'inflazione salirebbe molto più velocemente, perchè se un aumento dei prezzi sollecita un aumento del costo del lavoro che fa salire i prezzi dei beni prodotti.
Nell'Eurozona, ovvero dove si usa l'euro, in nessun paese l'inflazione può aumentare troppo. Se in Italia l'inflazione fosse il 10% contro il 2% della Germania, i prodotti italiani finirebbero presto fuori mercato. L'inflazione sarebbe dunque una tassa a carico delle imprese e dei lavoratori, anche nel caso in cui meccanismi di adeguamento dei salari ai prezzi tutelasse i lavoratori.
Se l'inflazione salisse in un solo paese, inoltre, i capitali fuggirebbero verso economie nelle quali il tasso di inflazione è più basso.
E chi accetterebbe un BTP che rende il 3,5% in un'economia con un'inflazione al 10%?
L'inflazione di solito fa salire i tassi di interesse, che salirebbero ben oltre il 10% annullando i presunti vantaggi delle proposte dell'immobiliarista di Sharm El Sheikh.
Si parlava di crisi e Preatoni ha formulato la sua proposta per affrontare la crisi del debito: creare inflazione. L'imprenditore cita uno studio che spiega che nessuno ha mai ripagato i debiti pubblici e che il rapporto debito/PIL è sceso per effetto dell'inflazione.
L'inflazione sarebbe la soluzione. I BTP a tre anni sono stati emessi al tasso fisso del 3,5%. Se l'inflazione salisse al 10% il tasso di interesse reale sarebbe negativo, e di fatto il possessore di BTP pagherebbe una tassa allo stato che li emette, facendo scendere il rapporto debito/PIL: il debito infatti aumenta ma il PIL molto di più per effetto dell'aumento dei prezzi.
Una soluzione a dire il vero insensata, per diverse ragioni.
Come si fa, anzitutto, a creare inflazione? Lo Stato agiscesolo su alcuni prezzi, dai carburanti ai biglietti dei treni, ma non può certo imporre a chi produce yogurt o biciclette di aumentare i prezzi.
Se anche esistesse un bottone da premere per far salire i prezzi, non c'è dubbio che l'inflazione colpirebbe soprattutto le classi sociali meno ricche, come è sempre successo. Chi ha un reddito basso spende tutti (o quasi) i suoi soldi, e se i prezzi salgono, può comprare di meno. Chi è ricco risparmiaunaquota rilevante del suo reddito e lo può investire in attività, come gli immobili, che non risentono dell'aumento dei prezzi.
Preatoni obietta che i lavoratori potrebbero chiedere aumenti di salari e pensioni, tutelandosi dall'aumento dei prezzi. Ma se ciò accadesse, l'inflazione salirebbe molto più velocemente, perchè se un aumento dei prezzi sollecita un aumento del costo del lavoro che fa salire i prezzi dei beni prodotti.
Nell'Eurozona, ovvero dove si usa l'euro, in nessun paese l'inflazione può aumentare troppo. Se in Italia l'inflazione fosse il 10% contro il 2% della Germania, i prodotti italiani finirebbero presto fuori mercato. L'inflazione sarebbe dunque una tassa a carico delle imprese e dei lavoratori, anche nel caso in cui meccanismi di adeguamento dei salari ai prezzi tutelasse i lavoratori.
Se l'inflazione salisse in un solo paese, inoltre, i capitali fuggirebbero verso economie nelle quali il tasso di inflazione è più basso.
E chi accetterebbe un BTP che rende il 3,5% in un'economia con un'inflazione al 10%?
L'inflazione di solito fa salire i tassi di interesse, che salirebbero ben oltre il 10% annullando i presunti vantaggi delle proposte dell'immobiliarista di Sharm El Sheikh.
17 maggio 2012
La matematica e la Fornero
Qualche giorno fa Elsa Fornero ha spiegato (vedi qui) che è sconsolante la situazione dei giovani italiani che non conoscono "neanche i rudimenti della matematica, non sanno fare di conto".
Nel sito di Smat, la società delle acque metropolitane di Torino, leggo che Smat sta installando, in un proprio edificio, un sistema di riscaldamento con pompa di calore e che il risparmio sarà del 170% rispetto alla caldaia a gasolio.
Come si fa a risparmiare il 170%? Se spendo 100 euro al massimo posso risparmiare 100 euro, ovvero il 100% di ciò che spendo. Non posso certo risparmiare il 170%, ovvero 170 euro.
Scrivo un'email segnalando l'errore e mi è arrivata la risposta di una gentile dottoressa che mi spiega che rispetto al nuovo metodo (pompa di calore) il gasolio costa anche il 170% in più.
Dunque se la pompa di calore costa 100 euro, il gasolio costa 270 euro, ovvero il 170% in più. Il risparmio usando il nuovo metodo per produrre riscaldamento implica dunque un risparmio di 170 euro dei 270 spesi riscaldando con il petrolio.
170 euro su una spesa di 270 significa circa il 63% di risparmio. Molto più ragionevole del 170% indicato dal sito Smat.
Forse la Fornero non ha tutti i torti...
Nel sito di Smat, la società delle acque metropolitane di Torino, leggo che Smat sta installando, in un proprio edificio, un sistema di riscaldamento con pompa di calore e che il risparmio sarà del 170% rispetto alla caldaia a gasolio.
Come si fa a risparmiare il 170%? Se spendo 100 euro al massimo posso risparmiare 100 euro, ovvero il 100% di ciò che spendo. Non posso certo risparmiare il 170%, ovvero 170 euro.
Scrivo un'email segnalando l'errore e mi è arrivata la risposta di una gentile dottoressa che mi spiega che rispetto al nuovo metodo (pompa di calore) il gasolio costa anche il 170% in più.
Dunque se la pompa di calore costa 100 euro, il gasolio costa 270 euro, ovvero il 170% in più. Il risparmio usando il nuovo metodo per produrre riscaldamento implica dunque un risparmio di 170 euro dei 270 spesi riscaldando con il petrolio.
170 euro su una spesa di 270 significa circa il 63% di risparmio. Molto più ragionevole del 170% indicato dal sito Smat.
Forse la Fornero non ha tutti i torti...
16 maggio 2012
Fughe di capitali
Guardate il grafico: sono i movimenti di capitale che si spostano da alcuni paesi (Spagna, Italia, Irlanda, Portogallo e Grecia) verso Germania, Lussemburgo e Olanda.
E' un grafico allarmante che conferma quando scrivo ormai da anni, ovvero che la crisi sta facendo fuggire capitali e ciò spiega molto degli effetti della crisi, anche se pochi ne parlano.
I capitali dovrebbero fluire dai paesi più ricchi a quelli più poveri, ma accade il contrario e questo non può che indebolire le economie che subiscono il deflusso di capitali.
Spiega anche la necessità di intervento della BCE, che cerca di far affluire i capitali nei paesi da cui fuggono.
Spiega i timori di chi pensa che l'euro possa collassare e infine spiega gli spread: quando si vendono titoli di paesi "deboli" per comprare quelli più affidabili, come quelli tedeschi, i capitali passano da un paese a un altro e gli spread variano premiando alcuni paesi e penalizzando altri.
15 maggio 2012
Deglobalizzazione
Nelle ultime settimane ho ricevuto qualche email con una domanda: che ne pensi di questo video di Report?
Si parla di banche e economia, si propongono modelli economici e bancari alternativi, di compensazione dei crediti, di impegno sociale e di aziende che sopravvivono a sentenze di morte dei loro proprietari, preoccupati soltanto di far profitti.
E' possibile costruire banche che non investono in derivati, non speculano e prestano i soldi ad aziende che producono beni e servizi e scelgono i propri fornitori tra aziende locali a loro volta preoccupate di creare lavoro e di tutelare i diritti dei propri lavoratori? E' possibile compensare crediti e debiti delle imprese così da minimizzare il ricorso al credito bancario? E' possibile avere imprese in cui i dipendenti non siano considerati soltanto costi da ridurre?
Certo, basta volerlo. Un profitto o un reddito più alti non sono il solo obiettivi possibili degli esseri umani e scegliere il fornitore con la caratteristiche desiderate invece di quello più conveniente, può essere conveniente, non solo più etico o più corretto da un punto di vista ecologico. Lo sanno da sempre le imprese giapponesi che da sempre preferiscono rivolgersi a fornitori con cui instaurare rapporti di lungo termine. Forse si paga di più un prodotto o un servizio, ma la qualità richiede un'interazione costante tra imprese, impossibile se prevale una convulsa ricerca del fornitore più conveniente.
Non è necessario che i capitali girino vorticosamente per il mondo alla ricerca del profitto immediato, per fuggire non appena l'investimento si rivela meno conveniente.
Possono finire in banche che li prestano a imprese con cui instaurano rapporti di lungo periodo, come succede soprattutto tra banche locali (le nostre banche di credito cooperativo) e i loro clienti, che seguono nel tempo assicurandosi un minor tasso di insolvenza. O possono esserci imprese in cui l'impresa decide con i lavoratori la strategia da seguire per affontare i concorrenti.
C'è qualcosa di nuovo in tutto questo? No, le banche che non speculano con prodotti finanziari complessi sono sempre esistite, come le imprese che scelgono i fornitori non solo in base alla convenienza immediata.
La globalizzazione o meglio l'ideologia liberista che l'ha promossa, ha convinto molti che il modo di gestire i rapporti tra impresa e lavoratori, tra impresa e fornitori, tra banca e impresa dovevano ispirarsi a regole diverse, dominate da una concorrenza spietata, dalla scelta del lavoratore o del fornitore più conveniente nell'immediato.
S'è quasi dimenticato che c'erano economie, come quella tedesca e quella giapponese, non dominate dalla finanza e dalla ricerca del profitto nel breve termine. I disastri causati dalla crisi spingono alcuni a riproporre quei modelli, che non sono nuovi. Sono il ritorno a un mondo meno globalizzato e meno liberista. Potremmo chiamala deglobalizzazione.
Si parla di banche e economia, si propongono modelli economici e bancari alternativi, di compensazione dei crediti, di impegno sociale e di aziende che sopravvivono a sentenze di morte dei loro proprietari, preoccupati soltanto di far profitti.
E' possibile costruire banche che non investono in derivati, non speculano e prestano i soldi ad aziende che producono beni e servizi e scelgono i propri fornitori tra aziende locali a loro volta preoccupate di creare lavoro e di tutelare i diritti dei propri lavoratori? E' possibile compensare crediti e debiti delle imprese così da minimizzare il ricorso al credito bancario? E' possibile avere imprese in cui i dipendenti non siano considerati soltanto costi da ridurre?
Certo, basta volerlo. Un profitto o un reddito più alti non sono il solo obiettivi possibili degli esseri umani e scegliere il fornitore con la caratteristiche desiderate invece di quello più conveniente, può essere conveniente, non solo più etico o più corretto da un punto di vista ecologico. Lo sanno da sempre le imprese giapponesi che da sempre preferiscono rivolgersi a fornitori con cui instaurare rapporti di lungo termine. Forse si paga di più un prodotto o un servizio, ma la qualità richiede un'interazione costante tra imprese, impossibile se prevale una convulsa ricerca del fornitore più conveniente.
Non è necessario che i capitali girino vorticosamente per il mondo alla ricerca del profitto immediato, per fuggire non appena l'investimento si rivela meno conveniente.
Possono finire in banche che li prestano a imprese con cui instaurano rapporti di lungo periodo, come succede soprattutto tra banche locali (le nostre banche di credito cooperativo) e i loro clienti, che seguono nel tempo assicurandosi un minor tasso di insolvenza. O possono esserci imprese in cui l'impresa decide con i lavoratori la strategia da seguire per affontare i concorrenti.
C'è qualcosa di nuovo in tutto questo? No, le banche che non speculano con prodotti finanziari complessi sono sempre esistite, come le imprese che scelgono i fornitori non solo in base alla convenienza immediata.
La globalizzazione o meglio l'ideologia liberista che l'ha promossa, ha convinto molti che il modo di gestire i rapporti tra impresa e lavoratori, tra impresa e fornitori, tra banca e impresa dovevano ispirarsi a regole diverse, dominate da una concorrenza spietata, dalla scelta del lavoratore o del fornitore più conveniente nell'immediato.
S'è quasi dimenticato che c'erano economie, come quella tedesca e quella giapponese, non dominate dalla finanza e dalla ricerca del profitto nel breve termine. I disastri causati dalla crisi spingono alcuni a riproporre quei modelli, che non sono nuovi. Sono il ritorno a un mondo meno globalizzato e meno liberista. Potremmo chiamala deglobalizzazione.
11 maggio 2012
1 a 20
Francois Hollande, neo presidente francese, ha avuto un'ottima idea di sinistra: limitare il divario tra i redditi.
L'idea è banale: le aziende controllate almeno al 50% dallo Stato dovranno porre un limite agli stipendi dei manager che, in ciascuna impresa, non potranno superare di 20 volte lo stipendio più basso. Se il lavoratore pagato di meno incassasse, supponiamo, 1000 euro al mese, i dirigenti non potrebbero superare i 20.000 euro mensili.
Finalmente qualcosa di sinistra, anche se ci sono alcune legittime obiezioni.
La prima è che si può applicare solo alle aziende di proprietà dello Stato o di cui lo Stato possiede la maggioranza assoluta di quote o azioni. Per le altre la regola non vale anche se ha come azionista lo Stato.
La seconda è che si corre il rischio di far fuggire qualche manager e di ridurre la redditività dell'impresa, che risparmierebbe, pagando meno i top manager, ma guadagnerebbe di meno.
La terza è che la norma spinga qualche manager a alzare lo stipendio di chi guadagna meno di 20 volte il dipendente meno pagato, con l'effetto che le imprese alla fine spenderebbero di più, non di meno.
Critiche valide anche se è vero che conta il principio, molto di sinistra, per cui è bene ridurre le disuguaglianze. Inoltre il principio può essere applicato, volendo, anche alla pubblica amministrazione, magari provando nel corso del tempo a ridurre il divario: da 1 a 20 si può passare a 1 a 15: basta ridurre il divario man mano che i contratti scadono o che i dirigenti lasciano il posto ad altri.
Infine si potrebbe usare il principio del limite tra lo stipendio minimo e il massimo in ambito fiscale, facendo pagare di più i manager e le imprese dove più alto è il divario tra i redditi.
L'idea è banale: le aziende controllate almeno al 50% dallo Stato dovranno porre un limite agli stipendi dei manager che, in ciascuna impresa, non potranno superare di 20 volte lo stipendio più basso. Se il lavoratore pagato di meno incassasse, supponiamo, 1000 euro al mese, i dirigenti non potrebbero superare i 20.000 euro mensili.
Finalmente qualcosa di sinistra, anche se ci sono alcune legittime obiezioni.
La prima è che si può applicare solo alle aziende di proprietà dello Stato o di cui lo Stato possiede la maggioranza assoluta di quote o azioni. Per le altre la regola non vale anche se ha come azionista lo Stato.
La seconda è che si corre il rischio di far fuggire qualche manager e di ridurre la redditività dell'impresa, che risparmierebbe, pagando meno i top manager, ma guadagnerebbe di meno.
La terza è che la norma spinga qualche manager a alzare lo stipendio di chi guadagna meno di 20 volte il dipendente meno pagato, con l'effetto che le imprese alla fine spenderebbero di più, non di meno.
Critiche valide anche se è vero che conta il principio, molto di sinistra, per cui è bene ridurre le disuguaglianze. Inoltre il principio può essere applicato, volendo, anche alla pubblica amministrazione, magari provando nel corso del tempo a ridurre il divario: da 1 a 20 si può passare a 1 a 15: basta ridurre il divario man mano che i contratti scadono o che i dirigenti lasciano il posto ad altri.
Infine si potrebbe usare il principio del limite tra lo stipendio minimo e il massimo in ambito fiscale, facendo pagare di più i manager e le imprese dove più alto è il divario tra i redditi.
Produzione industriale
Due mesi fa avevo scritto questo post (vedi qui). La sostanza era che i dati sulla produzione industriale erano un pò strani. Segnavano una forte contrazione, ma s'erano verificati alcuni fatti anomali, come lo sciopero dei trasporti a gennaio, a cui poi s'è aggiunta l'abbondante nevicata che ha bloccato alcune regioni a febbraio.
Oggi sono arrivati i dati di marzo che registrano un sorprendente (come riporta Reuters Italia, vedi qui) aumento della produzione industriale rispetto a febbraio.
Sorprendente? No, visto che i dati precedenti sembravano viziati da avvenimenti particolari che hanno ridotto la produzione. Lo sciopero aveva depresso la produzione di gennaio e non stupisce la piccola ripresa di marzo, come non stupisce il sali-scendi della produzione energetica, spiegabile con l'ondata di maltempo di febbraio e il caldo anomalo di marzo.
Resta infine l'aspetto preoccupante dei dati: rispetto a un anno prima il quadro è molto negativo, con cali tra il 3 e il 10% in molti settori.
Oggi sono arrivati i dati di marzo che registrano un sorprendente (come riporta Reuters Italia, vedi qui) aumento della produzione industriale rispetto a febbraio.
Sorprendente? No, visto che i dati precedenti sembravano viziati da avvenimenti particolari che hanno ridotto la produzione. Lo sciopero aveva depresso la produzione di gennaio e non stupisce la piccola ripresa di marzo, come non stupisce il sali-scendi della produzione energetica, spiegabile con l'ondata di maltempo di febbraio e il caldo anomalo di marzo.
Resta infine l'aspetto preoccupante dei dati: rispetto a un anno prima il quadro è molto negativo, con cali tra il 3 e il 10% in molti settori.
09 maggio 2012
Il Movimento 5 Stelle. E i soldi pubblici
Uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle è il rifiuto dei rimborsi elettorali, che dovrebbero servire a restituire ai partiti i soldi spesi per le campagne elettorali.
I sostenitori del M5S sembrano gradire il rifiuto dei soldi pubblici, scelta che li differenzierebbe dai partiti tradizionali che invece dispongono di dipendenti, sedi, collaboratori, ecc.
Ma è vero che rifiutano i soldi pubblici?
Prendiamo il resoconto presentato dal Movimento 5 Stelle del Piemonte, o meglio dai 2 consiglieri eletti in Consiglio Regionale. C'è una sola entrata e sono soldi pubblici, come risulta da questa tabella.
Soldi che la Regione dà ai gruppi consigliari per pagarsi le spese e che il Movimento 5 Stelle usa sia per pagare le spese dei due consiglieri regionali sia per pagare le spese del Movimento, come si può capire leggendo le diverse voci di spesa.
Passiamo al bilancio dei consiglieri dell'Emilia Romagna. Anche qui le entrate sono solo soldi pubblici: 333.976 euro (come risulta qui ). Soldi usati per pagare le spese dei consiglieri, pranzi e trasporti soprattutto, ma anche per sostenere il movimento acquistando volantini, affittando sale e proiettori, e rimborsando i gruppi locali del Movimento, vale a dire le liste civiche che si presentano nei comuni, come risulta dai dettagli di spesa (vedi qui). E poi mangiano: molti pranzi pagati con i soldi regionali. Uno con un giornalista del Sole 24 Ore e anche una cena per incontrare un'agenzia investigativa nell'aprile 2011.
In sostanza rinunciano al rimborso elettorale, ma usano i soldi pubblici per pagare le spese elettorali anche di una piccola lista civila locale del Movimento 5 Stelle.
Dov'è la differenza rispetto a chi usa i soldi dei rimborsi elettorali?
I sostenitori del M5S sembrano gradire il rifiuto dei soldi pubblici, scelta che li differenzierebbe dai partiti tradizionali che invece dispongono di dipendenti, sedi, collaboratori, ecc.
Ma è vero che rifiutano i soldi pubblici?
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Soldi che la Regione dà ai gruppi consigliari per pagarsi le spese e che il Movimento 5 Stelle usa sia per pagare le spese dei due consiglieri regionali sia per pagare le spese del Movimento, come si può capire leggendo le diverse voci di spesa.
Passiamo al bilancio dei consiglieri dell'Emilia Romagna. Anche qui le entrate sono solo soldi pubblici: 333.976 euro (come risulta qui ). Soldi usati per pagare le spese dei consiglieri, pranzi e trasporti soprattutto, ma anche per sostenere il movimento acquistando volantini, affittando sale e proiettori, e rimborsando i gruppi locali del Movimento, vale a dire le liste civiche che si presentano nei comuni, come risulta dai dettagli di spesa (vedi qui). E poi mangiano: molti pranzi pagati con i soldi regionali. Uno con un giornalista del Sole 24 Ore e anche una cena per incontrare un'agenzia investigativa nell'aprile 2011.
In sostanza rinunciano al rimborso elettorale, ma usano i soldi pubblici per pagare le spese elettorali anche di una piccola lista civila locale del Movimento 5 Stelle.
Dov'è la differenza rispetto a chi usa i soldi dei rimborsi elettorali?
08 maggio 2012
Sprechi
Il governo ha chiesto a Enrico Bondi di tagliare i costi superflui dello Stato e Bondi ha chiesto l'aiuto dei cittadini che possono mandare un messaggio via email.
I risultati sono incoraggianti: 95.000 messaggi in pochi giorni, una media di un messaggio ogni 2 secondi.
Per chi volesse dire la sua sugli sprechi, ecco il link: http://www.governo.it/spendingreview/RedWeb_Form.htm
Nel frattempo, come mi segnala Pericle, il Ministero della Difesa assume 10.800 persone come risulta da questo bando (vedi qui).
10.800 militari in più mentre il governo chiede ai cittadini di pagare l'IMU e si chiede al governo, alla politica e alla pubblica amministrazione di risparmiare?
Non so come la pensate voi, ma a me sembra una cosa vergognosa.
I risultati sono incoraggianti: 95.000 messaggi in pochi giorni, una media di un messaggio ogni 2 secondi.
Per chi volesse dire la sua sugli sprechi, ecco il link: http://www.governo.it/spendingreview/RedWeb_Form.htm
Nel frattempo, come mi segnala Pericle, il Ministero della Difesa assume 10.800 persone come risulta da questo bando (vedi qui).
10.800 militari in più mentre il governo chiede ai cittadini di pagare l'IMU e si chiede al governo, alla politica e alla pubblica amministrazione di risparmiare?
Non so come la pensate voi, ma a me sembra una cosa vergognosa.
07 maggio 2012
I mercati e il trota
Giovedì scorso Servizio Pubblico ospitava Luigi Zingales, un economista di Chicago assai liberista, come nella tradizione di quella università. Il mercato risolve tutto secondo Zingales perché le persone, libere di scegliere, prenderanno le decisioni migliori, preferiranno il prodotto migliore a quello peggiore, opteranno per il servizio più efficiente.
Una tesi che, applicata anche alla politica, spinge molti commentatori a criticare l'attuale legge elettorale che non permette di votare il candidato preferito, lasciando all'elettore l'ultima parola su chi siederà in Parlamento.
La critica è legittima, ma va presa con un pizzico di buonsenso. Infatti se è vero che la legge elettorale ha portato in Parlamento persone imbarazzanti, "nominate" dai partiti, è anche vero che in un sistema elettorale con le preferenze si sceglie tra candidati scelti ovvero nominati, come si usa dire oggi, dai partiti.
Inoltre chi ci garantisce che gli elettori scelgano sempre il migliore, il più competente, il più onesto o il più serio?
Prendiamo Renzo Bossi, detto il trota, figlio del padre-padrone della Lega Nord, Umberto Bossi. E' stato nominato? no, è stato eletto con un bel numero di preferenze. I critici del sistema elettorale non possono obiettare nulla e s'è visto nella puntata di Servizio Pubblico: Zingales e Travaglio sconsolati di fronte all'idea che Bossi è stato scelto da cittadini che hanno scritto Bossi sulla scheda elettorale.
Il mercato ha fatto la sua parte...e ha sbagliato. Ma per chi ama il mercato e ipotizza funzioni sempre bene, è dura accettare l'idea che il mercato non sempre funziona bene, non sempre produce risultati efficienti. Ma succede. E succede che non sempre gli elettori scelgono i migliori. Non sono obbligati. Possono scegliere anche il peggiore, se promette qualcosa in cambio o se possiede altre qualità, come il nome giusto o un'innata capacità di far divertire il prossimo.
Una tesi che, applicata anche alla politica, spinge molti commentatori a criticare l'attuale legge elettorale che non permette di votare il candidato preferito, lasciando all'elettore l'ultima parola su chi siederà in Parlamento.
La critica è legittima, ma va presa con un pizzico di buonsenso. Infatti se è vero che la legge elettorale ha portato in Parlamento persone imbarazzanti, "nominate" dai partiti, è anche vero che in un sistema elettorale con le preferenze si sceglie tra candidati scelti ovvero nominati, come si usa dire oggi, dai partiti.
Inoltre chi ci garantisce che gli elettori scelgano sempre il migliore, il più competente, il più onesto o il più serio?
Prendiamo Renzo Bossi, detto il trota, figlio del padre-padrone della Lega Nord, Umberto Bossi. E' stato nominato? no, è stato eletto con un bel numero di preferenze. I critici del sistema elettorale non possono obiettare nulla e s'è visto nella puntata di Servizio Pubblico: Zingales e Travaglio sconsolati di fronte all'idea che Bossi è stato scelto da cittadini che hanno scritto Bossi sulla scheda elettorale.
Il mercato ha fatto la sua parte...e ha sbagliato. Ma per chi ama il mercato e ipotizza funzioni sempre bene, è dura accettare l'idea che il mercato non sempre funziona bene, non sempre produce risultati efficienti. Ma succede. E succede che non sempre gli elettori scelgono i migliori. Non sono obbligati. Possono scegliere anche il peggiore, se promette qualcosa in cambio o se possiede altre qualità, come il nome giusto o un'innata capacità di far divertire il prossimo.
04 maggio 2012
Francesco Giavazzi
Il professor Francesco Giavazzi è diventato consulente del governo per tagliare i contributi alle imprese. Era ora, vien da dire, perché finora Giavazzi, studi in ingegneria in Italia e poi di economia negli USA per poi intraprendere una carriera universitaria tra la Bocconi e il MIT di Boston, ha spesso criticato il governo Monti.
Critiche messe nere su bianco sul Corriere: il giorno dopo la nomina, Giavazzi insieme all'amico Alesina non perso occasione di spiegare (vedi qui) che il governo dovrebbe tagliare pesantemente la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale, considerando queste mosse una condizione indispensabile per rimettere in moto l'economia italiana.
Così Monti delega a Giavazzi il compito di indicare quali contributi alle imprese vanno aboliti. D'altro canto Giavazzi è la persona giusta: crede nel mercato, ci elencherà decine di casi in cui le imprese incassano contributi per fare cose che non servono o che farebbero anche senza soldi pubblici, e quindi suggerirà tagli.
Finora, dicono A&G, i tagli previsti sono pochi e non hanno "nessun effetto macroeconomico".
Un'espressione normale, se usata da un economista normale. Ma Giavazzi ha qualcosa in più (o forse in meno): nel settembre 2008, all'indomani del fallimento di Lehman Brothers, mentre il mondo tremava, lui celebrava il trionfo del mercato sullo Stato (vedi qui): "Ieri è stata una buona giornata per il capitalismo ... si era diffusa l'impressione che il governo americano avrebbe salvato chiunque... Invece, con grande coraggio, il segretario del Tesoro statunitense Henry Paulson ha detto basta. Il costo è stato elevato, il fallimento della terza/quarta banca d'investimento al mondo, ma il mercato ha impiegato meno di cinque minuti a capire".
Gli effetti macroeconomici del fallimento di Lehman Brothers non pare averli compresi: l'economia mondiale stava per sprofondare e Giavazzi inneggiava alla vittoria del mercato. Sarà per questo che Mario Monti gli chiede di occuparsi dicontributi alle imprese? Forse il presidente del Consiglio vuole che abbandoni le teorie un pòastratte e si confronti con le imprese che, c'è da credere, non saranno felici di rinunciare soprattutto adesso ai soldi e ai crediti concessi dallo Stato?
Critiche messe nere su bianco sul Corriere: il giorno dopo la nomina, Giavazzi insieme all'amico Alesina non perso occasione di spiegare (vedi qui) che il governo dovrebbe tagliare pesantemente la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale, considerando queste mosse una condizione indispensabile per rimettere in moto l'economia italiana.
Così Monti delega a Giavazzi il compito di indicare quali contributi alle imprese vanno aboliti. D'altro canto Giavazzi è la persona giusta: crede nel mercato, ci elencherà decine di casi in cui le imprese incassano contributi per fare cose che non servono o che farebbero anche senza soldi pubblici, e quindi suggerirà tagli.
Finora, dicono A&G, i tagli previsti sono pochi e non hanno "nessun effetto macroeconomico".
Un'espressione normale, se usata da un economista normale. Ma Giavazzi ha qualcosa in più (o forse in meno): nel settembre 2008, all'indomani del fallimento di Lehman Brothers, mentre il mondo tremava, lui celebrava il trionfo del mercato sullo Stato (vedi qui): "Ieri è stata una buona giornata per il capitalismo ... si era diffusa l'impressione che il governo americano avrebbe salvato chiunque... Invece, con grande coraggio, il segretario del Tesoro statunitense Henry Paulson ha detto basta. Il costo è stato elevato, il fallimento della terza/quarta banca d'investimento al mondo, ma il mercato ha impiegato meno di cinque minuti a capire".
Gli effetti macroeconomici del fallimento di Lehman Brothers non pare averli compresi: l'economia mondiale stava per sprofondare e Giavazzi inneggiava alla vittoria del mercato. Sarà per questo che Mario Monti gli chiede di occuparsi dicontributi alle imprese? Forse il presidente del Consiglio vuole che abbandoni le teorie un pòastratte e si confronti con le imprese che, c'è da credere, non saranno felici di rinunciare soprattutto adesso ai soldi e ai crediti concessi dallo Stato?
03 maggio 2012
Il circolo vizioso
Oggi vi parlerò di un circolo vizioso tra banche e aziende (piccole) unico e peculiare dell'Italia.
Tutti sanno delle lungaggini dei pagamenti in Italia, infatti se in Europa la norma è il bonifico bancario a 30 giorni, in Italia ci siamo inventati di tutto: ricevute bancarie, sconti e simili. Oggi vi voglio parlare di quando il meccanismo si inceppa.
Visto che i pagamenti tra aziende possono arrivare anche a 180 giorni e la liquidità serve subito, le banche consentono di "scontare" oggi fatture che saranno pagate domani.
questo è il meccanismo
Io emetto il 30/04/12 una fattura al mio cliente per € 10.000 + iva = 12.100. Il mio cliente mi dice che la pagherà tra 4 mesi, il 31/08/12. Io mi sono accordato con la mia banca che mi ha concesso un "castelletto anticipi". Il castelletto è l'importo massimo di fatture che posso scontare in banca. Per un'azienda con 300.000 € di fatturato può essere ad esempio di 40.000 €. Ultimamente i rubinetti si sono chiusi e le banche per concedere lo sconto chiedono garanzie, come titoli.
Quindi io oggi porto la mia fattura in banca e la banca mi accredita sul mio c/c 10.000 € (al netto dell'iva). Il 31/08 il mio cliente mi bonifica 12.100 €, contemporaneamente la banca mi addebita 10.000 € e a me sul conto rimane solo l'iva (2.100 €).
La percentuale di sconto può essere anche diversa: io ho fatto un esempio al 100%, ma spesso le banche anticipano il 70% dell'imponibile.
E' chiaro che in una situazione normale tale meccanismo è molto comodo, a parte gli interessi passivi che si pagano sullo sconto (la banca ci ANTICIPA il bonifico).
Cosa succede se il nostro cliente ci chiama e ci dice di non poterci pagare? Oppure come avviene ultimamente non ci paga e basta?
Il 31/08 la banca ci riaddebita comunque i 10.000 € ma questo può diventare un grossissimo problema se io sono al limite del fido: la banca potrebbe rifiutarsi di pagare assegni e potrei finire protestato (e anche fallito!)
Quindi cosa fanno alcuni imprenditori?
Portano un'altra fattura in banca di pari importo per coprire l'insoluto. Spesso queste fatture sono fasulle e qui cominciano i problemi. Infatti le banche fanno controlli se si insospettiscono con visure in Camera di commercio, ma se io sono furbo farò una visura di un'azienda grossa fuori zona o compiacente (con cui sono d'accordo).
Quindi in pratica io finisco ad essere perennemente a debito con la banca, portando di continuo fatture false allo sconto. Questo però a un certo punto finisce, perché ogni fattura insoluta peggiora il mio rating e a un certo punto la banca rifiuterà di fare altri sconti. Quindi tutte le fatture false saranno addebitate e l'azienda salta.
Nella mia carriera professionale non ho visto nessuna azienda che sia riuscita a risanarsi dopo che è entrata in questo meccanismo.
La soluzione (ovvia) è quella di imporre per legge un limite di 60 giorni ai pagamenti, eliminare assegni bancari, sconti e ricevute bancarie, ma attualmente questa è fantasia, in un paese dove la media dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni è oltre i 4 mesi...
02 maggio 2012
Guido Martinetti. E l'IRAP
Guido Martinetti è un imprenditore che insieme all'amico Federico Grom ha creato una catena di gelaterie di successo (se n'è parlato qui).
Ospite a Otto e mezzo, ieri sera Martinetti ha spiegato che l'IRAP tassa il costo del lavoro e gli oneri finanziari e pertanto disincentiva sia l'assunzione di dipendenti che l'indebitamento per nuovi investimenti.
Quando l'ho sentito ho fatto un salto sulla sedia. Intendiamoci, l'IRAP non è la migliore delle imposte possibili e non mancano le critiche perché chi ha più lavoratori dipendenti più paga. Tuttavia certe critiche sono poco comprensibili.
La prima ragione è che l'impresa "compra", se così si può dire, lavoro e capitali per produrre e vendere beni e servizi. L'imposta, qualunque sia, finisce direttamente o indirettamente per pesare sui frutti del lavoro e sui capitali investiti nell'impresa.
La seconda ragione è che l'IRAP ha sostituito una serie di imposte che gravavano sul lavoro e sui capitali investiti, o magari erano imposte in somma fissa, da pagare a prescindere da qualunque attività svolta e dai guadagni conseguiti.
"Con la sua istituzione -spiega Wikipedia- sono stati soppressi l'Ilor, Iciap, imposta sul patrimonio netto delle imprese, tassa di concessione governativa sulla partita Iva, contributo per il servizio sanitario nazionale (tassa della salute), contributi per l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, contributo per l'assistenza di malattia ai pensionati, tassa di concessione comunale e la tosap".
Quindi l'IRAP ha eliminato 9 tra imposte e tasse (e non poca burocrazia) che gravavano sull'impresa e dunque direttamente o indirettamente su capitale e soprattutto lavoro, come avveniva per esempio con il contributo per il SSN.
L'IRAP ha peggiorato le cose per l'impresa? Forse no, se chi l'ha pesantemente criticata quando l'IRAP è nata (Giulio Tremonti in primis) poi l'ha mantenuta. Ma forse Martinetti tutto ciò non lo sa...
Ospite a Otto e mezzo, ieri sera Martinetti ha spiegato che l'IRAP tassa il costo del lavoro e gli oneri finanziari e pertanto disincentiva sia l'assunzione di dipendenti che l'indebitamento per nuovi investimenti.
Quando l'ho sentito ho fatto un salto sulla sedia. Intendiamoci, l'IRAP non è la migliore delle imposte possibili e non mancano le critiche perché chi ha più lavoratori dipendenti più paga. Tuttavia certe critiche sono poco comprensibili.
La prima ragione è che l'impresa "compra", se così si può dire, lavoro e capitali per produrre e vendere beni e servizi. L'imposta, qualunque sia, finisce direttamente o indirettamente per pesare sui frutti del lavoro e sui capitali investiti nell'impresa.
La seconda ragione è che l'IRAP ha sostituito una serie di imposte che gravavano sul lavoro e sui capitali investiti, o magari erano imposte in somma fissa, da pagare a prescindere da qualunque attività svolta e dai guadagni conseguiti.
"Con la sua istituzione -spiega Wikipedia- sono stati soppressi l'Ilor, Iciap, imposta sul patrimonio netto delle imprese, tassa di concessione governativa sulla partita Iva, contributo per il servizio sanitario nazionale (tassa della salute), contributi per l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, contributo per l'assistenza di malattia ai pensionati, tassa di concessione comunale e la tosap".
Quindi l'IRAP ha eliminato 9 tra imposte e tasse (e non poca burocrazia) che gravavano sull'impresa e dunque direttamente o indirettamente su capitale e soprattutto lavoro, come avveniva per esempio con il contributo per il SSN.
L'IRAP ha peggiorato le cose per l'impresa? Forse no, se chi l'ha pesantemente criticata quando l'IRAP è nata (Giulio Tremonti in primis) poi l'ha mantenuta. Ma forse Martinetti tutto ciò non lo sa...
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