Il 2019 non è solo l'anno dei 500 anni dalla morte di Leonardo e dei 50 anni dalla strage di Piazza Fontana. E' anche l'anno del primo asilo nido, nato in Emilia Romagna grazie a un paio di consiglieri comunali, un democristiano sindacalista CISL, Tonino Rubbi e una comunista e sindacalista CGIL, Adriana Lodi, oggi 86 enne.
I due (Adriana Lodi è stata anche assessore) vanno in Danimarca per un convegno sugli anziani e decidono di proseguire a proprie spese per la Stoccolma, dove ammirarono gli asili svedesi, costruiti a misura di bambino.
Quindi cercarono di replicare il modello a Bologna, dando vita al primo asilo nido, con orari lunghi ma flessibili, con mobili disegnati da architetti che interagivano con esperti dell'infanzia, con corsi appositi per formare il personale.
Dove hanno preso i soldi? penserete voi. Il comune di Bologna decise di rinviare a data da destinarsi la ristrutturazione di alcuni edifici di proprietà. Meglio dare ai bambini asili nuovi, adatti a un progetto educativo ben definito.
Due anni più tardi lo Stato vara una legge che istituisce gli "asili comunali con il concorso dello Stato". Un titolo che da solo spiega perchè solo in alcune parti d'Italia ci sono tanti asili e di qualità.
Adriana Lodi continuò le sue battaglie in Parlamento, rinfacciando a un ministro, che considerava non produttivo l'investimento in asili, gli acquisti di aerei da guerra.
Il ricordo del primo asilo nido italiano, innovativo per progetto educativo, architettura, arredamenti, e così via, suggerisce qualche piccola riflessione.
Il comune di Bologna ha saputo risolvere un problema, l'offerta di servizi alle famiglie, imparando da chi ne sapeva di più, gli svedesi.
Ha fatto delle scelte innovative, e ha saputo trovare i soldi rinunciando a qualcosa.
Non s'è infine preteso, con la Legge sugli asili, che fosse lo Stato a decidere di istituire gli asili. Doveva essere responsabilità degli enti locali, che meglio conoscono i bisogni delle persone.
Non basta una legge e soldi per risolvere i problemi. Serve un impegno quotidiano e magari non solo ordinario di chi crede di poterli risolvere, cambiando l'esistente.
22 dicembre 2019
09 dicembre 2019
Cafiero de Raho
Il procuratore antimafia Cafiero de Raho si chiede "perché l'imposta non si paga sul reddito conservato anziché sul reddito speso. Questo consentirebbe di controllare tutti i pagamenti" e quindi di combattere il crimine.
La risposta è semplice: lo stato incasserebbe poco o nulla.
Oggi un lavoratore dipendente paga una percentuale variabile del proprio reddito (al netto dei contributi previdenziali). Diciamo un 25%: ogni 100 euro dichiarati gliene restano 75 e di solito in media ne spende oltre il 90%.
Se pagasse sul reddito conservato incasserebbe 100, poi spenderebbe.. già quanto spenderebbe? Qualcuno o forse molti spenderebbero 90. L'imponibile sarebbe pari a 10. Quanto è lecito chiedere di quei 10 euro? Supponiamo il 50%. Quindi lo stato incasserebbe solo 5 euro ogni 100 di reddito. Altri forse pochi invece continuerebbero a spendere 65. Il reddito conservato sarebbe pari a 35. La metà finirebbe in imposte, ovvero 17,5. Sempre meno dei 25 che oggi lo stato incassa.
E' vero che tutto sarebbe dichiarato in una ipotetica economia che funzionasse nel modo suggerito dal Procuratore. Ma alla fine solo il risparmio sarebbe sottoposto a imposta. Con l'effetto di far scendere le entrate e di non avere entrate certe. Nulla vieterebbe agli italiani di spendere tutto il reddito. In questo caso il reddito conservato da sottoporre a imposta sarebbero pari a zero. Niente incasso per lo Stato.
La risposta è semplice: lo stato incasserebbe poco o nulla.
Oggi un lavoratore dipendente paga una percentuale variabile del proprio reddito (al netto dei contributi previdenziali). Diciamo un 25%: ogni 100 euro dichiarati gliene restano 75 e di solito in media ne spende oltre il 90%.
Se pagasse sul reddito conservato incasserebbe 100, poi spenderebbe.. già quanto spenderebbe? Qualcuno o forse molti spenderebbero 90. L'imponibile sarebbe pari a 10. Quanto è lecito chiedere di quei 10 euro? Supponiamo il 50%. Quindi lo stato incasserebbe solo 5 euro ogni 100 di reddito. Altri forse pochi invece continuerebbero a spendere 65. Il reddito conservato sarebbe pari a 35. La metà finirebbe in imposte, ovvero 17,5. Sempre meno dei 25 che oggi lo stato incassa.
E' vero che tutto sarebbe dichiarato in una ipotetica economia che funzionasse nel modo suggerito dal Procuratore. Ma alla fine solo il risparmio sarebbe sottoposto a imposta. Con l'effetto di far scendere le entrate e di non avere entrate certe. Nulla vieterebbe agli italiani di spendere tutto il reddito. In questo caso il reddito conservato da sottoporre a imposta sarebbero pari a zero. Niente incasso per lo Stato.
06 dicembre 2019
Spesa al supermercato e voli low cost
Qualche giorno fa ho visto gli ex ministri Tria e Tremonti esprimere giudizi molto negativi sul MES senza spiegarne le ragioni.
A Tremonti piacciono le frasi che colpiscono la fantasia di chi lo ascolta, come una che suona più o meno così: costa meno un biglietto aereo che fare la spesa.
Come si spiegara?
Il prezzo scontatissimo dei biglietti aerei è prima di tutto quasi sempre ingannevole. Solo una parte dei biglietti è venduta a un pezzo basso e quindi si dovrebbe considerare il prezzo medio e non quello più basso, usato dagli esperti di marketing per attirare clienti.
Bisogna poi considerare i motivi dei prezzi bassi.
Un primo motivo è il marketing: si vende meglio un prodotto/servizio se si attira il cliente con un prezzo basso.
Un secondo motivo è che sovente le compagnie low cost collegano una località solo se ricevono contributi pubblici, diretti ovvero una somma per ogni volo o indiretti come il taglio delle tasse aeroportuali. Ciò può spingere le compagnie a calcolare il prezzo pensando a riempire l'aereo (altrimenti come si giustifica il contributo pubblico?) e a coprire i costi rimanenti.
Un'altra ragione per abbassare i prezzi dipende dal fatto che è meglio incassare poco che lasciare il posto vuoto e non incassare nulla. Un passeggero in più significa un aumento modesto dei costi (per pulizie, carburante, catering) e quindi per poco che la compagnia incassi è probabile che questa somma superi i costi di un passeggero in più.
Infine sappiamo che negli ultimi anni le compagnie aeree low cost hanno anche tagliato i costi, in particolare del personale. Ne sa qualcosa una famosa compagnia low cost irlandese che ha usato tutti i modi possibili per ridurre i costi del personale. Al punto che centinaia di piloti si sono dimessi e sono andati a lavorare altrove non appena ne hanno avuto l'occasione.
Quando invece si parla di prodotti fisici è meno probabile che si assista a un calo rilevante dei prezzi. Quali prodotti sono simili a un viaggio in aereo? Certamente i prodotti deperibili che però sono relativamente pochi e, se restano invenduti, possono essere restituiti o donati, magari con qualche beneficio fiscale, o gettati nell'immondizia senza grandi perdite.
Gli altri prodotti restano sullo scaffale. Ci sono le vendite "lastminute" di prodotti deperibili, ma non è detto che un consumatore ne approfitti perchè spesso il risparmio è contenuto e l'acquisto di un prodotto che scade il giorno dopo costringe a consumarlo subito.
Il paradosso apparente di Tremonti è quindi facilmente spiegabile. Se la tecnologia spinge le vendite lastminute di viaggi aerei, camere d'albergo, non altrettanto succede con i prodotti del supermercato e quindi può accadere che fare la spesa costi più che comprare un biglietto aereo. Nessuno stupore, se si sa perchè succede.
A Tremonti piacciono le frasi che colpiscono la fantasia di chi lo ascolta, come una che suona più o meno così: costa meno un biglietto aereo che fare la spesa.
Come si spiegara?
Il prezzo scontatissimo dei biglietti aerei è prima di tutto quasi sempre ingannevole. Solo una parte dei biglietti è venduta a un pezzo basso e quindi si dovrebbe considerare il prezzo medio e non quello più basso, usato dagli esperti di marketing per attirare clienti.
Bisogna poi considerare i motivi dei prezzi bassi.
Un primo motivo è il marketing: si vende meglio un prodotto/servizio se si attira il cliente con un prezzo basso.
Un secondo motivo è che sovente le compagnie low cost collegano una località solo se ricevono contributi pubblici, diretti ovvero una somma per ogni volo o indiretti come il taglio delle tasse aeroportuali. Ciò può spingere le compagnie a calcolare il prezzo pensando a riempire l'aereo (altrimenti come si giustifica il contributo pubblico?) e a coprire i costi rimanenti.
Un'altra ragione per abbassare i prezzi dipende dal fatto che è meglio incassare poco che lasciare il posto vuoto e non incassare nulla. Un passeggero in più significa un aumento modesto dei costi (per pulizie, carburante, catering) e quindi per poco che la compagnia incassi è probabile che questa somma superi i costi di un passeggero in più.
Infine sappiamo che negli ultimi anni le compagnie aeree low cost hanno anche tagliato i costi, in particolare del personale. Ne sa qualcosa una famosa compagnia low cost irlandese che ha usato tutti i modi possibili per ridurre i costi del personale. Al punto che centinaia di piloti si sono dimessi e sono andati a lavorare altrove non appena ne hanno avuto l'occasione.
Quando invece si parla di prodotti fisici è meno probabile che si assista a un calo rilevante dei prezzi. Quali prodotti sono simili a un viaggio in aereo? Certamente i prodotti deperibili che però sono relativamente pochi e, se restano invenduti, possono essere restituiti o donati, magari con qualche beneficio fiscale, o gettati nell'immondizia senza grandi perdite.
Gli altri prodotti restano sullo scaffale. Ci sono le vendite "lastminute" di prodotti deperibili, ma non è detto che un consumatore ne approfitti perchè spesso il risparmio è contenuto e l'acquisto di un prodotto che scade il giorno dopo costringe a consumarlo subito.
Il paradosso apparente di Tremonti è quindi facilmente spiegabile. Se la tecnologia spinge le vendite lastminute di viaggi aerei, camere d'albergo, non altrettanto succede con i prodotti del supermercato e quindi può accadere che fare la spesa costi più che comprare un biglietto aereo. Nessuno stupore, se si sa perchè succede.
20 novembre 2019
ILVA
Cosa si può dire sulla vicenda dell'ex ILVA che tiene banco in questi giorni?
Cercando di riassumere una vicenda molto complessa, provo a fare due ipotesi. Nel prossimo post ci saranno invece considerazioni più generali su casi come ILVA.
Prima ipotesi: la vicenda dell'ex ILVA dipende da due nodi irrisolti, gli esuberi e lo scudo penale. L'acquirente di ILVA non vuole avere problemi legati a questioni ambientali ereditate dalla precedente proprietà, dei poco onesti Riva, e quindi chiede al governo di avere uno scudo penale senza il quale sarebbe un suicidio (economico e penale) gestire un'azienda che inquina provocando malattie spesso mortali.
Se si risolvesse questo problema ce ne sarebbe un secondo: gli esuberi. Problema grave in generale e in particolare al sud e a Taranto perchè quell'acciaieria è nata per creare occupazione in una zona d'Italia da cui si emigrava e si emigra ancora oggi per mancanza di opportunità lavorative.
Per risolvere il problema il governo deve, secondo questa ipotesi, rimettere lo scudo penale, superando l'ostilità di chi ha promesso a Taranto di chiudere l'ex ILVA e risolvere il problema dell'inquinamento, e accettare di mandare a casa qualche migliaio di persone, rinnegando lo scambio precedente: l'ex ILVA in cambio di occupazione.
Seconda ipotesi: si vuole chiudere definitivamente l'acciaieria di Taranto e aprire il mercato dell'acciaio italiano. I mercati dei beni prodotti dall'industria è spesso un mercato oligopolistico, cioè ci sono pochi produttori, e si richiedono grandi investimenti. Ciò genera barriere all'entrata: chi vuole entrare nella produzione di tali beni deve investire tanto ma non conviene farlo se il mercato è saturo. E spesso chi già opera su quel mercato abbassa i prezzi in modo da escludere eventuali concorrenti.
Ancelor Mittal potrebbe quindi essersi trovata a nella condizione di chi deve spendere tanto per avere l'acciaieria di Taranto mentre le incertezze giudiziarie e economiche potrebbero aver spinto la clientela a rivolgersi altrove. Così il gruppo franco-indiano si troverebbe a fare una scelta: tagliare i costi e continuare a produrre meno del previsto, oppure chiudere e soddisfare la domanda residua importando dall'estero.
La chiusura risolverebbe in un colpo solo il problema legale e permetterebbe di incrementare la produzione di altri stabilimenti, esteri, del gruppo, con indubbi benefici sui costi. Ma anche sui ricavi: in assenza di un grande produttore con prezzi concorrenziali, chi opera sul mercato dei prodotti siderurgici potrebbe alzare il prezzo e ne beneficerebbe pure Ancelor Mittal, che potrebbe vendere i propri prodotti, italiani o di importazione, a prezzi più alti.
Cercando di riassumere una vicenda molto complessa, provo a fare due ipotesi. Nel prossimo post ci saranno invece considerazioni più generali su casi come ILVA.
Prima ipotesi: la vicenda dell'ex ILVA dipende da due nodi irrisolti, gli esuberi e lo scudo penale. L'acquirente di ILVA non vuole avere problemi legati a questioni ambientali ereditate dalla precedente proprietà, dei poco onesti Riva, e quindi chiede al governo di avere uno scudo penale senza il quale sarebbe un suicidio (economico e penale) gestire un'azienda che inquina provocando malattie spesso mortali.
Se si risolvesse questo problema ce ne sarebbe un secondo: gli esuberi. Problema grave in generale e in particolare al sud e a Taranto perchè quell'acciaieria è nata per creare occupazione in una zona d'Italia da cui si emigrava e si emigra ancora oggi per mancanza di opportunità lavorative.
Per risolvere il problema il governo deve, secondo questa ipotesi, rimettere lo scudo penale, superando l'ostilità di chi ha promesso a Taranto di chiudere l'ex ILVA e risolvere il problema dell'inquinamento, e accettare di mandare a casa qualche migliaio di persone, rinnegando lo scambio precedente: l'ex ILVA in cambio di occupazione.
Seconda ipotesi: si vuole chiudere definitivamente l'acciaieria di Taranto e aprire il mercato dell'acciaio italiano. I mercati dei beni prodotti dall'industria è spesso un mercato oligopolistico, cioè ci sono pochi produttori, e si richiedono grandi investimenti. Ciò genera barriere all'entrata: chi vuole entrare nella produzione di tali beni deve investire tanto ma non conviene farlo se il mercato è saturo. E spesso chi già opera su quel mercato abbassa i prezzi in modo da escludere eventuali concorrenti.
Ancelor Mittal potrebbe quindi essersi trovata a nella condizione di chi deve spendere tanto per avere l'acciaieria di Taranto mentre le incertezze giudiziarie e economiche potrebbero aver spinto la clientela a rivolgersi altrove. Così il gruppo franco-indiano si troverebbe a fare una scelta: tagliare i costi e continuare a produrre meno del previsto, oppure chiudere e soddisfare la domanda residua importando dall'estero.
La chiusura risolverebbe in un colpo solo il problema legale e permetterebbe di incrementare la produzione di altri stabilimenti, esteri, del gruppo, con indubbi benefici sui costi. Ma anche sui ricavi: in assenza di un grande produttore con prezzi concorrenziali, chi opera sul mercato dei prodotti siderurgici potrebbe alzare il prezzo e ne beneficerebbe pure Ancelor Mittal, che potrebbe vendere i propri prodotti, italiani o di importazione, a prezzi più alti.
09 novembre 2019
Il (sovranismo del) muro di Berlino
30 anni fa cadeva il muro di Berlino, creato quasi 30 anni prima per impedire che i tedeschi della DDR ovvero della parte della Germania liberata o meglio conquistata dai sovietici potessero passare in uno dei tre settori della città e della Germania sotto il controllo di americani, francesi e inglesi e, di fatto, libera.
La perestroika di Gorbacev aveva da anni segnato la fine dell'economia pianificata. Sparirono poco per volta gli aiuti dell'URSS ai paesi satelliti, e anche il controllo politico e militare di Mosca sui paesi dell'est Europa. La crisi economica e la voglia di libertà per mesi spinsero i tedeschi dell'est a fuggire passando dalla Cecoslovacchia, finchè anche i confini tra le due Germanie vennero aperti e il muro, simbolo della dittatura, venne abbattuto a picconate dalla folla.
La fine del muro segnò anche un importante cambiamento per l'economia del continente. La scelta della Germania unificata di investire ingenti capitali nell'ex DDR, ha voluto dire meno investimenti in altri paesi europei tra cui l'Italia. Il surplus tedesco finanziava le infrastrutture dell'est e non più il debito pubblico e le imprese italiane, con effetti evidenti nei primi anni 90.
In pochi anni siamo passati da una crescita sostenuta, registrata soprattutto nella seconda parte degli anni 80, a una recessione evidente soprattutto nel biennio 1991-92, con conseguente crisi dei conti pubblici, debito alle stelle e la crisi della lira nel 1992.
Ce ne dovremmo ricordare mentre celebriamo i 30 anni dal crollo del muro e di fatto anche dell'impero comunista.
A quel cambiamento i tedeschi reagirono dicendo prima la Germania, come si potrebbe dire oggi. Per una economia debole come quella italiana furono dolori, anni di crisi, di aziende che chiudevano, di manovre pesanti per rimettere in sesto i conti pubblici, di credibilità ai minimi termini sui mercati, di uscita della lira dallo SME con tanto di speculazioni ai nostri danni.
La perestroika di Gorbacev aveva da anni segnato la fine dell'economia pianificata. Sparirono poco per volta gli aiuti dell'URSS ai paesi satelliti, e anche il controllo politico e militare di Mosca sui paesi dell'est Europa. La crisi economica e la voglia di libertà per mesi spinsero i tedeschi dell'est a fuggire passando dalla Cecoslovacchia, finchè anche i confini tra le due Germanie vennero aperti e il muro, simbolo della dittatura, venne abbattuto a picconate dalla folla.
La fine del muro segnò anche un importante cambiamento per l'economia del continente. La scelta della Germania unificata di investire ingenti capitali nell'ex DDR, ha voluto dire meno investimenti in altri paesi europei tra cui l'Italia. Il surplus tedesco finanziava le infrastrutture dell'est e non più il debito pubblico e le imprese italiane, con effetti evidenti nei primi anni 90.
In pochi anni siamo passati da una crescita sostenuta, registrata soprattutto nella seconda parte degli anni 80, a una recessione evidente soprattutto nel biennio 1991-92, con conseguente crisi dei conti pubblici, debito alle stelle e la crisi della lira nel 1992.
Ce ne dovremmo ricordare mentre celebriamo i 30 anni dal crollo del muro e di fatto anche dell'impero comunista.
A quel cambiamento i tedeschi reagirono dicendo prima la Germania, come si potrebbe dire oggi. Per una economia debole come quella italiana furono dolori, anni di crisi, di aziende che chiudevano, di manovre pesanti per rimettere in sesto i conti pubblici, di credibilità ai minimi termini sui mercati, di uscita della lira dallo SME con tanto di speculazioni ai nostri danni.
31 ottobre 2019
Fiat - Peugeot
Se Volkswagen investe 9 miliardi per modelli elettrici, FCA (ma anche Peugeot) deve trovare un partner. Si potrebbe sintetizzare così l'accordo che sta prendendo piede tra FCA e Peugeot.
L'auto si trova di fronte a (almeno) due grandi sfide, il mercato globale e l'elettrico.
Che il mercato stia diventando globale lo si è capito ormai da tempo, almeno dai primi anni '90, quando si sono aperti i mercati europei alle auto giapponesi (e viceversa). Per produrre auto con prezzi competitivi, ovvero auto per tutti, servono economie di scala e i giapponesi hanno dimostrato di essere maestri in questo.
Servivano quindi grandi numeri, modelli prodotti in milioni di pezzi, piattaforme comuni per ridurre i costi di progettazione, ingegnerizzazione, ecc. vale a dire tutti i costi che si sostengono ancora prima di vendere un solo veicolo.
Ciò vale a maggior ragione con la sfida elettrica. La necessità di produrre auto elettriche riduce la possibilità di usare pezzi già progettati e testati sui nuovi modelli.
Si deve ricominciare da capo e, come succede con le nuove tecnologie, c'è il rischio che un prodotto fatto male o una tecnologia che non ha successo si trasformino in un costo e quindi in perdite, che possono essere enormi in un settore come quello dell'auto.
Ma c'è anche il rischio che, non adottando una tecnologia, ci si trovi fuori mercato, come successo a Nokia, anni fa leader nella telefonia mobile e oggi marchio quasi sparito perchè non è entrare nel mercato degli smartphone al momento giusto.
Dunque servono grandi numeri e grandi investimenti. FCA e Peugeot non potevano restare sole senza grandi rischi di insuccesso e hanno deciso di unirsi.
Infine c'è la globalizzazione dei mercati di vendita. FCA farà entrare Peugeot nel mercato americano e i francesi faranno entrare gli italiani nel mercato asiatico. Anche in questo caso condividendo le strutture commerciali oltre a quelle produttive, limitando gli investimenti in concessionarie e impianti dove non sono attualmente presenti.
L'auto si trova di fronte a (almeno) due grandi sfide, il mercato globale e l'elettrico.
Che il mercato stia diventando globale lo si è capito ormai da tempo, almeno dai primi anni '90, quando si sono aperti i mercati europei alle auto giapponesi (e viceversa). Per produrre auto con prezzi competitivi, ovvero auto per tutti, servono economie di scala e i giapponesi hanno dimostrato di essere maestri in questo.
Servivano quindi grandi numeri, modelli prodotti in milioni di pezzi, piattaforme comuni per ridurre i costi di progettazione, ingegnerizzazione, ecc. vale a dire tutti i costi che si sostengono ancora prima di vendere un solo veicolo.
Ciò vale a maggior ragione con la sfida elettrica. La necessità di produrre auto elettriche riduce la possibilità di usare pezzi già progettati e testati sui nuovi modelli.
Si deve ricominciare da capo e, come succede con le nuove tecnologie, c'è il rischio che un prodotto fatto male o una tecnologia che non ha successo si trasformino in un costo e quindi in perdite, che possono essere enormi in un settore come quello dell'auto.
Ma c'è anche il rischio che, non adottando una tecnologia, ci si trovi fuori mercato, come successo a Nokia, anni fa leader nella telefonia mobile e oggi marchio quasi sparito perchè non è entrare nel mercato degli smartphone al momento giusto.
Dunque servono grandi numeri e grandi investimenti. FCA e Peugeot non potevano restare sole senza grandi rischi di insuccesso e hanno deciso di unirsi.
Infine c'è la globalizzazione dei mercati di vendita. FCA farà entrare Peugeot nel mercato americano e i francesi faranno entrare gli italiani nel mercato asiatico. Anche in questo caso condividendo le strutture commerciali oltre a quelle produttive, limitando gli investimenti in concessionarie e impianti dove non sono attualmente presenti.
26 ottobre 2019
Perchè il cavalier Brambilla....
Perchè non si investe nonostante la grande liquidità?
Ecco la risposta che dà Mario Deaglio, economista in pensione, sulle pagine de La Stampa. Risposta che rispecchia quanto avrete forse letto su questo blog:
Ecco la risposta che dà Mario Deaglio, economista in pensione, sulle pagine de La Stampa. Risposta che rispecchia quanto avrete forse letto su questo blog:
23 ottobre 2019
Nuove Parmalat crescono
Può una società con un fatturato ridicolo valere 1 miliardo? Gli squali della finanza sono tornati?
Leggete qui: https://www.lastampa.it/economia/2019/10/23/news/bio-on-dal-miliardo-in-borsa-agli-arresti-1.37778900
E anche il durissimo giudizio di Quintessential : https://www.qcmfunds.com/pdf-documents/
con tanto di video: https://www.youtube.com/watch?v=HWw3b07_U5Y
Leggete qui: https://www.lastampa.it/economia/2019/10/23/news/bio-on-dal-miliardo-in-borsa-agli-arresti-1.37778900
E anche il durissimo giudizio di Quintessential : https://www.qcmfunds.com/pdf-documents/
con tanto di video: https://www.youtube.com/watch?v=HWw3b07_U5Y
10 ottobre 2019
C'è del marcio a Berlino
Siamo abituati a pensare alla Germania come alla nazione di produzioni industriali importanti, dalle auto agli elettrodomestici passando per l'industria pesante, ma la Germania è anche un importante "produttore" di servizi finanziari.
E finanza vuol dire spesso segretezza e riciclaggio, come spiega questo articolo di Valori: https://valori.it/riciclaggio-di-denaro-quanto-e-opaco-il-cielo-sopra-berlino/?fbclid=IwAR1DuoUZSFdvubCljHkUM_uNohiwgX_caWQ4ibD0KkNYBusC_YmMYI4VLT8
Regole opache, favorite dal federalismo e magari da qualche interesse rendono difficile la lotta contro il riciclaggio nella più grande economia europea che, come ricorderete ospita anche molti capitali fuggiti dalla Grecia (e dal suo fisco).
Non deve stupire l'opacità, tipica di chi ha nelle proprie banche molti soldi stranieri, e neanche la presenza di questi: chi ha capitali li investe in economie solide, che offrono buoni rendimenti e garanzie legislative. Un male comune a molte economie. Non a caso nella classifica dell'opacità troviamo gli USA, la Svizzera e altri paesi piccoli e grandi che fanno affari sull'impiego di denaro proveniente dall'estero.
E finanza vuol dire spesso segretezza e riciclaggio, come spiega questo articolo di Valori: https://valori.it/riciclaggio-di-denaro-quanto-e-opaco-il-cielo-sopra-berlino/?fbclid=IwAR1DuoUZSFdvubCljHkUM_uNohiwgX_caWQ4ibD0KkNYBusC_YmMYI4VLT8
Regole opache, favorite dal federalismo e magari da qualche interesse rendono difficile la lotta contro il riciclaggio nella più grande economia europea che, come ricorderete ospita anche molti capitali fuggiti dalla Grecia (e dal suo fisco).
Non deve stupire l'opacità, tipica di chi ha nelle proprie banche molti soldi stranieri, e neanche la presenza di questi: chi ha capitali li investe in economie solide, che offrono buoni rendimenti e garanzie legislative. Un male comune a molte economie. Non a caso nella classifica dell'opacità troviamo gli USA, la Svizzera e altri paesi piccoli e grandi che fanno affari sull'impiego di denaro proveniente dall'estero.
05 ottobre 2019
Abbassare il debito?
La finanziaria 2020 sarà probabilmente la finanziaria delle promesse mancate. O forse delle promesse assenti.
Tutti vorrebbero fare, ridurre le imposte, alzare gli investimenti ma nessuno vuol rinunciare a nulla, e quindi alla fine le risorse disponibili saranno poche, pochissime e si farà poco o nulla.
La ragione di tutto ciò si chiama Matteo Salvini, abilissimo da marzo 2018 in poi a sfruttare ogni occasione per farsi propaganda. Se un politico riesce a trasformare in dramma ogni euro tolto a qualcuno o ogni euro in più di imposte, chi sta al governo sarà restio a cambiare, per non dare argomenti all'opposizione abile a farsi propaganda.
Tra le tante critiche poco sensate ce n'è una che dice che il governo non fa nulla per abbassare il debito, ridurre la spesa e aumentare gli investimenti. L'ho sentita dire da un giornalista che dirige un quotidiano economico. Un'affermazione che va capita e spiegata.
Si può abbassare il debito?
Se per debito intendiamo i 2300 miliardi di debito pubblico la risposta è no, a meno di fare in modo che il deficit pubblico cioè la differenza tra entrate e spese di un anno sia positiva. In quel caso, se -supponiamo- nel 2020 lo stato spende meno di quello che incassa, il surplus servirà a ridurre l'enorme massa di 2300 miliardi di debito.
Altro discorso è parlare di rapporto debito/PIL. In questo caso il rapporto può diminuire se il PIL cresce più velocemente del debito. Cosa possibile ma improbabile visto che ormai da tempo il PIL sta crescendo a ritmi lentissimi, quando cresce.
Per cui attenzione: quando si parla di debito in calo si intende, probabilmente, il rapporto debito/PIL. Altrimenti si sta dicendo qualcosa che non ha molto senso e meriterebbe una spiegazione.
Si può ridurre la spesa e aumentare gli investimenti?
In questo caso dobbiamo chiederci di chi sono gli investimenti. Se sono investimenti pubblici, facendo parte della spesa pubblica, invocare una minor spesa e maggiori investimenti è abbastanza contraddittorio. Per cui servirebbe spiegare quale spesa si vuol tagliare in misura maggiore dell'incremento dell'investimento pubblico che si ritiene indispensabile.
Se si parla di investimenti privati, resta da capire come stimolarli in un'economia ferma. Gli investimenti privati dipendono in gran parte dall'andamento del PIL. Si investe se si pensa di vendere più di prima, ma in una economia ferma questo non succede tanto facilmente. Se gli investimenti privati invece sono stimolati dallo Stato, è evidente che serve una maggiore spesa pubblica o ci si deve accontentare di incassare meno imposte: in ogni caso i conti pubblici peggiorano.
Di sicuro non esiste un modo per ottenere questi obiettivi senza fare scelte dolorose, che, come detto all'inizio, nessuno pare intenzionato a fare per non dare argomenti a Salvini e scontentare i propri elettori.
Tutti vorrebbero fare, ridurre le imposte, alzare gli investimenti ma nessuno vuol rinunciare a nulla, e quindi alla fine le risorse disponibili saranno poche, pochissime e si farà poco o nulla.
La ragione di tutto ciò si chiama Matteo Salvini, abilissimo da marzo 2018 in poi a sfruttare ogni occasione per farsi propaganda. Se un politico riesce a trasformare in dramma ogni euro tolto a qualcuno o ogni euro in più di imposte, chi sta al governo sarà restio a cambiare, per non dare argomenti all'opposizione abile a farsi propaganda.
Tra le tante critiche poco sensate ce n'è una che dice che il governo non fa nulla per abbassare il debito, ridurre la spesa e aumentare gli investimenti. L'ho sentita dire da un giornalista che dirige un quotidiano economico. Un'affermazione che va capita e spiegata.
Si può abbassare il debito?
Se per debito intendiamo i 2300 miliardi di debito pubblico la risposta è no, a meno di fare in modo che il deficit pubblico cioè la differenza tra entrate e spese di un anno sia positiva. In quel caso, se -supponiamo- nel 2020 lo stato spende meno di quello che incassa, il surplus servirà a ridurre l'enorme massa di 2300 miliardi di debito.
Altro discorso è parlare di rapporto debito/PIL. In questo caso il rapporto può diminuire se il PIL cresce più velocemente del debito. Cosa possibile ma improbabile visto che ormai da tempo il PIL sta crescendo a ritmi lentissimi, quando cresce.
Per cui attenzione: quando si parla di debito in calo si intende, probabilmente, il rapporto debito/PIL. Altrimenti si sta dicendo qualcosa che non ha molto senso e meriterebbe una spiegazione.
Si può ridurre la spesa e aumentare gli investimenti?
In questo caso dobbiamo chiederci di chi sono gli investimenti. Se sono investimenti pubblici, facendo parte della spesa pubblica, invocare una minor spesa e maggiori investimenti è abbastanza contraddittorio. Per cui servirebbe spiegare quale spesa si vuol tagliare in misura maggiore dell'incremento dell'investimento pubblico che si ritiene indispensabile.
Se si parla di investimenti privati, resta da capire come stimolarli in un'economia ferma. Gli investimenti privati dipendono in gran parte dall'andamento del PIL. Si investe se si pensa di vendere più di prima, ma in una economia ferma questo non succede tanto facilmente. Se gli investimenti privati invece sono stimolati dallo Stato, è evidente che serve una maggiore spesa pubblica o ci si deve accontentare di incassare meno imposte: in ogni caso i conti pubblici peggiorano.
Di sicuro non esiste un modo per ottenere questi obiettivi senza fare scelte dolorose, che, come detto all'inizio, nessuno pare intenzionato a fare per non dare argomenti a Salvini e scontentare i propri elettori.
03 ottobre 2019
Le scommesse di Borghi
Qualche settimana fa s'è scoperto che Claudio Borghi, una delle "menti" economiche del partito di Salvini ha investito in BTP ottenendo rilevanti guadagni, calcolati dal Sole 24 Ore nel 25% dela somma investita. Un guadagno importante, soprattutto perchè si è trattato di un investimento in titoli di stato, di fatto privo di rischio.
In 14 mesi del governo giallo-verde lo spread è salito e sceso diverse volte, raggiungendo e superando in più occasioni quota 300. Un limite preoccupante ma non troppo, per diverse ragioni.
La prima ragione è che uno Stato molto indebitato non si può permettere di pagare tassi elevati sui titoli di stato. Se una dichiarazione politica lo spinge in alto, si spera che altri si muovano per ottenere il risultato opposto, perchè non conviene a nessuno trovarsi al governo con tassi e quindi spese alte.
La seconda è che oggi, a differenza di qualche anno fa, la BCE interviene per tenere bassi i tassi, condizione indispensabile (ma non sufficiente) per sperare che l'economia migliori.
Quindi era molto probabile che le fiammate dello spread fossero temporanee, vale a dire che lo spread salisse oltre quota 300 per poi scendere verso livelli più ragionevoli.
Ciò rendeva non troppo rischioso l'investimento in titoli di stato. Chi li avesse comprati con uno spread alto, non solo aveva una bassissima probabilità di restare con un pugno di mosche in mano, perchè tale è la probabilità di fallimento dello Stato Italiano, ma aveva anche buone probabilità di rivendere di lì a poche settimane gli stessi titoli ottenendo un guadagno.
I titoli di stato sono infatti quotati. Il loro prezzo varia in funzione di acquisti e vendite. Un aumento dello spread significa che le vendite di titoli (decennali) prevalgono sugli acquisti e quindi che il loro prezzo scende. Il contrario succede quando lo spread scende: il prezzo dei titoli sale.
Se si acquista qualcosa quando il prezzo è basso (e lo spread è alto) e si vende quando il prezzo è salito (e lo spread è sceso) si ottiene un guadagno. Molto più generoso del tasso pagato dal titolo.
Ora Borghi ha fatto proprio questo, comprando i titoli quando lo spread era alto e vendendoli in seguito, quando il governo giallo-rosso è entrato in crisi e lo spread è diminuito rapidamente.
Tutto ciò pone alcune questioni serie.
Può un esponente politico di un importante partito di governo speculare sullo spread che i suoi colleghi (o capi) di partito possono influenzare con dichiarazioni o atti politici?
Che garanzie hanno i cittadini e i risparmiatori che tali dichiarazioni non siano studiate per muovere lo spread e quindi i prezzi dei titoli di stato?
Che serietà ha un politico che si schiera contro l'euro ma al tempo stesso fa scelte di investimento che sono convenienti se le sue idee economiche non si realizzano?
In 14 mesi del governo giallo-verde lo spread è salito e sceso diverse volte, raggiungendo e superando in più occasioni quota 300. Un limite preoccupante ma non troppo, per diverse ragioni.
La prima ragione è che uno Stato molto indebitato non si può permettere di pagare tassi elevati sui titoli di stato. Se una dichiarazione politica lo spinge in alto, si spera che altri si muovano per ottenere il risultato opposto, perchè non conviene a nessuno trovarsi al governo con tassi e quindi spese alte.
La seconda è che oggi, a differenza di qualche anno fa, la BCE interviene per tenere bassi i tassi, condizione indispensabile (ma non sufficiente) per sperare che l'economia migliori.
Quindi era molto probabile che le fiammate dello spread fossero temporanee, vale a dire che lo spread salisse oltre quota 300 per poi scendere verso livelli più ragionevoli.
Ciò rendeva non troppo rischioso l'investimento in titoli di stato. Chi li avesse comprati con uno spread alto, non solo aveva una bassissima probabilità di restare con un pugno di mosche in mano, perchè tale è la probabilità di fallimento dello Stato Italiano, ma aveva anche buone probabilità di rivendere di lì a poche settimane gli stessi titoli ottenendo un guadagno.
I titoli di stato sono infatti quotati. Il loro prezzo varia in funzione di acquisti e vendite. Un aumento dello spread significa che le vendite di titoli (decennali) prevalgono sugli acquisti e quindi che il loro prezzo scende. Il contrario succede quando lo spread scende: il prezzo dei titoli sale.
Se si acquista qualcosa quando il prezzo è basso (e lo spread è alto) e si vende quando il prezzo è salito (e lo spread è sceso) si ottiene un guadagno. Molto più generoso del tasso pagato dal titolo.
Ora Borghi ha fatto proprio questo, comprando i titoli quando lo spread era alto e vendendoli in seguito, quando il governo giallo-rosso è entrato in crisi e lo spread è diminuito rapidamente.
Tutto ciò pone alcune questioni serie.
Può un esponente politico di un importante partito di governo speculare sullo spread che i suoi colleghi (o capi) di partito possono influenzare con dichiarazioni o atti politici?
Che garanzie hanno i cittadini e i risparmiatori che tali dichiarazioni non siano studiate per muovere lo spread e quindi i prezzi dei titoli di stato?
Che serietà ha un politico che si schiera contro l'euro ma al tempo stesso fa scelte di investimento che sono convenienti se le sue idee economiche non si realizzano?
23 settembre 2019
La svolta verde della Germania
Mentre l'Europa scivola verso la recessione, la Germania, che già si trova in recessione, decide di spendere 100 miliardi nei prossimi anni per dare una svolta verde all'economia.
Non è un semplice rilancio, un modo di uscire dalla recessione, ma una trasformazione che non coinvolgerà soltanto lo stato ma tutto il sistema produttivo tedesco.
La Germania ormai da anni cerca di primeggiare nell'economia. Si spiegano così i guai di Deutsche Bank con i derivati, ma anche le scelte di Volkswagen che produce guadagnando poco (i guadagni del gruppo dipendono da Audi e Porsche) e mette in difficoltà le altre imprese automobilistiche europee, costrette a tenere bassi i prezzi e quindi a sacrificare la redditività.
Ora la Germania punta sul verde, promette 1 milione di colonnine elettriche, venendo in contro alla richiesta dell'industria nazionale, e incentivi per l'acquisto.
Colonnine e incentivi servono non solo a vendere le auto elettriche ma anche a ottenere economie nella produzione. Un modo per diventare leader nel mercato futuro, dove probabilmente la vendita di auto ibride e elettriche crescerà rapidamente.
Insomma la Germania non decide di spendere 100 miliardi per una svolta verde senza motivo o perchè lo dicono gli studenti che protestano contro i cambiamenti climatici. Lo fanno a ragion veduta per diventare leader nelle produzioni del futuro. E se altrove non si capisce, tanto meglio.
Non è un semplice rilancio, un modo di uscire dalla recessione, ma una trasformazione che non coinvolgerà soltanto lo stato ma tutto il sistema produttivo tedesco.
La Germania ormai da anni cerca di primeggiare nell'economia. Si spiegano così i guai di Deutsche Bank con i derivati, ma anche le scelte di Volkswagen che produce guadagnando poco (i guadagni del gruppo dipendono da Audi e Porsche) e mette in difficoltà le altre imprese automobilistiche europee, costrette a tenere bassi i prezzi e quindi a sacrificare la redditività.
Ora la Germania punta sul verde, promette 1 milione di colonnine elettriche, venendo in contro alla richiesta dell'industria nazionale, e incentivi per l'acquisto.
Colonnine e incentivi servono non solo a vendere le auto elettriche ma anche a ottenere economie nella produzione. Un modo per diventare leader nel mercato futuro, dove probabilmente la vendita di auto ibride e elettriche crescerà rapidamente.
Insomma la Germania non decide di spendere 100 miliardi per una svolta verde senza motivo o perchè lo dicono gli studenti che protestano contro i cambiamenti climatici. Lo fanno a ragion veduta per diventare leader nelle produzioni del futuro. E se altrove non si capisce, tanto meglio.
04 settembre 2019
Conte, Salvini e lo spread
Sta dunque per nascere il secondo governo Conte, con il PD prende il posto della Lega.
L'effetto più evidente per ora riguarda lo spread, che è un pò l'indicatore della fiducia verso le finanze pubbliche italiane. Se la fiducia c'è, si comprano titoli di stato italiani e lo spread scende. Se non c'è si vendono e lo spread sale.
Prima delle elezioni, verso la fine di febbraio del 2018, lo spread era circa 125. Ha subito un'impennata quando s'è capito che il governo avrebbe visto insieme il Movimento di Grillo e il partito di Salvini.
Col governo Conte lo spread è rimasto stabilmente sopra quota 200 e alcune volte è salito sopra 300, per effetto soprattutto degli attacchi di Salvini all'Europa.
Infatti le trattative per fare un governo senza Salvini hanno spinto lo spread fino al livello di 148 punti di oggi. Un livello mai visto durante il primo governo Conte.
Dunque un buon segnale per l'Italia, aver sostituito una forza anti-europea a una filoeuropea che ha scelto per l'economia un europeista convinto. Perchè ogni anno si rinnovano titoli di stato per oltre 400 miliardi di euro. Se un governo rassicurante per i mercati finanziari vuol dire tassi più bassi, si risparmieranno molti soldi in interessi. 4 miliardi per ogni 1% in meno di tasso pagato a chi sottoscrive i nostri titoli di stato.
L'effetto più evidente per ora riguarda lo spread, che è un pò l'indicatore della fiducia verso le finanze pubbliche italiane. Se la fiducia c'è, si comprano titoli di stato italiani e lo spread scende. Se non c'è si vendono e lo spread sale.
Prima delle elezioni, verso la fine di febbraio del 2018, lo spread era circa 125. Ha subito un'impennata quando s'è capito che il governo avrebbe visto insieme il Movimento di Grillo e il partito di Salvini.
Col governo Conte lo spread è rimasto stabilmente sopra quota 200 e alcune volte è salito sopra 300, per effetto soprattutto degli attacchi di Salvini all'Europa.
Infatti le trattative per fare un governo senza Salvini hanno spinto lo spread fino al livello di 148 punti di oggi. Un livello mai visto durante il primo governo Conte.
Dunque un buon segnale per l'Italia, aver sostituito una forza anti-europea a una filoeuropea che ha scelto per l'economia un europeista convinto. Perchè ogni anno si rinnovano titoli di stato per oltre 400 miliardi di euro. Se un governo rassicurante per i mercati finanziari vuol dire tassi più bassi, si risparmieranno molti soldi in interessi. 4 miliardi per ogni 1% in meno di tasso pagato a chi sottoscrive i nostri titoli di stato.
02 settembre 2019
Ronaldo e le azioni della Juventus
Poco più di un anno fa la Juventus ha ingaggiato Cristiano Ronaldo. Era il luglio 2018. L'effetto sulle azioni della società è straordinario, come indica il grafico. Negli anni precedenti il valore era salito soltanto in occasione di una finale di Champions League (maggio 2017). CR7 ha portato le azioni della Juventus stabilmente sopra 1 euro, a livelli oggi doppi rispetto ai valori della primavera di un anno fa.
Un ottimo investimento, Ronaldo, per gli azionisti.
28 agosto 2019
La mia banca è (più) differente...
La mia banca è differente, diceva uno spot delle Banche di Credito Cooperativo. Categoria a cui appartiene anche Banca Etica, che forse è più differente delle altre.
Se volete sapere il perchè, leggete l'intervista alla Presidente: https://ilponte.home.blog/2019/08/28/luca-beccaria-banca-etica-intervista-ad-anna-fasano-neo-presidente/?fbclid=IwAR0jV0lx5lO9--68fR6gEST0yCkvAv6wQpRPG2pIDPwYXdOGCisgw2jLwFQ
Se volete sapere il perchè, leggete l'intervista alla Presidente: https://ilponte.home.blog/2019/08/28/luca-beccaria-banca-etica-intervista-ad-anna-fasano-neo-presidente/?fbclid=IwAR0jV0lx5lO9--68fR6gEST0yCkvAv6wQpRPG2pIDPwYXdOGCisgw2jLwFQ
08 agosto 2019
I probabili effetti della flat tax
Il PIL fermo e probabilmente in calo nei prossimi mesi spinge Matteo Salvini a chiedere con inisistenza la flat tax, uno dei cavalli di battaglia della Lega (e delle destre).
Dire flat tax vuol dire promettere agli italiani un taglio delle imposte e quindi una busta paga con più soldi. Con quali effetti?
La prima questione è che la flat tax minaccia i conti pubblici. Diminuire le imposte vuol dire far crescere la spesa privata perchè i cittadini si trovano più soldi in tasca, e quindi le entrate fiscali, che però non sono sufficienti a compensare il calo delle entrate dovute alla flat tax.
La flat tax in altre parole vuol dire dare soldi ai cittadini e incassarne solo una parte, con relativi problemi di bilancio da parte dello Stato, troppo indebitato.
Flat tax vuol dire quindi un aumento del deficit: dove si trovano i soldi? La domanda se la faranno i sottoscrittori dell'ingente debito pubblico italiano. Ed è una domanda pericolosa: se il progetto di flat tax facesse diminuire la fiducia nei titoli di stato italiani, i conti pubblici subirebbero l'effetto negativo di tassi (e spread) in crescita e quindi di una maggiore spesa pubblica per interessi. Il buco nei conti pubblici provocato dalla flat tax ne genererebbe un altro.
La seconda questione è: quanta parte dei soldi ottenuti verrà spesa dagli italiani che otterranno uno sconto fiscale?
La teoria economica suggerisce che chi ha un reddito più basso spenderà di più, in percentuale delle somme ricevute. Chi ha un reddito di 800 euro e con lo sconto arriverà a 1000, spenderà buona parte o forse tutti i 200 euro in più, mentre chi guadagna 5000 euro spenderà solo parte del soldi ottenuti.
Se si vuole, quindi, che la flat tax o una qualunque riforma fiscale produca effetti positivi sui consumi, è necessario concentrare i benefici sui redditi più bassi.
L'esatto contrario di quel che promette di fare la flat tax che, prevedendo una sola aliquota, riduce le imposte soprattutto a chi ha redditi più elevati e per questo è soggetto alle aliquote più alte.E anche l'esatto contrario delle scelte economiche della Lega, contraria al salario minimo e di un governo restio a concedere aumenti degli stipendi pubblici e delle pensioni.
Se della flat tax beneficiassero soprattutto i redditi medio-alti, i consumi crescerebbero di meno. Una parte dei soldi finirebbero invece in banca, come sta succedendo ormai da anni, a rimpinguare i risparmi.
Gli italiani, scottati da una crisi senza precedenti e incerti sul futuro, evitando anche solo di investire in titoli di stato i risparmi, lasciandoli nei conti correnti.
La flat tax modificherebbe questo scenario? Probabilmente no, prevarrebbero le incertezze e la prudenza. Gli italiani ai tempi di Monti hanno capito che se i conti pubblici peggiorano c'è il rischio che qualcuno prima o poi chieda loro il conto sotto forma di maggiori imposte.
Quindi la spesa sarebbe inferiore al previsto. Colpa dei timori su un futuro incerto.
E i soldi spesi dove finiscono? In parte potrebbero essere spesi per beni di importazione. Un paradosso per chi vuole essere sovranista. Dai più soldi agli italiani ma una parte non piccola finisce per stimolare le economise straniere.
P.S.: un tempo Salvini, e in generale i sostenitori della flat tax, affermavano che il vantaggio della flat tax sarebbe un aimento delle entrate fiscali perchè aliquote più basse stimolerebbero una maggiore onestà. E' una idea che s'è sentita spesso ma non ha molto senso. Se un contribuente ha potuto dichiarare meno, non si vede perchè all'improvviso dovrebbe dire al fisco di guardagnare il 30 o il 50% in più. Anche se alla fine versasse al fisco la stessa somma, sarebbe una sorta di autodenuncia, un invito a indagare sul passato.
Dire flat tax vuol dire promettere agli italiani un taglio delle imposte e quindi una busta paga con più soldi. Con quali effetti?
La prima questione è che la flat tax minaccia i conti pubblici. Diminuire le imposte vuol dire far crescere la spesa privata perchè i cittadini si trovano più soldi in tasca, e quindi le entrate fiscali, che però non sono sufficienti a compensare il calo delle entrate dovute alla flat tax.
La flat tax in altre parole vuol dire dare soldi ai cittadini e incassarne solo una parte, con relativi problemi di bilancio da parte dello Stato, troppo indebitato.
Flat tax vuol dire quindi un aumento del deficit: dove si trovano i soldi? La domanda se la faranno i sottoscrittori dell'ingente debito pubblico italiano. Ed è una domanda pericolosa: se il progetto di flat tax facesse diminuire la fiducia nei titoli di stato italiani, i conti pubblici subirebbero l'effetto negativo di tassi (e spread) in crescita e quindi di una maggiore spesa pubblica per interessi. Il buco nei conti pubblici provocato dalla flat tax ne genererebbe un altro.
La seconda questione è: quanta parte dei soldi ottenuti verrà spesa dagli italiani che otterranno uno sconto fiscale?
La teoria economica suggerisce che chi ha un reddito più basso spenderà di più, in percentuale delle somme ricevute. Chi ha un reddito di 800 euro e con lo sconto arriverà a 1000, spenderà buona parte o forse tutti i 200 euro in più, mentre chi guadagna 5000 euro spenderà solo parte del soldi ottenuti.
Se si vuole, quindi, che la flat tax o una qualunque riforma fiscale produca effetti positivi sui consumi, è necessario concentrare i benefici sui redditi più bassi.
L'esatto contrario di quel che promette di fare la flat tax che, prevedendo una sola aliquota, riduce le imposte soprattutto a chi ha redditi più elevati e per questo è soggetto alle aliquote più alte.E anche l'esatto contrario delle scelte economiche della Lega, contraria al salario minimo e di un governo restio a concedere aumenti degli stipendi pubblici e delle pensioni.
Se della flat tax beneficiassero soprattutto i redditi medio-alti, i consumi crescerebbero di meno. Una parte dei soldi finirebbero invece in banca, come sta succedendo ormai da anni, a rimpinguare i risparmi.
Gli italiani, scottati da una crisi senza precedenti e incerti sul futuro, evitando anche solo di investire in titoli di stato i risparmi, lasciandoli nei conti correnti.
La flat tax modificherebbe questo scenario? Probabilmente no, prevarrebbero le incertezze e la prudenza. Gli italiani ai tempi di Monti hanno capito che se i conti pubblici peggiorano c'è il rischio che qualcuno prima o poi chieda loro il conto sotto forma di maggiori imposte.
Quindi la spesa sarebbe inferiore al previsto. Colpa dei timori su un futuro incerto.
E i soldi spesi dove finiscono? In parte potrebbero essere spesi per beni di importazione. Un paradosso per chi vuole essere sovranista. Dai più soldi agli italiani ma una parte non piccola finisce per stimolare le economise straniere.
P.S.: un tempo Salvini, e in generale i sostenitori della flat tax, affermavano che il vantaggio della flat tax sarebbe un aimento delle entrate fiscali perchè aliquote più basse stimolerebbero una maggiore onestà. E' una idea che s'è sentita spesso ma non ha molto senso. Se un contribuente ha potuto dichiarare meno, non si vede perchè all'improvviso dovrebbe dire al fisco di guardagnare il 30 o il 50% in più. Anche se alla fine versasse al fisco la stessa somma, sarebbe una sorta di autodenuncia, un invito a indagare sul passato.
06 luglio 2019
Lee Iacocca
Nei giorni scorsi è morto Lee Iacocca, novantaquattrenne italoamericano ex amministratore delegato di Chrysler. Figlio di immigrati, Iacocca è un ottimo studente, e dopo aver studiato ingegneria viene assunto dalla Ford. Ma non vuole fare l'ingegnere, preferisce vendere auto. Ha successo e scala uno per uno tutti i gradini della gerarchia in Ford fino a diventare vicepresidente. A quel punto iniziano i guai, perchè il presidente, nipote del fondatore teme di essere messo da parte e inizia a essergli ostile, fino a spingerlo a andarsene.
Così Iacocca approda in Chrysler, la terza casa automobilistica americana che naviga in cattive acque dopo le due crisi petrolifere degli anni 70. L'impennata del prezzo della benzina e la crisi hanno spinto gli americani a abbandonare le grandi auto "made in USA" e a preferire le piccole giapponesi che fino a poco tempo prima nessuno voleva.
Iacocca riesce nell'impresa di salvare Chrysler. Impresa che racconta in un ottimo libro, la sua autobiografia. Libro che merita di essere letto ancora oggi, o forse soprattutto oggi, perchè Iacocca affronta i luoghi comuni del pensiero conservatore americano e li smonta con il punto di vista di chi a certe idee sull'intervento pubblico in economia ha creduto davvero salvo capirne in prima persona i limiti pratici.
Non solo un grande manager, ma anche un uomo che ha saputo mettere in dubbio le proprie convinzioni di repubblicano dopo aver capito che certe idee alla prova dei fatti sono un vero fallimento.
Così Iacocca approda in Chrysler, la terza casa automobilistica americana che naviga in cattive acque dopo le due crisi petrolifere degli anni 70. L'impennata del prezzo della benzina e la crisi hanno spinto gli americani a abbandonare le grandi auto "made in USA" e a preferire le piccole giapponesi che fino a poco tempo prima nessuno voleva.
Iacocca riesce nell'impresa di salvare Chrysler. Impresa che racconta in un ottimo libro, la sua autobiografia. Libro che merita di essere letto ancora oggi, o forse soprattutto oggi, perchè Iacocca affronta i luoghi comuni del pensiero conservatore americano e li smonta con il punto di vista di chi a certe idee sull'intervento pubblico in economia ha creduto davvero salvo capirne in prima persona i limiti pratici.
Non solo un grande manager, ma anche un uomo che ha saputo mettere in dubbio le proprie convinzioni di repubblicano dopo aver capito che certe idee alla prova dei fatti sono un vero fallimento.
19 giugno 2019
Il dominio della finanza, secondo Conte (Giuseppe)
Nel giorno della maturità, i principali esponenti del governo italiano si riuniscono per rispondere alla lettera dell'UE sul debito eccessivo.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha spiegato il senso della lettera: non è accettabile il dominio della finanza, perchè non permette la crescita.
E' una affermazione che lascia perplessi per vari motivi.
Il primo è che si sposta l'attenzione. Non si parla del debito eccessivo, che è l'oggetto del contendere, ma della finanza. Vale a dire di chi presta soldi e non di chi ne prende in prestito troppi. Un pò come se una persona dicesse al dietologo che non gli interessa parlare del proprio peso eccessivo ma di quel che vende il negozio sotto casa che vende cibi troppo buoni.
Dobbiamo anzi dovrebbe, il governo occuparsi del debito, pensando che l'UE difficilmente si lascerà ingannare.
La seconda questione riguarda l'idea del dominio della finanza. Affermazione che ricorda le bufale sui Rothschild che avrebbero e userebbero un grande potere. Bufala che nasce dal fatto che i banchieri hanno raccolto enormi somme di denaro usato per finanziare il debito pubblico, proprio come i Medici (e tante altre famiglie italiane del passato), ricordati invece per le opere d'arte.
Chi presta i propri capitali lo fa pensando ai propri interessi. Se domina (qualunque sia il significato di questo concetto) lo fa perchè il debito è enorme. Quindi anche questa volta il problema è il debito, non il dominio del creditore.
Terzo punto: il dominio non permetterebbe la crescita. Quella crescita che il governo sta promettendo, da un anno a questa parte cioè da quando è nato, ma di cui non si vede alcuna traccia. E non c'è neanche traccia di autocritica o almeno di una valutazione delle scelte fatte finora. Scelte celebrate come se dovessero far svoltare l'Italia, ma nella realtà capaci di deprimere l'economia, facendo fuggire capitali e investimenti.
Se il governo Conte vuole essere credibile non può certo spostare l'attenzione ma concentrarsi sulle proprie scelte che non stanno facendo bene all'economia e far salire troppo il debito, che pur alto sarebbe più facile da gestire se il PIL crescesse. Crescita che è auspicabile ma non si ottiene spendendo troppi soldi e male.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha spiegato il senso della lettera: non è accettabile il dominio della finanza, perchè non permette la crescita.
E' una affermazione che lascia perplessi per vari motivi.
Il primo è che si sposta l'attenzione. Non si parla del debito eccessivo, che è l'oggetto del contendere, ma della finanza. Vale a dire di chi presta soldi e non di chi ne prende in prestito troppi. Un pò come se una persona dicesse al dietologo che non gli interessa parlare del proprio peso eccessivo ma di quel che vende il negozio sotto casa che vende cibi troppo buoni.
Dobbiamo anzi dovrebbe, il governo occuparsi del debito, pensando che l'UE difficilmente si lascerà ingannare.
La seconda questione riguarda l'idea del dominio della finanza. Affermazione che ricorda le bufale sui Rothschild che avrebbero e userebbero un grande potere. Bufala che nasce dal fatto che i banchieri hanno raccolto enormi somme di denaro usato per finanziare il debito pubblico, proprio come i Medici (e tante altre famiglie italiane del passato), ricordati invece per le opere d'arte.
Chi presta i propri capitali lo fa pensando ai propri interessi. Se domina (qualunque sia il significato di questo concetto) lo fa perchè il debito è enorme. Quindi anche questa volta il problema è il debito, non il dominio del creditore.
Terzo punto: il dominio non permetterebbe la crescita. Quella crescita che il governo sta promettendo, da un anno a questa parte cioè da quando è nato, ma di cui non si vede alcuna traccia. E non c'è neanche traccia di autocritica o almeno di una valutazione delle scelte fatte finora. Scelte celebrate come se dovessero far svoltare l'Italia, ma nella realtà capaci di deprimere l'economia, facendo fuggire capitali e investimenti.
Se il governo Conte vuole essere credibile non può certo spostare l'attenzione ma concentrarsi sulle proprie scelte che non stanno facendo bene all'economia e far salire troppo il debito, che pur alto sarebbe più facile da gestire se il PIL crescesse. Crescita che è auspicabile ma non si ottiene spendendo troppi soldi e male.
10 giugno 2019
Di Maio, Whirpool, Renault e Alitalia
La fusione tra FCA e Renault fallisce, per colpa soprattutto delle ingerenze del governo francese, azionista con il 15% della casa automobilista transalpina, e il superministro (controlla 3 ministeri) Di Maio ci spiega che i francesi hanno fermato un'operazione di mercato.
L'operazione di mercato, come la definisce il ministro, è una fusione che avrebbe potuto avere un forte impatto sulla realtà industriale delle due aziende, in particolar modo in Francia, con la chiusura di stabilimenti e cambiamenti tra i fornitori, anch'essi potenzialmente soggetti a chiusure di impianti.
E' logico quindi che un governo non veda di buon occhio una fusione che potrebbe provocare licenziamenti e proteste in una nazione sconvolta da mesi dalle proteste dei gilet gialli.
Lo stesso ministro però non liquida come operazione di mercato l'annunciata chiusura dello stabilimento campano di Whirpool, che -se valgono le regole di mercato- ha diritto di rioganizzare le proprie attività come avrebbero fatto FCA e Renault.
La sola differenza, oltre alla nazione in cui sono presenti le fabbriche coinvolte, è che nessuno sta comprando Whirpool. Per il resto siamo di fronte a possibili riorganizzazioni che possono causare perdite di posti di lavoro.
Proprio come nel caso Alitalia che il governo italiano non affronta e non trova soluzione perchè gli eventuali acquirenti della compagnia aerea vorrebbero licenziare migliaia di dipendenti. Scelta che Di Maio non vede di buon occhio proprio come il governo francese non vede di buon occhio il rischio che Renault licenzi gli operai.
L'operazione di mercato, come la definisce il ministro, è una fusione che avrebbe potuto avere un forte impatto sulla realtà industriale delle due aziende, in particolar modo in Francia, con la chiusura di stabilimenti e cambiamenti tra i fornitori, anch'essi potenzialmente soggetti a chiusure di impianti.
E' logico quindi che un governo non veda di buon occhio una fusione che potrebbe provocare licenziamenti e proteste in una nazione sconvolta da mesi dalle proteste dei gilet gialli.
Lo stesso ministro però non liquida come operazione di mercato l'annunciata chiusura dello stabilimento campano di Whirpool, che -se valgono le regole di mercato- ha diritto di rioganizzare le proprie attività come avrebbero fatto FCA e Renault.
La sola differenza, oltre alla nazione in cui sono presenti le fabbriche coinvolte, è che nessuno sta comprando Whirpool. Per il resto siamo di fronte a possibili riorganizzazioni che possono causare perdite di posti di lavoro.
Proprio come nel caso Alitalia che il governo italiano non affronta e non trova soluzione perchè gli eventuali acquirenti della compagnia aerea vorrebbero licenziare migliaia di dipendenti. Scelta che Di Maio non vede di buon occhio proprio come il governo francese non vede di buon occhio il rischio che Renault licenzi gli operai.
08 giugno 2019
Le plusvalenze nel calcio
Il calciomercato è aperto e ne approfitto per (ri) spiegare come si generano plusvalenze quando una società di calcio vende un calciatore.
Quando una società di calcio acquista un calciatore, ovvero acquista il diritto a sfruttarne le prestazioni sportive, spende una certa cifra. Supponiamo che siano 40 milioni (somma spesa dalla Juventus quando ha comprato Dybala).
Nel bilancio della società si scrive che il giocatore vale 40 milioni. I bilanci però sono annuali, calcolano i costi e i ricavi di 12 mesi (nel calcio, di solito si parte il 1 luglio e si conclude il 30 giugno dell'anno successivo). Se per un giocatore si spendono 40 milioni e gioca 5 anni, il costo è 40:5 cioè 8 milioni.
Il costo in gergo si chiama accantonamento al fondo ammortamento di un certo giocatore.
Dopo 1 anno il valore è 40 e si sono accantonati 8 milioni, il secondo anno il valore è 40 ma si sono accantonati 16 milioni, e così via.
Ora supponiamo che la società decida di vendere per 60 milioni il calciatore dopo 2 anni. Incassa 60 milioni, ne ha spesi 40 e ha accantonato 16 milioni. La plusvalenza è quindi 60-40+16= 36 milioni. Ovvero possiamo dire che dopo 2 anni il valore del calciatore è 24 milioni, pari al prezzo di acquisto, 40, meno gli accantonamenti, 16 milioni. 36 milioni sono la plusvalenza.
E se con i 60 milioni di una vendita si compra un altro giocatore? Intanto i 36 milioni sono una plusvalenza cioè un ricavo straordinario. Un pò come aver firmato un contratto pubblicitario che dura solo 1 anno.
Se si acquista un calciatore da 60 milioni il costo annuo che diventa 60:5 (se il contratto è di 5 anni), ovvero 12 milioni. Che sono meno, nel nostro esempio, dei 36 milioni di plusvalenza. Con una plusvalenza di fatto si incassa una cifra rilevante subito e poi si pagano i costi in seguito, negli anni successivi.
Infine, cosa succede se il giocatore prolunga il contratto?
In questo caso si calcola il valore e si ricalcola il costo proprio come s'è fatto in precedenza. Se dopo 2 anni il giocatore vale 24 milioni e si fa un nuovo contratto di 5 anni, il costo annuo passa da 8 milioni a 24:5 ovvero 4,8 milioni.
06 giugno 2019
Calciomercato esteso
Gli appassionati di calcio forse sanno che quest'anno il calciomercato cioè le compravendite di calciatori, durerà tre mesi, dai primi giorni di giugno fino ai primi di settembre.
E' una scelta in controtendenza, rispetto a quello che s'è visto e detto negli anni scorsi, che nasconde una ragione economica e una tecnica.
Negli anni passati qualche operatore di mercato aveva chiesto di ridurre il periodo in cui sono possibili scambi. Tradizionalmente il "mercato" dei calciatori durava due mesi in estate, luglio e agosto (più qualche giorno di settembre), e uno in inverno, il mese di gennaio.
Chi chiedeva un periodo più breve voleva evitare trattative molto lunghe e, soprattutto, voleva impedire compravendite mentre il campionato era in corso per evitare possibili conflitti di interesse, ovvero giocatori che stanno trattando il passaggio da una squadra a un'altra contro la quale pootrebbero giocare mentre le trattative sono in corso.
Una riduzione per periodo degli scambi di calciatori creava altri problemi, possibili pressioni legate al fatto che se il mercato italiano chiude prima, restano possibili le vendite a squadre straniere mentre non sono possibili gli acquisti nè da squadre italiane nè da squadre straniere.
E' dunque meglio che il mercato chiuda lo stesso giorno dei mercati dei calciatori di altre nazioni. Ma perchè estenderlo anche a giugno?
La ragione è legata al bilancio che per quasi tutte le società calcistiche chiude il 30 giugno. La possibilità di vendere i giocatori a giugno permetterà alle società in difficoltà di raggranellare qualche soldo, utile per sistemare i bilanci e anche di risparmiare sugli ingaggi: se la trattativa si fa e si chiude a giugno, dal 1 luglio o magari anche prima il giocatore è pagato dalla società acquirente e il venditore risparmia un pò di soldi.
E' una ipotesi azzardata, la mia? Mi sa di no: la vendita della Fiorentina a un imprenditore italo-americano e altre trattative (Genoa e Sampdoria) in corso suggeriscono che i conti delle squadre non sono floridi.
E' una scelta in controtendenza, rispetto a quello che s'è visto e detto negli anni scorsi, che nasconde una ragione economica e una tecnica.
Negli anni passati qualche operatore di mercato aveva chiesto di ridurre il periodo in cui sono possibili scambi. Tradizionalmente il "mercato" dei calciatori durava due mesi in estate, luglio e agosto (più qualche giorno di settembre), e uno in inverno, il mese di gennaio.
Chi chiedeva un periodo più breve voleva evitare trattative molto lunghe e, soprattutto, voleva impedire compravendite mentre il campionato era in corso per evitare possibili conflitti di interesse, ovvero giocatori che stanno trattando il passaggio da una squadra a un'altra contro la quale pootrebbero giocare mentre le trattative sono in corso.
Una riduzione per periodo degli scambi di calciatori creava altri problemi, possibili pressioni legate al fatto che se il mercato italiano chiude prima, restano possibili le vendite a squadre straniere mentre non sono possibili gli acquisti nè da squadre italiane nè da squadre straniere.
E' dunque meglio che il mercato chiuda lo stesso giorno dei mercati dei calciatori di altre nazioni. Ma perchè estenderlo anche a giugno?
La ragione è legata al bilancio che per quasi tutte le società calcistiche chiude il 30 giugno. La possibilità di vendere i giocatori a giugno permetterà alle società in difficoltà di raggranellare qualche soldo, utile per sistemare i bilanci e anche di risparmiare sugli ingaggi: se la trattativa si fa e si chiude a giugno, dal 1 luglio o magari anche prima il giocatore è pagato dalla società acquirente e il venditore risparmia un pò di soldi.
E' una ipotesi azzardata, la mia? Mi sa di no: la vendita della Fiorentina a un imprenditore italo-americano e altre trattative (Genoa e Sampdoria) in corso suggeriscono che i conti delle squadre non sono floridi.
01 giugno 2019
Minibot
Cosa pensare dei minibot di cui ieri s'è occupato il Parlamento, approvando una mozione che prevede la possibilità per il governo di pagare i crediti della pubblica amministrazione appunto coi minibot?
Le differenze tra un bot e un minibot paiono essere due: gli importi molto limitati per permettere di pagare somme modeste dovute dalla PA alle imprese e la volontarietà dei pagamenti. Se l'impresa accetta, si paga in minibot, altrimenti l'impresa aspetta il pagamento tradizionale con un bonifico bancario.
Se l'impresa è libera di accettare (o rifiutare) il pagamento, diventa difficile classificare il minibot come moneta. E' un bot vero e proprio, e come tale verrebbe percepito dai mercati finanziari, che calcolerebbero un nuovo debito pubblico (quello attuale più i minibot) con tutte le conseguenze del caso sulla credibilità dell'Italia.
Un'Italia con un debito pubblico cresciuto di 50-60 miliardi preoccuperebbe i mercati. E a poco servirebbero le teorie di politici (e magari di qualche economista) che potrebbero inventarsi buoni motivi per affermare il contrario. Minore fiducia e tassi in su, cioè maggiore spesa per lo Stato senza alcun beneficio per i cittadini.
I minibot servirebbero però a annullare il debito verso le imprese e a rilanciare l'economia. Vero ma solo in parte. Intanto perchè sarebbero "mini" proprio perchè servirebbero a pagare solo importi modesti a piccole imprese, e quindi non è detto che il beneficio macroeconomico sarebbe consistente.
Poi occorre valutare l'effetto del pagamento in minibot. Se questi sono trasformabili in denaro contante, come qualunque titolo di stato che può essere venduto in qualsiasi momento, e senza perdite l'impresa accetterà. Altrimenti preferirà aspettare il pagamento del debito.
Se il minibot può essere rivenduto incassando il valore del credito o qualcosa in meno, l'impresa accetterà, se la perdita è modesta. Ma questo significa che sono veri e propri bot. Inondare l'economia di questi minibot significa far crescere il debito pubblico e far salire lo spread se questi titoli dovessero finire sul mercato.
Se invece il minibot non può essere venduto, spread e tassi non aumenteranno ma per l'impresa il credito resta immutato e non c'è alcun vantaggio per l'economia, perchè non c'è una vera immissione di liquidità.
L'impresa potrebbe usare i minibot per pagare i crediti verso lo Stato? Si, ma sarebbe molto più semplice compensare crediti e debiti della pubblica amministrazione, evitando l'emissione di titoli che di fatto lanciano un segnale negativo a chi presta i soldi allo Stato.
Lo Stato costringe già i propri fornitori a prestargli soldi. Vuole il pagamento di imposte e contributi mentre ritarda i propri pagamenti. Un vero e proprio prestito forzoso anche se non ha questa forma. Quando una impresa pagasse usando minibot lo stato non incasserebbe soldi veri e quindi sarebbe costretto a emettere bot (veri) per coprire il mancato incasso. A quel punto tanto vale finanziarsi emettendo bot (veri) e usare i soldi per pagare i fornitori che a loro volta pagano imposte e contributi con soldi veri.
Insomma l'ipotesi minibot non è per nulla convincente. Qualche politico potrà spiegare che il debito miracolosamente non aumenterà o che ci saranno solo vantaggi am è difficile crederci. La realtà economica prevarrà sulle illusioni e questa si rivelerà una pessima idea o soltanto un modo diverso per presentare una vecchia cosa: il pagamento tramite l'emissione di debito pubblico.
12 maggio 2019
L'atomica cinese
La settimana appena trascorsa è stata la peggiore per le borse mondiali nel 2019. Colpa dell'aumento dei dazi sui prodotti cinesi da parte degli USA.
Le borse hanno reagito male, come prevedibile, perchè dazi significano minore crescita e perchè le decisioni americane potrebbero provocare reazioni dei cinesi, con conseguenze molto negative per molte economie.
La reazione cinese potrebbe però non riguardare i dazi. Spesso i paesi che esportano beni di consumo a basso costo, importano tecnologia. Mettere dazi sui prodotti stranieri potrebbe essere controproducente, occorrerebbe quantomeno trovare fornitori alternativi, di paesi non colpiti dai dazi.
Quindi come potrebbero, i cinesi, colpire gli americani?
I cinesi sono grandi risparmiatori: producono e esportano più di quanto importano e hanno somme enormi che investono, tra i vari modi, acquistando titoli di stato americani. Titoli che l'America di Trump emette in grande quantità perchè la crisi e le scelte politiche hanno prodotto grandi deficit e un forte aumento del debito pubblico.
I cinesi possono quindi fare pressione su Trump semplicemente non acquistando i titoli del debito pubblico americano. E hanno già iniziato a farlo. I cinesi (e i paesi alleati) non si sono presentati all'ultima asta dei titoli.
Scelta che ha fatto salire i tassi americani e messo in allarme la Casa Bianca che venerdì ha fatto dichiarazioni più concilianti.Trump infatti sta usando il debito per far crescere gli USA, convinto che tanto qualcuno che compra i bond ci sarà sempre e che la FED che cerca di controllare non aumenterà i tassi.
Tassi che invece potrebbero far salire i cinesi, riducendo gli acquisti di titoli di stato USA. E' questa l'atomica cinese, meno cruenta e forse più efficace.
Insomma l'atomica ce l'hanno. Non uccide nessuno ma può fare molto male.
Le borse hanno reagito male, come prevedibile, perchè dazi significano minore crescita e perchè le decisioni americane potrebbero provocare reazioni dei cinesi, con conseguenze molto negative per molte economie.
La reazione cinese potrebbe però non riguardare i dazi. Spesso i paesi che esportano beni di consumo a basso costo, importano tecnologia. Mettere dazi sui prodotti stranieri potrebbe essere controproducente, occorrerebbe quantomeno trovare fornitori alternativi, di paesi non colpiti dai dazi.
Quindi come potrebbero, i cinesi, colpire gli americani?
I cinesi sono grandi risparmiatori: producono e esportano più di quanto importano e hanno somme enormi che investono, tra i vari modi, acquistando titoli di stato americani. Titoli che l'America di Trump emette in grande quantità perchè la crisi e le scelte politiche hanno prodotto grandi deficit e un forte aumento del debito pubblico.
I cinesi possono quindi fare pressione su Trump semplicemente non acquistando i titoli del debito pubblico americano. E hanno già iniziato a farlo. I cinesi (e i paesi alleati) non si sono presentati all'ultima asta dei titoli.
Scelta che ha fatto salire i tassi americani e messo in allarme la Casa Bianca che venerdì ha fatto dichiarazioni più concilianti.Trump infatti sta usando il debito per far crescere gli USA, convinto che tanto qualcuno che compra i bond ci sarà sempre e che la FED che cerca di controllare non aumenterà i tassi.
Tassi che invece potrebbero far salire i cinesi, riducendo gli acquisti di titoli di stato USA. E' questa l'atomica cinese, meno cruenta e forse più efficace.
Insomma l'atomica ce l'hanno. Non uccide nessuno ma può fare molto male.
11 maggio 2019
30 aprile 2019
Pil +0,2%: buona notizia?
La stima del PIL del primo trimestre segna un inatteso +0,2%. Bankitalia qualche giorno fa ha previsto uno 0,1%, compatibile con i dati della produzione industriale, positivi soprattutto a febbraio.
Tuttavia non è per forza una buona notizia.
Anzitutto si tratta di una stima. Il dato vero lo scopriremo poi e potrebbe riservare sorprese non positive.
Poi la crescita è dovuta a fattori esterni, ovvero alle vendite di prodotti italiani sui mercati stranieri, in particolare quello cinese. Che potrebbe invertire la rotta nei prossimi mesi, con effetti negativi sul PIL.
Al contrario la domanda interna è in calo, segno che la fiducia nel cambiamento è bassa, come dimostra anche qualche indagine congiunturale. Se il governo voleva far salire la fiducia nel futuro, stimolare gli investimenti, attrarre capitali stranieri, è chiaro che ci riesce.
L'aumento della domanda estera, con il calo di quella interna, non è un buon segnale perché significa ampliare le differenze tra nord e sud, mentre una buona politica dovrebbe stimolare la domanda al sud, svantaggiato.
Un ultimo aspetto negativo è legato alle dimensioni della crescita. Lo 0,2% non cambia di molto la sostanza. L'economia cresce ma poco. e questo non risolve i dubbi legati alla futuro dei conti pubblici. Senza una crescita sostenuta, serviranno decine di miliardi per mantenere in ordine i conti pubblici.
Salvini dice che una vittoria in Europa garantirebbe la possibilità di fare più deficit. Magra consolazione, perchè i mercati finanziari che finanziano il debito pubblico italiano richiederanno come minimo tassi di interesse più alti, facendo salire la spesa pubblica senza nessun beneficio per i cittadini in attesa di migliori servizi pubblici.
Tuttavia non è per forza una buona notizia.
Anzitutto si tratta di una stima. Il dato vero lo scopriremo poi e potrebbe riservare sorprese non positive.
Poi la crescita è dovuta a fattori esterni, ovvero alle vendite di prodotti italiani sui mercati stranieri, in particolare quello cinese. Che potrebbe invertire la rotta nei prossimi mesi, con effetti negativi sul PIL.
Al contrario la domanda interna è in calo, segno che la fiducia nel cambiamento è bassa, come dimostra anche qualche indagine congiunturale. Se il governo voleva far salire la fiducia nel futuro, stimolare gli investimenti, attrarre capitali stranieri, è chiaro che ci riesce.
L'aumento della domanda estera, con il calo di quella interna, non è un buon segnale perché significa ampliare le differenze tra nord e sud, mentre una buona politica dovrebbe stimolare la domanda al sud, svantaggiato.
Un ultimo aspetto negativo è legato alle dimensioni della crescita. Lo 0,2% non cambia di molto la sostanza. L'economia cresce ma poco. e questo non risolve i dubbi legati alla futuro dei conti pubblici. Senza una crescita sostenuta, serviranno decine di miliardi per mantenere in ordine i conti pubblici.
Salvini dice che una vittoria in Europa garantirebbe la possibilità di fare più deficit. Magra consolazione, perchè i mercati finanziari che finanziano il debito pubblico italiano richiederanno come minimo tassi di interesse più alti, facendo salire la spesa pubblica senza nessun beneficio per i cittadini in attesa di migliori servizi pubblici.
29 aprile 2019
Non solo Alitalia
Non c'è solo Alitalia tra le compagnie aeree in difficoltà, che rischiano di dover licenziare centinaia o migliaia di persone. C'è anche Airitaly, che una volta si chiamava Meridiana e oggi sposta la sede a Malpensa, minaccia di licenziare 500 dipendenti oltre ai 400 già usciti.
La compagnia aerea sarda è nata negli anni '60. Si chiamava Alisarda e serviva a portare turisti benestanti in Sardegna. Un mercato ricco a cui si affiancavano i soldi pubblici che permettono ai sardi di volare nel resto d'Italia con tariffe scontate.
Oggi Airitaly non può contare su un mercato ricco, perchè la concorrenza ha drasticamente ridotto i margini di guadagno, e nemmeno sui soldi pubblici per i voli da e per il resto d'Italia. Però ha fatto gola a Qatar Airways che ne ha comprato il 49%, perchè permette di aggirare i limiti ai voli di Qatar verso gli USA.
Ciò nonostante Qatar ha tagliato il personale, promette altri tagli e ha spostato la sede operativa a Malpensa, scelta che mette in difficoltà molti dipendenti sardi della compagnia aerea.
Lo spostamento a Malpensa ricorda anche la scelta non fatta da Alitalia alla fine degli anni '90. La politica, per difendere i dipendenti romani della compagnia, fece saltare l'integrazione di Alitalia con Airfrance e KLM e condannò la compagnia di bandiera a un futuro incerto.
Le compagnie aeree sopravvivono se si minimizzano i posti vuoti. Altrimenti i rilevanti costi non vengono pagati e alla fine le perdite mettono in pericolo voli e posti di lavoro. Di qui la necessità di integrarsi con altre compagnie aeree.
Alitalia non l'ha fatto, puntando, ai tempi di Colaninno, su un monopolio, quello dei voli tra Milano e Roma, messo in crisi dall'alta velocità ferroviaria.
Scelta errata che ha provocato perdite, coperte dallo Stato che vuole impedire il fallimento di Alitalia o quantomeno drastici tagli al personale.
Oggi Alitalia non può integrarsi con altre compagnie, cosa che, se fosse possibile richiederebbe in ogni caso una ristrutturazione e quindi costi sociali elevata. Non può essere venduta a pezzi, per lo stesso motivo. Può solo essere salvata con tutti i dipendenti, che altrimenti scenderebbero in piazza a protestare.
Come?
L'idea è di mettere insieme chi si occupa di trasporti in Italia, ovvero Ferrovie, Autostrade e ...Alitalia, con le società sane che diventano socie di Alitalia e ne coprono le perdite e gestiscono tutte insieme gli spostamenti degli italiani, con la scusa dell'integrazione.
Il rischio è che ne approfittino alzano le tariffe, creando un (quasi) monopolio su ferrovie, autostrade e aeroporti. Un piccolo aumento delle tariffe su milioni di spostamenti sarebbe sufficiente a coprire le perdite di Alitalia.
Inoltre ciò avrebbe effetti su altre decisioni, come le scelte di Trenitalia e Autostrade. Se servono più utili per pagare le perdite di Alitalia, queste società potrebbero cambiare le scelte di investimento, rinunciando ai meno redditizi o rinunciando a alcuni, come potrebbero decidere di chiudere linee ferroviarie in perdita o attività meno redditizie.
Insomma rischiamo di tenere in piedi una società in perdita da anni (Alitalia) con scelte che potrebbero influire negativamente su costi e qualità dei trasporti stradali e ferroviari. E cosa succederebbe se un giorno gli azionisti decidessero di non continuare a finanziare le perdite di Alitalia? Trovare una soluzione di mercato sarebbe ancora più difficile.
La compagnia aerea sarda è nata negli anni '60. Si chiamava Alisarda e serviva a portare turisti benestanti in Sardegna. Un mercato ricco a cui si affiancavano i soldi pubblici che permettono ai sardi di volare nel resto d'Italia con tariffe scontate.
Oggi Airitaly non può contare su un mercato ricco, perchè la concorrenza ha drasticamente ridotto i margini di guadagno, e nemmeno sui soldi pubblici per i voli da e per il resto d'Italia. Però ha fatto gola a Qatar Airways che ne ha comprato il 49%, perchè permette di aggirare i limiti ai voli di Qatar verso gli USA.
Ciò nonostante Qatar ha tagliato il personale, promette altri tagli e ha spostato la sede operativa a Malpensa, scelta che mette in difficoltà molti dipendenti sardi della compagnia aerea.
Lo spostamento a Malpensa ricorda anche la scelta non fatta da Alitalia alla fine degli anni '90. La politica, per difendere i dipendenti romani della compagnia, fece saltare l'integrazione di Alitalia con Airfrance e KLM e condannò la compagnia di bandiera a un futuro incerto.
Le compagnie aeree sopravvivono se si minimizzano i posti vuoti. Altrimenti i rilevanti costi non vengono pagati e alla fine le perdite mettono in pericolo voli e posti di lavoro. Di qui la necessità di integrarsi con altre compagnie aeree.
Alitalia non l'ha fatto, puntando, ai tempi di Colaninno, su un monopolio, quello dei voli tra Milano e Roma, messo in crisi dall'alta velocità ferroviaria.
Scelta errata che ha provocato perdite, coperte dallo Stato che vuole impedire il fallimento di Alitalia o quantomeno drastici tagli al personale.
Oggi Alitalia non può integrarsi con altre compagnie, cosa che, se fosse possibile richiederebbe in ogni caso una ristrutturazione e quindi costi sociali elevata. Non può essere venduta a pezzi, per lo stesso motivo. Può solo essere salvata con tutti i dipendenti, che altrimenti scenderebbero in piazza a protestare.
Come?
L'idea è di mettere insieme chi si occupa di trasporti in Italia, ovvero Ferrovie, Autostrade e ...Alitalia, con le società sane che diventano socie di Alitalia e ne coprono le perdite e gestiscono tutte insieme gli spostamenti degli italiani, con la scusa dell'integrazione.
Il rischio è che ne approfittino alzano le tariffe, creando un (quasi) monopolio su ferrovie, autostrade e aeroporti. Un piccolo aumento delle tariffe su milioni di spostamenti sarebbe sufficiente a coprire le perdite di Alitalia.
Inoltre ciò avrebbe effetti su altre decisioni, come le scelte di Trenitalia e Autostrade. Se servono più utili per pagare le perdite di Alitalia, queste società potrebbero cambiare le scelte di investimento, rinunciando ai meno redditizi o rinunciando a alcuni, come potrebbero decidere di chiudere linee ferroviarie in perdita o attività meno redditizie.
Insomma rischiamo di tenere in piedi una società in perdita da anni (Alitalia) con scelte che potrebbero influire negativamente su costi e qualità dei trasporti stradali e ferroviari. E cosa succederebbe se un giorno gli azionisti decidessero di non continuare a finanziare le perdite di Alitalia? Trovare una soluzione di mercato sarebbe ancora più difficile.
19 aprile 2019
AMA e Raggi
L'Espresso racconta di Virginia Raggi registrata che dice all'amministratore delegato di AMA di modificare il bilancio dell'azienda dei rifiuti così da ottenere "la chiusura del bilancio ..in passivo mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali".
La sindaca si difende facendo capire che se si fosse chiuso il bilancio con un utile, i manager avrebbero ottenuto dei premi che il comune di Roma non riteneva opportuno erogare in una città dove la qualità del servizio non è quella desiderata.
Da parte sua l'ex (nel frattempo licenziato) manager dichiara di essere stato spinto a "togliere dall'attivo crediti certi, liquidi e esigibili" al solo fine di portare in rosso i conti dell'azienda.
Letta così, la questione mi pare un pochino confusa. Per cui provo a capirci qualcosa.
L'affermazione "togliere dall'attivo crediti certi, liquidi ed esigibili" crea due problemi. Il primo è come si fa a togliere dall'attivo un credito? La seconda è i crediti sono certi liquidi e esigibili?
Se AMA fornisce servizi al comune, emetterà periodicamente una fattura, calcolata in base a un contratto che prevede tariffe certe. Fatture ricevute dal comune, che ha un debito (e quindi AMA ha un credito) a meno di contestazioni. Il comune potrebbe in altri termini dire a AMA che qualcosa non torna nelle fatture, ad esempio a causa di un errore nella fatturazione oppure che intende contestare le fatture perchè la qualità del servizio non è quella concordata.
In questo caso attraverso operazioni contabili apposite, si riduce l'importo delle fatture emesse da AMA e quindi il credito verso Roma. Il minor fatturato causerebbe un minor utile o anche una perdita da parte di AMA. Perchè la sindaca non dice qualcosa del genere?
Di fronte all'annuncio di contestazioni del comune per i servizi resi da AMA, quest'ultima sarebbe stata costretta a correggere il bilancio, mettendo a bilancio un fondo per coprire eventuali futuri esborsi nei confronti del comune.
Virginia Raggi avrebbe potuto farlo presente all'amministratore di AMA, dicendo: contesteremo le vostre fatture quindi le consiglio di accantonare fondi appositi. Avrebbe ottenuto l'obiettivo desiderato: abbattere gli utili di AMA.
Invece la sindaca contesta -a quanto pare- il fatto che i crediti siano certi, liquidi e esigibili. Che è come dire "il comune che rappresento non è detto pagherà tutto il debito (credito per AMA)".
L'amministratore di AMA avrebbe fatto bene a chiedere il perchè. Avrebbe potuto chiedere: forse il comune fallirà (cosa difficile da immaginare se la stessa sindaca propone a AMA un prestito di oltre 200 milioni) o ci sono altre cause che nessuno meglio di una sindaca può spiegare?
Senza una spiegazione, negare che il credito sia certo, liquido ed esigibile non significa stornarlo. Casomai vuol dire immaginare perdite future che però non devono per forza essere pari all'intero credito. Di solito la perdita è solo parziale. Una contestazione del credito o un problemi finanziari del debitore comportano perdite parziali. Quindi contestando la qualità del credito, la Raggi non obbligava AMA a cancellarlo per intero dal bilancio.
Insomma la questione sembra un pasticcio nel quale le esigenze politiche hanno spinto qualcuno a cercare una soluzione molto semplice, tanto semplice da risultare poco credibile.
Fino a 780 euro...
Stanno arrivando al pettine i primi nodi del reddito di cittadinanza. I numeri saranno deludenti, poco più di mezzo milione di beneficiari e assegni più poveri del previsto.
Il governo aveva detto FINO a 780 euro, ma tutti hanno capito 780 euro. Soldi che sarebbero finiti a persone con un ISEE basso, senza auto comprate di recente.
Ma chi ha queste caratteristiche è probabile che abbia provato a ottenere altri aiuti, come il reddito di inclusione. Per questo gli assegni del reddito di cittadinanza sono più poveri del previsto. I beneficiari hanno altri aiuti e non possono aggiungere l'assegno "intero" del reddito di cittadinanza.
Il reddito di cittadinanza rischia quindi di diventare un boomerang. Sarebbe bastato usare i soldi per il reddito di inclusione per far stare meglio i poveri che tanto stanno a cuore a una parte della maggioranza di governo, ma non era una opzione praticabile da chi pensa all'immagine politica.
Il reddito di cittadinanza è anche problematico per chi cerca lavoro. Se non ha le caratteristiche patrimoniali previste, sono esclusi: è una cosa senza senso perchè un lavoro lo può cercare anche chi non è povero.
Il governo aveva detto FINO a 780 euro, ma tutti hanno capito 780 euro. Soldi che sarebbero finiti a persone con un ISEE basso, senza auto comprate di recente.
Ma chi ha queste caratteristiche è probabile che abbia provato a ottenere altri aiuti, come il reddito di inclusione. Per questo gli assegni del reddito di cittadinanza sono più poveri del previsto. I beneficiari hanno altri aiuti e non possono aggiungere l'assegno "intero" del reddito di cittadinanza.
Il reddito di cittadinanza rischia quindi di diventare un boomerang. Sarebbe bastato usare i soldi per il reddito di inclusione per far stare meglio i poveri che tanto stanno a cuore a una parte della maggioranza di governo, ma non era una opzione praticabile da chi pensa all'immagine politica.
Il reddito di cittadinanza è anche problematico per chi cerca lavoro. Se non ha le caratteristiche patrimoniali previste, sono esclusi: è una cosa senza senso perchè un lavoro lo può cercare anche chi non è povero.
11 aprile 2019
DEF
"Sarà un anno bellissimo" ha detto qualche mese fa il presidente del Consiglio Conte. Anzi no, è stata solo una battuta, racconta oggi.
La differenza la fanno, forse, i dati dell'economia contenuti dell'aggiornamento del DEF che disegna un quadro deprimente: per il 2019 il governo italiano si aspetta una crescita appena positiva, uno 0,2% che contrasta con previsioni ottimistiche di qualche mese fa che dicevano almeno un +1%.
E anche con le previsioni più recenti che iniziano a parlare di recessione, con un calo che potrebbe essere anche dello 0,5%.
Una crescita stimata che si deve per intero a quota 100 e al reddito di cittadinanza. Un magro bottino per provvedimenti molto costosi che rischiano di essere controproducenti.
In particolare quota 100 può spingere lavoratori produttivi a scegliere la pensione, lasciando il posto, forse, a giovani senza esperienza e quindi meno produttivi.
Se reddito di cittadinanza e quota 100 producono una crescita modesta, cosa farà crescere l'economia italiana?
La domanda è importante perchè in vista del 2020 sarà importante trovare risorse. A cominciare da quelle necessarie a evitare le clausole di salvaguardia, una ventina di miliardi da trovare per evitare l'aumento dell'IVA.
Il contesto è negativo: l'intera economia mondiale rallenta, Trump spaventa con i dazi, la Brexit crea incertezze e come ha stimolato alcuni settori, perchè i clienti britannici nell'incertezza hanno fatto scorte di prodotti italiani, così potrebbe avere effetti negativi, sia perchè le scorte vanno smaltite, sia perchè potrebbero essere introdotti dazi capaci di deprimere la domanda estera, le elezioni europee sono una grande incognita che potrebbe riservare sorprese sia in Italia che sui mercati di sbocco per le nostre imprese.
La probabilità che nel resto dell'anno gli indicatori economici possano peggiorare non sono quindi diminuite, anzi. Ciò richiede una strategia di durata superiore ai pochi mesi che invece sono stati l'orizzonte di Salvini e Di Maio, preoccupati di vincere le elezioni a maggio, costi quel che costi.
La differenza la fanno, forse, i dati dell'economia contenuti dell'aggiornamento del DEF che disegna un quadro deprimente: per il 2019 il governo italiano si aspetta una crescita appena positiva, uno 0,2% che contrasta con previsioni ottimistiche di qualche mese fa che dicevano almeno un +1%.
E anche con le previsioni più recenti che iniziano a parlare di recessione, con un calo che potrebbe essere anche dello 0,5%.
Una crescita stimata che si deve per intero a quota 100 e al reddito di cittadinanza. Un magro bottino per provvedimenti molto costosi che rischiano di essere controproducenti.
In particolare quota 100 può spingere lavoratori produttivi a scegliere la pensione, lasciando il posto, forse, a giovani senza esperienza e quindi meno produttivi.
Se reddito di cittadinanza e quota 100 producono una crescita modesta, cosa farà crescere l'economia italiana?
La domanda è importante perchè in vista del 2020 sarà importante trovare risorse. A cominciare da quelle necessarie a evitare le clausole di salvaguardia, una ventina di miliardi da trovare per evitare l'aumento dell'IVA.
Il contesto è negativo: l'intera economia mondiale rallenta, Trump spaventa con i dazi, la Brexit crea incertezze e come ha stimolato alcuni settori, perchè i clienti britannici nell'incertezza hanno fatto scorte di prodotti italiani, così potrebbe avere effetti negativi, sia perchè le scorte vanno smaltite, sia perchè potrebbero essere introdotti dazi capaci di deprimere la domanda estera, le elezioni europee sono una grande incognita che potrebbe riservare sorprese sia in Italia che sui mercati di sbocco per le nostre imprese.
La probabilità che nel resto dell'anno gli indicatori economici possano peggiorare non sono quindi diminuite, anzi. Ciò richiede una strategia di durata superiore ai pochi mesi che invece sono stati l'orizzonte di Salvini e Di Maio, preoccupati di vincere le elezioni a maggio, costi quel che costi.
31 marzo 2019
Bollette luce e gas
La sola buona notizia economica delle ultime settimane è il calo delle bollette energetiche. Quasi il 10% in meno per luce e gas.
Colpa o merito di un inverno poco piovoso e con temperature miti, che ha fatto calare la domanda e, mi sa, pure di una produzione industriale che non cresce e magari decresce.
Gli effetti possibili saranno due e non proprio piacevoli: il calo dei prezzi farà scendere l'inflazione, che arriva con fatica all'1% e probabilmente anche il PIL del secondo trimestre, che si sperava potesse crescere un pò.
Tutto ciò influenzerà negativamente il rapporto debito/PIL perchè influenza in negativo il denominatore del rapporto, vale a dire il PIL e peserà sulle finanze pubbliche, riducendo le entrate fiscali.
Ma i conti li faremo a partire da giugno, dopo le elezioni per il Parlamento europeo.
Colpa o merito di un inverno poco piovoso e con temperature miti, che ha fatto calare la domanda e, mi sa, pure di una produzione industriale che non cresce e magari decresce.
Gli effetti possibili saranno due e non proprio piacevoli: il calo dei prezzi farà scendere l'inflazione, che arriva con fatica all'1% e probabilmente anche il PIL del secondo trimestre, che si sperava potesse crescere un pò.
Tutto ciò influenzerà negativamente il rapporto debito/PIL perchè influenza in negativo il denominatore del rapporto, vale a dire il PIL e peserà sulle finanze pubbliche, riducendo le entrate fiscali.
Ma i conti li faremo a partire da giugno, dopo le elezioni per il Parlamento europeo.
27 marzo 2019
Pericolo Santander?
Contingent convertible bond o CoCo Bond.
E' il nome dell'ultimo allarme lanciato su una possibile nuova crisi bancaria e riguarda la quinta banca europea, Santander,
Si tratta di un tipo di obbligazione emessa dalle banche e destinate solitamente a clienti istituzionali che prevedono due clausole interessanti.
Una prevede la possibilità che la banca rimborsi in anticipo rispetto alla data di scadenza dell'obbligazione, il valore della stessa. Ovvero una clausola che dice che a partire da una certa data e fino alla scadenza oppure in certi momenti prestabiliti, l'emittente cioè la banca può rimborsare l'obbligazione.
L'altra dice che alla scadenza la banca può convertire i titoli in azioni.
Che senso hanno queste obbligazioni?
In epoca di forti perdite per le banca, a causa della svalutazione dei crediti, tale obbligazione garantisce che la banca vedrà sottoscritto almeno in parte un eventuale aumento di capitale reso necessario dalla svalutazione del credito (e conseguente riduzione del capitale, usato per coprire le perdite). Quindi tranquillizza il sistema bancario che funziona sulla fiducia reciproca. E' un modo di dire: tranquilli, il capitale non scenderà sotto soglie pericolose.
Chi sottoscrive l'obbligazione (bond) riceve un premio sotto forma di interesse pagato, perchè corre il rischio di trovarsi in mano azioni invece di contanti, alla scadenza dell'obbligazione, ma sa anche che la banca ha interesse a mostrarsi a posto, e per questo rimborserà le obbligazioni appena possibile, applicando la prima clausola.
Ebbene, qualche giorno fa è scattato l'allarme per i CoCo Bond di Santander, il colosso spagnolo, quinta banca europea. Poteva rimborsare titoli emessi tempo fa ma non l'ha fatto.
Gli analisti si chiedono il perchè e temono difficoltà per la banca.
E' il nome dell'ultimo allarme lanciato su una possibile nuova crisi bancaria e riguarda la quinta banca europea, Santander,
Si tratta di un tipo di obbligazione emessa dalle banche e destinate solitamente a clienti istituzionali che prevedono due clausole interessanti.
Una prevede la possibilità che la banca rimborsi in anticipo rispetto alla data di scadenza dell'obbligazione, il valore della stessa. Ovvero una clausola che dice che a partire da una certa data e fino alla scadenza oppure in certi momenti prestabiliti, l'emittente cioè la banca può rimborsare l'obbligazione.
L'altra dice che alla scadenza la banca può convertire i titoli in azioni.
Che senso hanno queste obbligazioni?
In epoca di forti perdite per le banca, a causa della svalutazione dei crediti, tale obbligazione garantisce che la banca vedrà sottoscritto almeno in parte un eventuale aumento di capitale reso necessario dalla svalutazione del credito (e conseguente riduzione del capitale, usato per coprire le perdite). Quindi tranquillizza il sistema bancario che funziona sulla fiducia reciproca. E' un modo di dire: tranquilli, il capitale non scenderà sotto soglie pericolose.
Chi sottoscrive l'obbligazione (bond) riceve un premio sotto forma di interesse pagato, perchè corre il rischio di trovarsi in mano azioni invece di contanti, alla scadenza dell'obbligazione, ma sa anche che la banca ha interesse a mostrarsi a posto, e per questo rimborserà le obbligazioni appena possibile, applicando la prima clausola.
Ebbene, qualche giorno fa è scattato l'allarme per i CoCo Bond di Santander, il colosso spagnolo, quinta banca europea. Poteva rimborsare titoli emessi tempo fa ma non l'ha fatto.
Gli analisti si chiedono il perchè e temono difficoltà per la banca.
18 marzo 2019
Chi ha paura di Greta Thunberg?
Greta Thumberg ha 16 anni. Quando ne aveva 15 ha deciso di scioperare. S'è seduta davanti al parlamento svedese con un cartello su cui c'era scritto Skolstrejk for klimatet e ha chiesto che la Svezia riduca in fretta le emissioni di inquinanti, rispettando gli impegni presi a Parigi. La sua storia è stata raccontata ovunque e venerdì scorso si son tenute manifestazioni in oltre 2000 città in decine di paesi.
Chi alla sua età ha avuto ideali, magari ecologisti, sa che gli oppositori non mancano mai. C'è chi ti dice "che ne sai, sei giovane" oppure "è sempre stato così e non è mai morto nessuno". Che chi nega il problema e chi ti spiega che proponi una soluzione che produrrà effetti contrari a quelli desiderati.
I più radicali offrono in cambio altri valori. Di solito fanno riferimento a dio patria e famiglia. Che non sono solo valori (per qualcuno) ma anche modi per imporre gerarchie.
Per questo, ma non solo per questo, Greta Thunberg è stata attaccata in modi davvero sgradevoli. Molti si saranno chiesti come possano una sedicenne o un quattordicenne (che a detta di un giornalista del tg di Sky ha organizzato la manifestazione a Stoccolma) muovere milioni di persone, quando politici in tv tutti i giorni riescono a spostare al massimo qualche decimo di punto nei sondaggi?
Giovani ragazzi che mettono in dubbio certezze, che si dimostrano insensibili alla propaganda altrui, non rispettano le gerarchie e rischiano di creare problemi economici.
Dietro quelli come Trump che negano il riscaldamento globale perchè in inverno nevica, non c'è solo ignoranza e propaganda. Ci sono anche interessi economici, che la propaganda difende (un esempio lo trovate qui: http://www.econoliberal.it/2011/06/paghereste-3000-euro-lanno-per.html ) e continua a difendere, cercando di screditare ragazzi che fortunatamente sono insensibili al vecchio e per questo fanno paura. Più del clima impazzito
Chi alla sua età ha avuto ideali, magari ecologisti, sa che gli oppositori non mancano mai. C'è chi ti dice "che ne sai, sei giovane" oppure "è sempre stato così e non è mai morto nessuno". Che chi nega il problema e chi ti spiega che proponi una soluzione che produrrà effetti contrari a quelli desiderati.
I più radicali offrono in cambio altri valori. Di solito fanno riferimento a dio patria e famiglia. Che non sono solo valori (per qualcuno) ma anche modi per imporre gerarchie.
Per questo, ma non solo per questo, Greta Thunberg è stata attaccata in modi davvero sgradevoli. Molti si saranno chiesti come possano una sedicenne o un quattordicenne (che a detta di un giornalista del tg di Sky ha organizzato la manifestazione a Stoccolma) muovere milioni di persone, quando politici in tv tutti i giorni riescono a spostare al massimo qualche decimo di punto nei sondaggi?
Giovani ragazzi che mettono in dubbio certezze, che si dimostrano insensibili alla propaganda altrui, non rispettano le gerarchie e rischiano di creare problemi economici.
Dietro quelli come Trump che negano il riscaldamento globale perchè in inverno nevica, non c'è solo ignoranza e propaganda. Ci sono anche interessi economici, che la propaganda difende (un esempio lo trovate qui: http://www.econoliberal.it/2011/06/paghereste-3000-euro-lanno-per.html ) e continua a difendere, cercando di screditare ragazzi che fortunatamente sono insensibili al vecchio e per questo fanno paura. Più del clima impazzito
14 marzo 2019
I paradisi fiscali europei
L'Europa non piace a molti politici populisti che, in Italia, hanno individuato un avversario grosso e visibile: la Francia di Macron, colpevole forse di fare politiche sgradite o solo di essere un avversario di loro amici politici, come ad esempio il Front National di Marie Le Pen.
Eppure a ben vedere i veri avversari sono altri. I paesi dell'est per esempio. L'Ungheria che ha tassi di disoccupazione molto bassi, ha di recente deciso di far lavorare di più i propri cittadini, che ricevono salari modesti se paragonati a quelli dell'Europa occidentale.
Un esempio di concorrenza sleale di cui si parla poco perché a molte imprese tedesche (ma anche francesi e italiane) conviene acquistare componenti prodotti in Polonia, Romania, Ungheria piuttosto che produrli in patria.
Oppure i paesi più piccoli come Malta, Lussemburgo, Cipro ma anche Olanda e Irlanda. Che non si fanno problemi a concedere condizioni assai favorevoli a imprese estere alla ricerca di paradisi fiscali.
Ebbene l'Italia a causa dei paradisi fiscali in questi 5 paesi, perde ogni anno 6,5 miliardi di imposte. La Spagna 3,5, la Francia 10 e la Germania 15. Misura concreta del fatto che gli avversari non sono a Berlino o a Parigi, ma altrove.
Eppure a ben vedere i veri avversari sono altri. I paesi dell'est per esempio. L'Ungheria che ha tassi di disoccupazione molto bassi, ha di recente deciso di far lavorare di più i propri cittadini, che ricevono salari modesti se paragonati a quelli dell'Europa occidentale.
Un esempio di concorrenza sleale di cui si parla poco perché a molte imprese tedesche (ma anche francesi e italiane) conviene acquistare componenti prodotti in Polonia, Romania, Ungheria piuttosto che produrli in patria.
Oppure i paesi più piccoli come Malta, Lussemburgo, Cipro ma anche Olanda e Irlanda. Che non si fanno problemi a concedere condizioni assai favorevoli a imprese estere alla ricerca di paradisi fiscali.
Ebbene l'Italia a causa dei paradisi fiscali in questi 5 paesi, perde ogni anno 6,5 miliardi di imposte. La Spagna 3,5, la Francia 10 e la Germania 15. Misura concreta del fatto che gli avversari non sono a Berlino o a Parigi, ma altrove.
06 marzo 2019
La TAV è anticiclica (ma il governo non lo sa)
Cosa dovrebbe fare un governo quando l'economia è debole?
La risposta à semplice: deve far crescere la domanda e dare certezze perchè da esse dipendono le scelte dei cittadini e delle imprese su consumi, investimenti, lavoro. Se il clima economico è negativo, le imprese non assumono, rinviano gli investimenti e i cittadini consumano di meno.
Gli investimenti sono prociclici: si fanno per soddisfare una maggior domanda futura. Se l'economia va bene vale a dire si immagina una futura domanda più elevata, le imprese investono e assumono nuovo personale e viceversa quando l'economia peggiora. Ciò non fa altro che accentuare l'andamento dell'economia: quando il PIL cresce gli investimenti lo fanno crescere ancora di più, quando diminuisce, contribuiscono al calo più di altri componenti della domanda.
Per questa ragione si invocano politiche anticicliche, ovvero scelte economiche che danno più certezze e fan salire la domanda quando questa è debole e che rallentino la crescita quando ce ne troppa e si rischia una fiammata inflazionistica.
La contestatissima TAV Torino-Lione ha questa caratteristica: in un momento di PIL in rallentamento rappresenta una domanda aggiuntiva e certa. Cosa c'è di meglio di una spesa di miliardi di euro assolutamente certi da spendere in qualche anno, di migliaia di lavoratori impegnati sul territorio, di un indotto che ha commesse per anni?
Se ne sono resi conto le imprese e i lavoratori, schierati contro l'ipotesi di fermare la costruzione della TAV. Sanno che mentre l'incertezza aumenta e le commesse calano, un'opera come la TAV va nella direzione opposta: offre certezze e lavoro.
La loro prospettiva è limitata, certo. Pensano a quel che può accadere nei prossimi mesi o al massimo negli prossimi anni, ma hanno individuato uno strumento anticiclico e chiedono al governo di non rinunciarvi.
Imprese e lavoratori sono anche, forse incosapevolmente, keynesiani. L'economista inglese ha cambiato l'economia prendendo in considerazione il ruolo della domanda in una economia che era stata fino a quel momento studiata soprattutto dal punto di vista dell'impresa, di solito capace di influire poco o per niente sulla domanda.
Keynes suggerì che lo Stato dovesse stimolare la domanda quando questa era insufficiente a garantire il livello di occupazione desiderato e che dovesse farlo stimolando gli investimenti in modo che all'uscita da una crisi la maggiore dotazione di infrastrutture permettesse all'economia di crescere.
Le imprese lo sanno, i lavoratori lo sanno, ma non lo sa il governo che confonde il reddito di cittadinanza e la promessa di spese future con il keynesismo. Ma promettere una metropolitana significa spendere i soldi tra molti anni, non oggi. E anche questo le imprese e i lavoratori pro TAV lo sanno.
La risposta à semplice: deve far crescere la domanda e dare certezze perchè da esse dipendono le scelte dei cittadini e delle imprese su consumi, investimenti, lavoro. Se il clima economico è negativo, le imprese non assumono, rinviano gli investimenti e i cittadini consumano di meno.
Gli investimenti sono prociclici: si fanno per soddisfare una maggior domanda futura. Se l'economia va bene vale a dire si immagina una futura domanda più elevata, le imprese investono e assumono nuovo personale e viceversa quando l'economia peggiora. Ciò non fa altro che accentuare l'andamento dell'economia: quando il PIL cresce gli investimenti lo fanno crescere ancora di più, quando diminuisce, contribuiscono al calo più di altri componenti della domanda.
Per questa ragione si invocano politiche anticicliche, ovvero scelte economiche che danno più certezze e fan salire la domanda quando questa è debole e che rallentino la crescita quando ce ne troppa e si rischia una fiammata inflazionistica.
La contestatissima TAV Torino-Lione ha questa caratteristica: in un momento di PIL in rallentamento rappresenta una domanda aggiuntiva e certa. Cosa c'è di meglio di una spesa di miliardi di euro assolutamente certi da spendere in qualche anno, di migliaia di lavoratori impegnati sul territorio, di un indotto che ha commesse per anni?
Se ne sono resi conto le imprese e i lavoratori, schierati contro l'ipotesi di fermare la costruzione della TAV. Sanno che mentre l'incertezza aumenta e le commesse calano, un'opera come la TAV va nella direzione opposta: offre certezze e lavoro.
La loro prospettiva è limitata, certo. Pensano a quel che può accadere nei prossimi mesi o al massimo negli prossimi anni, ma hanno individuato uno strumento anticiclico e chiedono al governo di non rinunciarvi.
Imprese e lavoratori sono anche, forse incosapevolmente, keynesiani. L'economista inglese ha cambiato l'economia prendendo in considerazione il ruolo della domanda in una economia che era stata fino a quel momento studiata soprattutto dal punto di vista dell'impresa, di solito capace di influire poco o per niente sulla domanda.
Keynes suggerì che lo Stato dovesse stimolare la domanda quando questa era insufficiente a garantire il livello di occupazione desiderato e che dovesse farlo stimolando gli investimenti in modo che all'uscita da una crisi la maggiore dotazione di infrastrutture permettesse all'economia di crescere.
Le imprese lo sanno, i lavoratori lo sanno, ma non lo sa il governo che confonde il reddito di cittadinanza e la promessa di spese future con il keynesismo. Ma promettere una metropolitana significa spendere i soldi tra molti anni, non oggi. E anche questo le imprese e i lavoratori pro TAV lo sanno.
18 febbraio 2019
Un fallimento valutato da Ponti
Marco Ponti, non simpatico professore di economia con idee liberiste che ha valutato negativamente la TAV che dovrebbe collegare Italia e Francia, non è nuovo a queste valutazioni. Nel caso della Brebemi, la fallimentare autostrada che collega Milano con Bergamo e Brescia, pare abbia espresso giudizi positivi, come racconta Repubblica:
https://www.repubblica.it/economia/2019/02/18/news/brebemi_a35_ecco_tutti_i_benefici_dell_autostrada_fantasma-219457191/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P20-S1.6-T1
https://www.repubblica.it/economia/2019/02/18/news/brebemi_a35_ecco_tutti_i_benefici_dell_autostrada_fantasma-219457191/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P20-S1.6-T1
15 febbraio 2019
Quando arriva la stangata
Vi è mai capitato in passato di leggere di proteste di cittadini a cui è arrivata una bolletta dell'acqua o dell'immondizia particolarmente salata?
Non stiamo parlando di errori, del rubinetto lasciato aperto che ha fatto scattare il contatore, penalizzando l'utente per via di tariffe progressive, ma di stangate causate da enti che all'improvviso aumentano le tariffe, magari raddoppiandole.
Quando c'è di mezzo una privatizzazione, spesso si è data la colpa al privato che prende in carico il servizio dal comune e manda un manager ben pagato a gestire la società, che deve generare profitti per l'investitore.
Ma profitti e spese aggiuntive son sufficienti a spiegare i rincari?
Forse no, come testimonia la città di Genova. Il Secolo XIX racconta che il comune ha deciso di non aumentare le tariffe, colmando coi soldi pubblici la differenza tra i maggiori costi e l'incasso dai cittadini.
Forse no, come testimonia la città di Genova. Il Secolo XIX racconta che il comune ha deciso di non aumentare le tariffe, colmando coi soldi pubblici la differenza tra i maggiori costi e l'incasso dai cittadini.
Solo i contribuenti poco fedeli pagheranno una bolletta rincarata di oltre il 18%, scelta su cui si possono avere dubbi: un aumento dell'imposta non spingerà i contribuenti infedeli a pagare.
Il maggior costo della raccolta dei rifiuti si deve sicuramente in buona parte a problemi nello smaltimento. La chiusura di una discarica alle spalle della città, ha costretto a esportare rifiuti verso altre regioni, con un forte aggravio del costi, in assenza di un incremento della raccolta differenziata.
Il congelamento dell'aumento della TARI non spingerà la città e i cittadini a aumentare la raccolta differenziata, e crea il rischio di un aumento futuro molto rilevante. come successo altre volte in altri comuni. Un aumento del 50% di una tariffa si può spiegare con una serie di aumenti che in precedenza non si sono realizzati, per non scontentare i cittadini.
Il maggior costo della raccolta dei rifiuti si deve sicuramente in buona parte a problemi nello smaltimento. La chiusura di una discarica alle spalle della città, ha costretto a esportare rifiuti verso altre regioni, con un forte aggravio del costi, in assenza di un incremento della raccolta differenziata.
Il congelamento dell'aumento della TARI non spingerà la città e i cittadini a aumentare la raccolta differenziata, e crea il rischio di un aumento futuro molto rilevante. come successo altre volte in altri comuni. Un aumento del 50% di una tariffa si può spiegare con una serie di aumenti che in precedenza non si sono realizzati, per non scontentare i cittadini.
10 febbraio 2019
TAV, qualche numero
Non è ancora stato pubblicato l'ennesimo studio costi-benefici sulla TAV in Valsusa, ma circolano dati e considerazioni.
Pare che i dati dicano che i TIR che ogni giorno attraversano il Frejus siano poco più di 2. 000, un numero insufficiente a giustificare la nuova linea ferroviaria ovvero a spostare almeno 1,5 milioni di TIR l'anno su rotaia.
Ma se si considerano anche i passaggi a Ventimiglia e al traforo del Monte Bianco i passaggi giornalieri salgono a 12.500. Se metà di questi venisse spostato su rotaia, l'obiettivo sarebbe raggiunto e superato. Entro il 2050, dice la commissione guidata da Marco Ponti che sembra aver anche segnalato che mettere le merci su ferrovia significa congestionare le autostrade attorno a Torino o meglio all'interporto di Orbassano dove avverrà il carico/scarico di merci dalla ferrovia, scoraggiando il ricorso alla ferrovia.
Insomma o non si deve fare perchè le merci sono poche o non si deve fare perchè ci sono colli di bottiglia a limitare la fruibilità dell'opera.
I dati confermano che la TAV non può essere considerata solo un'opera che collega due città (Torino e Lione) e le obiezioni paiono viziate da ragionamenti piuttosto conservatori.
Se infatti consideriamo il numero di TIR che ogni giorno attraversano la frontiera, non c'è dubbio che una nuova linea ferroviaria ha ragion d'essere. Tuttavia si dovranno fare scelte che spingano i trasportatori a usare il treno. Lo si deve fare per uno scopo diverso, un pò come quando si chiude il centro storico alle auto per limitare rumore e inquinamento in zone molto popolate.
Altrimenti non è detto che le merci si spostino su ferrovia. La libertà di scelta non si sposa con la tutela dell'ambiente: si fa ciò che conviene e non si considerano le esternalità, come l'inquinamento. Se si vuole raggiungere un certo obiettivo che rappresenta un bene per tutti, servono incentivi, divieti, motivazioni.
Inoltre occorre anche capire che le merci non partiranno tutte da Torino per arrivare a Lione (e vicerversa), come non tutti i passeggeri dell'alta velocità tra Milano e Roma salgono in una delle due città e scendono nell'altra (a ben vedere la TAV collega Torino con Salerno, ma semplifichiamo). Per cui serviranno diversi interporti, ovvero stazioni dedicate alle merci in cui far salire/scendere le merci dal treno.
Il trasporto è fatto di tanti passaggi, si imboccano tante vie di comunicazione, ci sono operazioni di carico/scarico. Se uno di questi si blocca, ne risente l'efficienza complessiva e si sceglieranno altri modi di trasportare le merci o le persone.
Per questo motivo i critici della commissione guidata da Ponti spiegheranno che l'obiezione di autostrde con più traffico attorno a Torino non ha senso. Per far funzionare una ferrovia non basta quei 2-300 km tra Italia e Francia ma anche altri investimenti capaci di liberare dai TIR le autostrade di tutto il nord ovest.
Pare che i dati dicano che i TIR che ogni giorno attraversano il Frejus siano poco più di 2. 000, un numero insufficiente a giustificare la nuova linea ferroviaria ovvero a spostare almeno 1,5 milioni di TIR l'anno su rotaia.
Ma se si considerano anche i passaggi a Ventimiglia e al traforo del Monte Bianco i passaggi giornalieri salgono a 12.500. Se metà di questi venisse spostato su rotaia, l'obiettivo sarebbe raggiunto e superato. Entro il 2050, dice la commissione guidata da Marco Ponti che sembra aver anche segnalato che mettere le merci su ferrovia significa congestionare le autostrade attorno a Torino o meglio all'interporto di Orbassano dove avverrà il carico/scarico di merci dalla ferrovia, scoraggiando il ricorso alla ferrovia.
Insomma o non si deve fare perchè le merci sono poche o non si deve fare perchè ci sono colli di bottiglia a limitare la fruibilità dell'opera.
I dati confermano che la TAV non può essere considerata solo un'opera che collega due città (Torino e Lione) e le obiezioni paiono viziate da ragionamenti piuttosto conservatori.
Se infatti consideriamo il numero di TIR che ogni giorno attraversano la frontiera, non c'è dubbio che una nuova linea ferroviaria ha ragion d'essere. Tuttavia si dovranno fare scelte che spingano i trasportatori a usare il treno. Lo si deve fare per uno scopo diverso, un pò come quando si chiude il centro storico alle auto per limitare rumore e inquinamento in zone molto popolate.
Altrimenti non è detto che le merci si spostino su ferrovia. La libertà di scelta non si sposa con la tutela dell'ambiente: si fa ciò che conviene e non si considerano le esternalità, come l'inquinamento. Se si vuole raggiungere un certo obiettivo che rappresenta un bene per tutti, servono incentivi, divieti, motivazioni.
Inoltre occorre anche capire che le merci non partiranno tutte da Torino per arrivare a Lione (e vicerversa), come non tutti i passeggeri dell'alta velocità tra Milano e Roma salgono in una delle due città e scendono nell'altra (a ben vedere la TAV collega Torino con Salerno, ma semplifichiamo). Per cui serviranno diversi interporti, ovvero stazioni dedicate alle merci in cui far salire/scendere le merci dal treno.
Il trasporto è fatto di tanti passaggi, si imboccano tante vie di comunicazione, ci sono operazioni di carico/scarico. Se uno di questi si blocca, ne risente l'efficienza complessiva e si sceglieranno altri modi di trasportare le merci o le persone.
Per questo motivo i critici della commissione guidata da Ponti spiegheranno che l'obiezione di autostrde con più traffico attorno a Torino non ha senso. Per far funzionare una ferrovia non basta quei 2-300 km tra Italia e Francia ma anche altri investimenti capaci di liberare dai TIR le autostrade di tutto il nord ovest.
03 febbraio 2019
Bentornato, Mario Monti
No, non sono impazzito. Mario Monti non è il presidente del Consiglio, e purtroppo (qualcuno magari penserà: per fortuna) al governo ci sono Conte, i suoi vice Salvini e Di Maio, all'economia Tria e la Castelli che arriva a chiedere a un partito di opposizione di spiegare la recessione.
Ma in fin dei conti è come se ci fosse, come se Mario Monti fosse il presidente del Consiglio e non dell'Università Bocconi.
Mario Monti che 7 anni fa, nel novembre 2011 entrò a Palazzo Chigi per sostituire Berlusconi è riuscito a spaventare gli italiani con un programma tutto lacrime e sangue, certo invece di creare certezze sui mercati finanziari, riluttanti con chi l'ha preceduto ad acquistare i titoli di stato.
Monti ha criticato le scelte della politica, ha promesso riforme capaci di portare, a suo dire, diversi punti di crescita del PIL, ma nell'immediato ha anticipato l'IMU e preso altri provvedimenti economici che avrebbero dovuto azzerare il deficit nel 2014.
Obiettivi clamorosamente falliti. Il PIL è crollato di quasi 5 punti in due anni e il deficit è rimasto al 3% perchè gli italiani si sono spaventati. Non si sono fidati delle promesse, non hanno pagato le imposte come fossero una tantum. Hanno pensato che era prudente tagliare le spese, rinviare gli acquisti di beni durevoli, per non attirare l'attenzione di un fisco che controllava gli scontrini fuori dai bar e non dava più certezze e sembrava promettere nuove tasse.
Per questo alla fine gli obiettivi promessi da Mario Monti si son rivelati errati: il PIL è sceso bruscamente, le certezze dei conti pubblici hanno prodotto incertezze nei bilanci privati e gli italiani hanno capito che le incertezze causano stangate, che lo spread che sale pericolosamente annuncia un aumento sgradito di imposte e tagli alla spesa.
Hanno imparato talmente bene la lezione, gli italiani, che di fronte alle incertezze del governo Conte, si son rimessi a fare quello che facevano ai tempi di Monti rinviando gli acquisti, girando alla larga dalla borsa e anche dai BTP Italia, tenendo i soldi in banca o portandoli all'estero. Le imprese risentono delle incertezze come quella della TAV e tagliano o rinviano gli investimenti, e le assunzioni.
Insomma siamo tornati ai tempi di Monti. Stesse incertezze sulle imposte e la spesa pubblica, stessi rinvii di spese e investimenti, stesse promesse poco credibili di miglioramenti futuri. Il PIL ne risente allora come oggi a testimonianza che la lezione non è servita perchè non è stata capita.
Non s'è compreso che di fronte a un'Italia frastornata dalla crisi serve meno incertezza, occorre muoversi con delicatezza per non provocare reazioni di paura e a volte anche di panico.
Ma in fin dei conti è come se ci fosse, come se Mario Monti fosse il presidente del Consiglio e non dell'Università Bocconi.
Mario Monti che 7 anni fa, nel novembre 2011 entrò a Palazzo Chigi per sostituire Berlusconi è riuscito a spaventare gli italiani con un programma tutto lacrime e sangue, certo invece di creare certezze sui mercati finanziari, riluttanti con chi l'ha preceduto ad acquistare i titoli di stato.
Monti ha criticato le scelte della politica, ha promesso riforme capaci di portare, a suo dire, diversi punti di crescita del PIL, ma nell'immediato ha anticipato l'IMU e preso altri provvedimenti economici che avrebbero dovuto azzerare il deficit nel 2014.
Obiettivi clamorosamente falliti. Il PIL è crollato di quasi 5 punti in due anni e il deficit è rimasto al 3% perchè gli italiani si sono spaventati. Non si sono fidati delle promesse, non hanno pagato le imposte come fossero una tantum. Hanno pensato che era prudente tagliare le spese, rinviare gli acquisti di beni durevoli, per non attirare l'attenzione di un fisco che controllava gli scontrini fuori dai bar e non dava più certezze e sembrava promettere nuove tasse.
Per questo alla fine gli obiettivi promessi da Mario Monti si son rivelati errati: il PIL è sceso bruscamente, le certezze dei conti pubblici hanno prodotto incertezze nei bilanci privati e gli italiani hanno capito che le incertezze causano stangate, che lo spread che sale pericolosamente annuncia un aumento sgradito di imposte e tagli alla spesa.
Hanno imparato talmente bene la lezione, gli italiani, che di fronte alle incertezze del governo Conte, si son rimessi a fare quello che facevano ai tempi di Monti rinviando gli acquisti, girando alla larga dalla borsa e anche dai BTP Italia, tenendo i soldi in banca o portandoli all'estero. Le imprese risentono delle incertezze come quella della TAV e tagliano o rinviano gli investimenti, e le assunzioni.
Insomma siamo tornati ai tempi di Monti. Stesse incertezze sulle imposte e la spesa pubblica, stessi rinvii di spese e investimenti, stesse promesse poco credibili di miglioramenti futuri. Il PIL ne risente allora come oggi a testimonianza che la lezione non è servita perchè non è stata capita.
Non s'è compreso che di fronte a un'Italia frastornata dalla crisi serve meno incertezza, occorre muoversi con delicatezza per non provocare reazioni di paura e a volte anche di panico.
26 gennaio 2019
Signoraggio: a volte ritornano
Un nuovo programma di Rai2 ripropone un pò di immondizia sul signoraggio. Inutile aggiungere altro
24 gennaio 2019
CETA
Nella puntata di lunedì scorso di Presa Diretta s'è parlato di CETA (vedi qui), l'accordo sul commercio tra Canada e Unione Europea che ha eliminato i dazi.
E' un accordo che diversi partiti, in testa Lega, 5 Stelle e Fratelli d'Italia contrastano ma che pare funzionare egregiamente.
I motivi dell'opposizione al CETA sono tre: aiuterebbe le multinazionali, porterebbe in Italia il grano canadese coltivato con sostanze potenzialmente pericolose e tutela solo 41 prodotti di origine protetta.
I dati che provengono dall'economia dicono che 5 prodotti dei 41 tutelati dall'accordo, rappresentano gran parte delle esportazioni dei prodotti a DOP, mentre sono modestissime le esportazioni di beni come la cipolla di Tropea, ignorata dai trattati ma citata dagli oppositori del CETA come esempio di ingiustizia nei rapporti commerciali.
Le importazioni di grano canadese, previste in automento, sono invece diminuite in seguito alla rimozione dei dazi. La ragione è da ricercarsi nei pesticidi usati in Canada che spaventano i consumatori e italiani e le imprese importatrici.
Invece un anno di CETA ha permesso a molti produttori italiani di aumentare le esportazioni verso il Canada. Si tratta di beni alimentari, come prosciutti, formaggi, pasta ma anche di scarpe, vestiti, gioielli, prodotti
Tutto ciò non dovrebbe stupirci.
La teoria economica insegna che il grano come tutti i prodotti agricoli e quelli minerari, hanno un prezzo che dipende da domanda e offerta. Il consumatore fatica a distinguere un buon grano da un grano di qualità peggiore e quasi sempre l'acquisto di beni come il grano (ma pensiamo anche alle materie prime in generale) è realizzato da aziende che poi trasformano o usano i beni acquistati. Si compra il prodotto più conveniente, pagando di più il prodotto migliore perchè il suo uso comporta costi inferiori.
Diverso è il discorso nel caso dei beni industriali (o agro-industriali come i formaggi o i prosciutti). Il consumatore può capire la qualità e decidere cosa comprare e quanto pagarlo. Si capisce se un prosciutto è più gustoso, se un formaggio è più buono e si decide di conseguenza quanto spendere.
La crescita della vendita dei prodotti italiani in Canada sta avvendendo a spese dei produttori locali, a conferma che le teorie hanno visto giusto.
Il solo problema sono i politici che predicano contro il CETA in nome del sovranismo. L'ultimo è stato Luigi di Mario, 6 mesi fa (vedi qui). rischiano di rovinare un exploit delle imprese italiane premiate per il lavoro svolto.
E' un accordo che diversi partiti, in testa Lega, 5 Stelle e Fratelli d'Italia contrastano ma che pare funzionare egregiamente.
I motivi dell'opposizione al CETA sono tre: aiuterebbe le multinazionali, porterebbe in Italia il grano canadese coltivato con sostanze potenzialmente pericolose e tutela solo 41 prodotti di origine protetta.
I dati che provengono dall'economia dicono che 5 prodotti dei 41 tutelati dall'accordo, rappresentano gran parte delle esportazioni dei prodotti a DOP, mentre sono modestissime le esportazioni di beni come la cipolla di Tropea, ignorata dai trattati ma citata dagli oppositori del CETA come esempio di ingiustizia nei rapporti commerciali.
Le importazioni di grano canadese, previste in automento, sono invece diminuite in seguito alla rimozione dei dazi. La ragione è da ricercarsi nei pesticidi usati in Canada che spaventano i consumatori e italiani e le imprese importatrici.
Invece un anno di CETA ha permesso a molti produttori italiani di aumentare le esportazioni verso il Canada. Si tratta di beni alimentari, come prosciutti, formaggi, pasta ma anche di scarpe, vestiti, gioielli, prodotti
Tutto ciò non dovrebbe stupirci.
La teoria economica insegna che il grano come tutti i prodotti agricoli e quelli minerari, hanno un prezzo che dipende da domanda e offerta. Il consumatore fatica a distinguere un buon grano da un grano di qualità peggiore e quasi sempre l'acquisto di beni come il grano (ma pensiamo anche alle materie prime in generale) è realizzato da aziende che poi trasformano o usano i beni acquistati. Si compra il prodotto più conveniente, pagando di più il prodotto migliore perchè il suo uso comporta costi inferiori.
Diverso è il discorso nel caso dei beni industriali (o agro-industriali come i formaggi o i prosciutti). Il consumatore può capire la qualità e decidere cosa comprare e quanto pagarlo. Si capisce se un prosciutto è più gustoso, se un formaggio è più buono e si decide di conseguenza quanto spendere.
La crescita della vendita dei prodotti italiani in Canada sta avvendendo a spese dei produttori locali, a conferma che le teorie hanno visto giusto.
Il solo problema sono i politici che predicano contro il CETA in nome del sovranismo. L'ultimo è stato Luigi di Mario, 6 mesi fa (vedi qui). rischiano di rovinare un exploit delle imprese italiane premiate per il lavoro svolto.
20 gennaio 2019
Bankitalia vs Di Maio: chi ha ragione e perché
Banca d'Italia rivede al ribasso le stime di crescita del 2019. Il governo aveva corretto la previsione di una crescita del PIL: dall'1,5% all'1%. Secondo la Banca d'Italia invece il PIL crescerà dello 0,6%, dato che ha suscitato la reazione del ministro Di Maio che ricorda che le previsioni in passato si son rivelate errate.
Per capire chi ha ragione, vorrei provare a fare una piccola simulazione numerica.
Immaginate che il PIL di un ipotetico stato sia nel 2017 pari a 1000 e crescente nel corso dell'anno. E quello che succede quando una economia va bene. Nel primo trimestre il PIL è 247, nel secondo 249 ecc.. La crescita è sempre di 2.
La crescita continua nei primi due trimestri del 2018 per poi diminuire nella seconda metà dell'anno: è quello che sta succedendo in Italia. La Banca d'Italia ha infatti segnalato che i dati disponibili suggeriscono un calo del PIL anche nell'ultimo trimestre del 2018. Tutto questo è sintetizzato nei dati che trovate qui sotto (per adesso non guardate i numeri rossi).
Come potete leggere, con queste ipotesi il PIL risulta cresciuto nel 2018 dell''1,5% rispetto al PIL 2017, ma è bene osservare che questa crescita dipende in gran parte dal trend crescente del 2017 vale a dire dal fatto che il PIL di ogni trimestre del 2017 è stato superiore al precedente.
E qui entrano in gioco i dati in rosso. Immaginiamo che nel corso del 2018 il PIL non cresca e che i valori non siano quelli in nero della colonna 2018 ma quelli scritti in rosso. In questo caso il PIL 2018 risulta pari a 1012, l'1,2% in più del 2017. Quindi se nel corso del 2018 non ci fosse alcuna crescita, il PIL risulterebbe comunque in crescita rispetto all'anno prima.
Allora possiamo dire che la crescita pari al 1,5% del PIL 2018 rispetto al PIL 2017 è per l'1,2% ereditato dal 2017 e per il restante 0,3% dovuto a quanto successo nel corso del 2018.
Se la variazione del PIL di un anno dipende in parte da quanto successo l'anno prima, aggiungiamo un ipotetico 2019 ipotizzando che il PIL diminuica nel primo trimestre e poi riprenda a salire. Anche queste sono ipotesi realistiche (il PIL è in calo ed è probabile che il calo continui a inizio 2019) e concordano con quanto afferma il governo che dice che la manovra è espasiva ma molte misure avranno effetto solo a partire da aprile.
I numeri dicono che il PIL 2019 cresce dello 0,49% ovvero molto più lentamente del 2018 quando s'è registrato un 1.5%. Questo perché il calo nella seconda metà del 2018 e nel primo trimestre 2019 (rispetto al trimestre precedente) porta nel 2019 un calo del PIL dello 0,3%.
Per capire chi ha ragione, vorrei provare a fare una piccola simulazione numerica.
Immaginate che il PIL di un ipotetico stato sia nel 2017 pari a 1000 e crescente nel corso dell'anno. E quello che succede quando una economia va bene. Nel primo trimestre il PIL è 247, nel secondo 249 ecc.. La crescita è sempre di 2.
La crescita continua nei primi due trimestri del 2018 per poi diminuire nella seconda metà dell'anno: è quello che sta succedendo in Italia. La Banca d'Italia ha infatti segnalato che i dati disponibili suggeriscono un calo del PIL anche nell'ultimo trimestre del 2018. Tutto questo è sintetizzato nei dati che trovate qui sotto (per adesso non guardate i numeri rossi).
2017 | 2018 | ||
1° trimestre | 247 | 253 | 253 |
2° trimestre | 249 | 255 | 253 |
3° trimestre | 251 | 254 | 253 |
4° trimestre | 253 | 253 | 253 |
PIL annuo | 1000 | 1015 | 1012 |
% variaz | 1,5% | 1,2% |
Come potete leggere, con queste ipotesi il PIL risulta cresciuto nel 2018 dell''1,5% rispetto al PIL 2017, ma è bene osservare che questa crescita dipende in gran parte dal trend crescente del 2017 vale a dire dal fatto che il PIL di ogni trimestre del 2017 è stato superiore al precedente.
E qui entrano in gioco i dati in rosso. Immaginiamo che nel corso del 2018 il PIL non cresca e che i valori non siano quelli in nero della colonna 2018 ma quelli scritti in rosso. In questo caso il PIL 2018 risulta pari a 1012, l'1,2% in più del 2017. Quindi se nel corso del 2018 non ci fosse alcuna crescita, il PIL risulterebbe comunque in crescita rispetto all'anno prima.
Allora possiamo dire che la crescita pari al 1,5% del PIL 2018 rispetto al PIL 2017 è per l'1,2% ereditato dal 2017 e per il restante 0,3% dovuto a quanto successo nel corso del 2018.
Se la variazione del PIL di un anno dipende in parte da quanto successo l'anno prima, aggiungiamo un ipotetico 2019 ipotizzando che il PIL diminuica nel primo trimestre e poi riprenda a salire. Anche queste sono ipotesi realistiche (il PIL è in calo ed è probabile che il calo continui a inizio 2019) e concordano con quanto afferma il governo che dice che la manovra è espasiva ma molte misure avranno effetto solo a partire da aprile.
2017 | 2018 | 2019 | |
1° trimestre | 247 | 253 | 252 |
2° trimestre | 249 | 255 | 254 |
3° trimestre | 251 | 254 | 256 |
4° trimestre | 253 | 253 | 258 |
PIL annuo | 1000 | 1015 | 1020 |
% variaz | 1,50% | 0,49% |
I numeri dicono che il PIL 2019 cresce dello 0,49% ovvero molto più lentamente del 2018 quando s'è registrato un 1.5%. Questo perché il calo nella seconda metà del 2018 e nel primo trimestre 2019 (rispetto al trimestre precedente) porta nel 2019 un calo del PIL dello 0,3%.
Se non ci credete, al posto dei valori del 2019 scrivete 253 ovvero ipotizzate che nel 2019 non si cresca rispetto all'ultimo trimestre 2018, e fate i conti.
Dunque abbiamo fatto alcune ipotesi realistiche: che il PIL diminuisca nel primo trimestre 2019 oltre che nella seconda parte del 2018, per poi risalire a partire dal secondo trimestre cioè da quando saranno opeative quota 100 e il reddito di cittadinanza. I numeri suggeriscono un calo del PIL 2019 che tuttavia resta positivo, perchè s'è ipotizzata una ripresa a partire dal secondo trimestre.
E tutto questo è proprio quello che ha spiegato Bankitalia: visto il calo che si sta registrando in questi mesi e con i dati disponibili, il PIL del 2019 risulterà positivo ma in forte calo rispetto alle previsioni.
17 gennaio 2019
MPS
Date un'occhiata alla figura: sono i principali dati del bilancio del Monte dei Paschi di Siena riferiti ai primi 9 mesi del 2018.
I dati raccontano di una banca in sofferenza, dove diminuisce un po' tutto, dal numero delle filiali (quasi il 10% in meno) alla raccolta (-4%), ai ricavi (-21.9%).
C'è un dato che stupisce: l'utile per azione è di 34,4 centesimi. Un dato incredibile rispetto al prezzo che è di 1,24 oggi ed era di 1,51 la scorsa settimana, prima che venisse diffuso il contenuto di una lettera della Banca Centrale Europea che chiede coperture dei crediti deteriorati più pesanti delle attese.
MPS in altri termini dovrà occuparsi più in fretta del previsto dei crediti deteriorati, svalutandoli. E questo significa grandi perdite future che andranno coperte con aumenti di capitale, come ha segnalato il sottosegretario Giorgetti.
I 34.4 centesimi di utile dicono che MPS è risanata ma anche che dovrebbe valere più di 1,24 euro a azione. Ma il calo costante del valore dell'azione suggerisce un altro scenario. La banca non è sana, dovrà svalutare e chiedere altri soldi agli azionisti, il primo dei quali è lo Stato italiano. Così gli acquisti di azioni MPS hanno la peggio rispetto alle vendite e il titolo cala.
I dati raccontano di una banca in sofferenza, dove diminuisce un po' tutto, dal numero delle filiali (quasi il 10% in meno) alla raccolta (-4%), ai ricavi (-21.9%).
C'è un dato che stupisce: l'utile per azione è di 34,4 centesimi. Un dato incredibile rispetto al prezzo che è di 1,24 oggi ed era di 1,51 la scorsa settimana, prima che venisse diffuso il contenuto di una lettera della Banca Centrale Europea che chiede coperture dei crediti deteriorati più pesanti delle attese.
MPS in altri termini dovrà occuparsi più in fretta del previsto dei crediti deteriorati, svalutandoli. E questo significa grandi perdite future che andranno coperte con aumenti di capitale, come ha segnalato il sottosegretario Giorgetti.
I 34.4 centesimi di utile dicono che MPS è risanata ma anche che dovrebbe valere più di 1,24 euro a azione. Ma il calo costante del valore dell'azione suggerisce un altro scenario. La banca non è sana, dovrà svalutare e chiedere altri soldi agli azionisti, il primo dei quali è lo Stato italiano. Così gli acquisti di azioni MPS hanno la peggio rispetto alle vendite e il titolo cala.
11 gennaio 2019
Cannabis
C'è in Senato una proposta, firmata 5 Stelle, per la liberalizzazione della cannabis che già si produce per scopi medici e anche per uso ricreativo, anche se si tratta di una sostanza con un principio attivo "light".
I sostenitori della legalizzazione o depenalizzazione della cannabis portano argomentazioni economiche: legalizzare vuol dire togliere risorse alle organizzazioni criminali che trafficano in droghe.
C'è una contea della California dove si produce cannabis e che ha sperimentato sia il proibizionismo che diversi tipi di legalizzazione (per uso personale e per la produzione destinata alla vendita). E' la contea di Humboldt che si trova nel nord, al confine con l'Oregon.
Una sorta di documentario di Netflix, Murder Mountain, racconta soprattutto nella seconda puntata, cosa è successo e cosa sta succedendo in una zona che produce gran parte della cannabis (legale e illegale) prodotta negli USA.
Tutto inizia verso la fine degli anni 60 quando hippies che vogliono vivere lontano dalle città e dal poco amato mondo capitalistico comprano terreni nella contea di Humboldt che ha la caratteristica di essere isolata, boscosa e di avere terreni convenienti. Creano fattorie, villaggi e producono cannabis.
E' illegale ma le autorità tollerano. Una parte del prodotto viene venduto al di fuori della comunità che si autoregola e che coi guadagni finanziano edifici e servizi pubblici. Un primo salto di qualità si verifica con l'importazione dall'Asia di semi di varietà con una maggiore quantità di principio attivo: i prezzi salgono con la "qualità" del prodotto.
Poi arriva il proibizionismo voluto da Nixon. Si dstruggono le produzioni, si incarcerano i produttori che cercano di nascondere le piantine, ma guadagnano ancora di più, pechè un prodotto difficile da trovare aumenta di prezzo.
E' invece negativo l'impatto sociale: la repressione spinge i coltivatori a creare un mondo a parte con proprie regole che servono a evitare guai con la giustizia.
Inoltre molti degli hippies pacifici che avevano fatto una scelta di vita andando a vivere nella contea, la abbondonano, sostituiti da individui pericolosi e aggresivi, attirati dalle possibilità di guadagno. Ne consegue un aumento della criminalità, decine di persone scompaiono, si moltiplicano gli ominci in particolare in una zona che dà il nome alla serie tv: Murder Mountain.
Negli anni 90 arrivano i referendum nello Stato della California che permettono una produzione limitata, destinata all'uso personale. I coltivatori ne approfittano, trovano zone grigie nella normativa e ne approfittano per produrre il più possibile, legalmente.
Infine un altro referendum nel 2016 rende legale la produzione destinata al commercio. Il prezzo crolla e aumentano i costi per i produttori: La ccannabis deve essere analizzta prima di essere immessa sul mercato per escludere la presenza di sostanze vietate, e s devono pagare costosi permessi rilasciati dalle autorità locali, nonchè le imposte.
Succede così che mentre il prezzo crolla, i margini di guadagno scendono e molti agricoltori smettono di produrre cannabis.
Le produzioni illegali diminuiscono ma meno del previsto perchè il divieto di usare cannabis in molti stati ameicani stimola i produttori a mantenere le produzioni non autorizzate, che offrono guadagni interessanti, sia perchè il prezzo della vendita nel mercato nero è più alto, sia perché non si devono sostenere i costi imposti dalla legalizzazione.
I sostenitori della legalizzazione o depenalizzazione della cannabis portano argomentazioni economiche: legalizzare vuol dire togliere risorse alle organizzazioni criminali che trafficano in droghe.
C'è una contea della California dove si produce cannabis e che ha sperimentato sia il proibizionismo che diversi tipi di legalizzazione (per uso personale e per la produzione destinata alla vendita). E' la contea di Humboldt che si trova nel nord, al confine con l'Oregon.
Una sorta di documentario di Netflix, Murder Mountain, racconta soprattutto nella seconda puntata, cosa è successo e cosa sta succedendo in una zona che produce gran parte della cannabis (legale e illegale) prodotta negli USA.
Tutto inizia verso la fine degli anni 60 quando hippies che vogliono vivere lontano dalle città e dal poco amato mondo capitalistico comprano terreni nella contea di Humboldt che ha la caratteristica di essere isolata, boscosa e di avere terreni convenienti. Creano fattorie, villaggi e producono cannabis.
E' illegale ma le autorità tollerano. Una parte del prodotto viene venduto al di fuori della comunità che si autoregola e che coi guadagni finanziano edifici e servizi pubblici. Un primo salto di qualità si verifica con l'importazione dall'Asia di semi di varietà con una maggiore quantità di principio attivo: i prezzi salgono con la "qualità" del prodotto.
Poi arriva il proibizionismo voluto da Nixon. Si dstruggono le produzioni, si incarcerano i produttori che cercano di nascondere le piantine, ma guadagnano ancora di più, pechè un prodotto difficile da trovare aumenta di prezzo.
E' invece negativo l'impatto sociale: la repressione spinge i coltivatori a creare un mondo a parte con proprie regole che servono a evitare guai con la giustizia.
Inoltre molti degli hippies pacifici che avevano fatto una scelta di vita andando a vivere nella contea, la abbondonano, sostituiti da individui pericolosi e aggresivi, attirati dalle possibilità di guadagno. Ne consegue un aumento della criminalità, decine di persone scompaiono, si moltiplicano gli ominci in particolare in una zona che dà il nome alla serie tv: Murder Mountain.
Negli anni 90 arrivano i referendum nello Stato della California che permettono una produzione limitata, destinata all'uso personale. I coltivatori ne approfittano, trovano zone grigie nella normativa e ne approfittano per produrre il più possibile, legalmente.
Infine un altro referendum nel 2016 rende legale la produzione destinata al commercio. Il prezzo crolla e aumentano i costi per i produttori: La ccannabis deve essere analizzta prima di essere immessa sul mercato per escludere la presenza di sostanze vietate, e s devono pagare costosi permessi rilasciati dalle autorità locali, nonchè le imposte.
Succede così che mentre il prezzo crolla, i margini di guadagno scendono e molti agricoltori smettono di produrre cannabis.
Le produzioni illegali diminuiscono ma meno del previsto perchè il divieto di usare cannabis in molti stati ameicani stimola i produttori a mantenere le produzioni non autorizzate, che offrono guadagni interessanti, sia perchè il prezzo della vendita nel mercato nero è più alto, sia perché non si devono sostenere i costi imposti dalla legalizzazione.
Iscriviti a:
Post (Atom)