30 settembre 2010

L'asino economico - Silvio il salvatore


Tra un sonnellino alla Camera e uno al Senato (vedi foto), l'ineffabile Silvio Berlusconi ha spiegato che "Se le banche Usa sono salve e' anche grazie a me" "Ho convinto il Presidente Usa Barack Obama - dice Berlusconi - ad intervenire dopo il crac di Lehman Brothers".

Peccato che il TARP che stanziava 700 miliardi nell'autunno 2008 sia stato varato durante l'amministrazione Bush (vedi qui) da Paulson.

Torna a dormire, Silvio. Quando ti svegli raccontaci cosa hai sognato, che così ci divertiamo un pò.

E io pago....


E io pago.... come diceva Totò!

Ormai la strada in Europa per le sanzioni semi automatiche in caso di sforamento su deficit e debito, sembra segnata, anche se alcuni stati faranno fiera opposizione. Tra questi stati c'è anche l'Italia.
Ma ci conviene?

Quello di cui si sta discutendo, in estrema sintesi, a livello europeo sta più o meno in questi termini: se un paese ha il rapporto Deficit/PIL maggiore del 3% o il rapporto Debito/PIL maggiore del 60%, tali squilibri andranno ridotti in ragione di un ventesimo all'anno.

L'italia tornerà ad avere nel 2011 un rapporto Debito/PIL pari a circa il 119% e il rapporto deficit/PIL tornerà sotto il 3% solo nel 2012.
Quindi il problema è appunto il debito.

Secondo le recenti proposte dovremo passare in 20 anni dal 119% al 60%.

Facciamo due calcoli partendo da questi dati (i più aggiornati possibili):

Debito attuale 1850 mld.
PIL attuale 1555 Mld.
Poniamo (ottimisticamente) di crescere del 1,5% all'anno
E poniamo di ridurre il debito (mooooolto ottimisticamente) del 2% all'anno

Si può calcolare semplicemente che dopo 20 anni avremmo un PIL cresciuto a 2094 Mld e un debito calato a 1235 Mld, il cui rapporto fa appunto il 59% (circa).

Il 2% di PIL significa 37 Mld di Euro l'anno di avanzo primario di bilancio da destinare ESCLUSIVAMENTE alla riduzione del debito pubblico.
In verità bisognerebbe considerare anche la minor spesa per interessi sul debito da un parte, ma anche la minore crescita del PIL dall'altra dovuta alla minore spesa pubblica.

E' ovvio che il tasso di crescita diventa importantissimo. Con un tasso di crescita al 3% per portare il rapporto Debito/PIL al 60% è sufficiente ridurre il debito dell' 0,60% all'anno, cioé circa 9,3 Mld l'anno.

Devo riconoscere che un simile risultato, posto che sia possibile, sarebbe veramente formidabile in prospettiva, anche se imposto dall'Europa. Il nodo è che i precedenti storici sono tutti a sfavore. L'Italia è riuscita in circa 15 anni a ridurre il rapporto debito/PIL dal 123% al 105% (cioé il 18%, cioé circa l'1,1% l'anno), però a prezzo di una crescita bassissima, pari - guarda caso - a circa l'1,3 - 1,5%. In pratica lo stock di debito è rimasto immutato ed è aumentato il PIL, facendo calare il rapporto.
Questo deve fare riflettere, perché potrebbe essere un obiettivo troppo ambizioso e le sanzioni in teoria "semi-automatiche" potrebbero diventare automatiche per l'Italia e alla fine finiremmo tutti a dire: "E io pago..."

29 settembre 2010

L'asino economico - Il ponte e il sottosegretario


Quello che ho sentito oggi è davvero clamoroso e forse anche un pò squallido.

Perchè si deve fare il ponte sullo stretto? ha chiesto un giornalista al sottosegretario alle Infrastrutture, il catanese Giuseppe Maria Reina.

Perché la Sicilia è una portaerei in mezzo al Mediterraneo su cui sbarcheranno le merci provenienti da mezzo mondo e destinate ai mercati europei.

Ne avevo sentite di cose strane, ma questa è clamorosa.

Sul mar Tirreno si affacciano molti porti importanti. A me vengono in mente Genova, La Spezia, Livorno, Napoli, Gioia Tauro, Palermo. Poi ci sono i porti sull'Adriatico, da Trieste in giù.

Dove sono i mercati più importanti, verso i quali sono dirette le merci cinesi o indiane? Sono nel nord Italia, in Germania, Francia, Svizzera.

Dunque immaginate una nave carica di merci destinate alla Lombardia. Dove attraccherà? Il buon senso suggerisce che arriveranno in porto vicino, affacciato su Tirreno (Genova, La Spezia) o sull'Adriatico per poi proseguire via terra su gomma o rotaia.

Per il sottosegretario alle Infrastrutture invece in futuro le merci arriveranno in Sicilia. Non in Calabria, a Gioia Tauro, o, con qualche ora di nave in più, a Napoli. No, in Sicilia. Qui arriveranno anche le merci per Francia o Spagna. Per qualche misterioso motivo i francesi preferiranno i porti siculi a Marsiglia. Per questo, conclude il sottosegretario, ci vuole il ponte sullo stretto di Messina.

E' ovviamente una tesi ridicola, che dal suo punto di vista ha un vantaggio: se si fa credere all'elettore che si costruisce il ponte, poi si prometteranno nuove strade e ferrovie per trasportare le merci verso nord.

Oggi si promette il ponte, domani sarà la volta di strade e ferrovie. Altrimenti il ponte non servirà a nulla.

Ce n'è abbastanza per tenere occupati gli elettori per 20 o 30 anni con promesse di sviluppo destinate a rivelarsi illusioni.

Un vero squallore.

27 settembre 2010

Lo specchietto per le allodole


Avete mai visto la pubblicità di Mediolanum? Promette un tasso lordo del 3% ovvero il 2,20% netto.

Molto generoso verso il cliente? No, solo un modo per raccogliere capitali pagando un interesse modesto.

Il rendimento netto del 2,20% si applica infatti solo per un certo periodo sulla parte che supera i 15.000 euro e scatta al superamento dei 17.000 euro di giacenza media sul conto.

Dovete tenere sul conto almeno 17.000 euro, 15.000 dei quali non vi rendono nulla. Il resto è remunerato per un certo periodo al 2,20% netto l'anno. Se un cliente ha 17.000 euro sul conto incassa qualche decina di euro. Se fosse un tasso applicato per un anno, sarebbero 44 euro (il 2,20% di 2000), ovvero poco più dello 0,2% netto l'anno per 17.000 euro.

Se però la giacenza media scende sotto i 15.000 euro, scattano le commissioni: 90 euro l'anno, se su conto in media ci sono meno di 15.000 euro. Non male.. per Mediolanum. Interesse zero, rendimento solo per un certo periodo e per una parte dei soldi e, se non gli lasci abbastanza fondi infruttiferi, si fanno pure pagare 90 euro l'anno.

Il tutto senza considerare altri possibili costi, come quelli per carte di credito o anche solo per bloccare un bancomat rubato. Anche in questo caso si paga: 5,16 euro.

Poi il cliente può sottoscrivere una polizza vita chiamata Contratto di Assicurazione sulla Vita con Partecipazione agli Utili, con l'obbligo di versare almeno 2000 euro l'anno.

Sulle somme investite Mediolanum riconosce, in questo momento, un rendimento attorno al 2,3-2,5% lordo annuo, un rendimento variabile, in passato superiore: il 4,48% nel 2008 contro il 4,46% dei titoli di stato, 3,65% nel 2009 contro 3,54% dei titoli di stato.

Ci sono poi i costi, di cui si fissano i massimi ma non i minimi. I costi paiono incerti ma possono arrivare al 50% del rendimento della polizza, cui si aggiunge la commissione annua dello 0,18% su tutto il capitale riconosciuta a Mediolanum.

Il rendimento dell'investimento, se anche superiore al rendimento dei titoli di stato (BOT e CCT per intenderci), per la parte "Polizza" risulta inferiore a quello dei titoli di stato se si considera la somma da tenere a tasso zero sul conto corrente. Lo spot illude, è uno specchietto per le allodole per attrarre clienti destinati a incassare meno di quel che offrono i titoli di stato.

24 settembre 2010

L'asino economico - Il mistero di Bocchino


Annozero ha dedicato qualche minuto alla vicenda Fincantieri, che per Bocchino è un mistero.

Gli è chiaro chi se la prende con Fini, ma non sa che cosa fa Fincantieri. Considera un mistero la crisi di Fincantieri.

Proviamo a spiegarglielo. Fincantieri costruisce traghetti e navi da crociera. Lo fa anche in modo poco pulito, con parecchio lavoro nero e incidenti mortali, perchè appaltano molte lavorazioni a imprese private che usano anche lavoratori di quasi 70 (vedi qui), naturalmente in nero.

Un paio d'anni fa è iniziata la parte più dura della crisi, che ha spinto le imprese a tagliare gli investimenti. La domanda è diminuita e non serve investire in nuove navi, perché si investe se si pensa che in futuro aumenteranno i passeggeri.

Rispetto ad altre crisi, in questo caso c'è un evidente vantaggio: ci vuole molto tempo per produrre una nave. Si sapeva da tempo che alcune commesse stavano per esaurirsi e qualche politico aveva lanciato l'allarme. Si sapeva anche che Tirrenia, che dispone di una flotta vecchia, era in crisi.

Tirrenia è in mano a un liquidatore e con le commesse che stanno per esaurirsi Fincantieri mette in programma una pesante ristrutturazione che coinvolge tre stabilimenti italiani e migliaia di lavoratori.

Questo è quel che Bocchino e il governo non sanno. O forse lo sanno, ma gli sta bene così, tanto che da quasi 5 mesi evitano di nominare un nuovo ministro dello sviluppo economico, come ricorda il contatore qui a lato.

23 settembre 2010

La nebbia di Taranto


A Milano c'è la nebbia, ma non si vede, come diceva Totò in un celebre film.

Anche a Taranto c'è la nebbia. E si vede. Una nebbia di inquinanti come testimonia questo articolo (clicca qui), contro la quale non si fa nulla. Anzi il governo fa di tutto perché resti, perchè i tarantini si sentano simili ai milanesi in un giorno di novembre.

Il 13 agosto il governo s'è riunito per approvare un decreto che deroga ad una legge che impedisce che un certo inquinante superi una certa soglia. Non vogliono che la nebbia di inquinanti scompaia dai cieli pugliesi.

Ci lamentiamo che il ministro dello sviluppo economico manca da più di quattro mesi, mentre il governo, generosamente, in pieno agosto si riunisce per impedire che la produzione dell'ILVA possa essere messa in pericolo dalla tutela della salute dei cittadini di Taranto. Che ingrati che siamo!

22 settembre 2010

L'asino economico 2: la vendetta


Giusto ieri sera guardavo Ballarò, perché trattava di alcune interessanti questioni economiche, ma mai avrei pensato di sentire la più grande lezione di fantaeconomia dall'onorevole Laura Ravetto del PDL.
Io posso capire che quando si parla di cose delicate come il debito pubblico, l'andamento del PIL, il deficit, non si può pretendere che tutti siano dei perfetti economisti, né che tutti condividano la ricetta perfetta per far sì che l'Italia cresca del 5% all'anno e il debito cali di pari passo. La destra può avere una ricetta e la sinistra un'altra. E' solo questione di opinione....

Ma quando ho sentito dire dalla Ravetto che l'Italia nel 2010 è andata meglio degli altri paesi europei, che abbiamo superato bene la crisi, con un tono e una cadenza da macchina da scrivere caricata a molla, tutto di un fiato, allora al momento mi sono chiesto: "ma ci è o ci fa? Ma è possibile che pensi davvero quello che sta dicendo?"

Ieri sera pensavo che miss "Blackberry selvaggio" si fosse imparata a memoria tutta la lezioncina prima di sostituire un altro alto esponente economico del PDL (Sandro Bondi.... sigh!) all'ultimo momento.
Perché come dicevo, si può dissentire su tutto, ma non sui dati grezzi: l'Italia è andata benino i primi 6 mesi del 2010, malino il III trimestre e le previsioni dicono che chiuderemo il 2010 con un aumento del PIL intorno all'1%. Mentre Francia e Germania chiuderanno intorno al 3 e 4%.
Quindi come si fa a dire che siamo andati meglio degli altri paesi europei?

Ma evidentemente la mia ingenuità non ha limiti, il caso della Ravetto è ancora peggiore della famosa scena muta di Ottaviano del Turco quando Tremonti gli chiese a quanto erano tassati i BOT.
La Ravetto aveva in studio, seduti dietro di lei, alcuni assistenti che le passavano i messaggi via Blackberry con su scritto cosa doveva dire. Come testimonia questo sito....

Ma è possibile che non si abbia l'umiltà di ammettere che non possiamo essere tutti dei Vanoni o dei Prodi e dire che di economia non ne capiamo una mazza?
Possibile che a certe persone si consegni un palcoscenico sulla televisione pubblica per effettuare una vera e propria disinformazione di massa?

Possibile che certe persone non abbiano un minimo di senso del pudore?

L'azienda dove non si può licenziare

Qualche settimana fa ho sostenuto (vedi qui) che lo sciopero è un'arma a doppio taglio. Serve a far pressione sull'azienda, ma può anche spingerla a trasferire le produzioni altrove, perchè lo sciopero è un elemento di inefficienza e incertezza, inaccettabile quando si investono somme elevate in produzioni complesse.

Sostenevo che sarebbe meglio limitare il diritto di sciopero ai casi in cui influisce su contratti e diritti dei lavoratori e facevo notare che esistono paesi in cui si sciopera raramente, senza che questo riduca i poteri e diritti dei lavoratori. Anzi, i lavoratori stanno meglio dove si sciopera poco.

Ed ecco una conferma: Siemens decide di non licenziare nessuno senza l'accordo dei sindacati, come testimonia questo articolo del Corriere della Sera.

Ciò avviene in un paese dall'alto costo del lavoro, la Germania. Com'è possibile?

La sola risposta possibile è che i lavoratori hanno fatto concessioni importanti all'impresa, tali da rendere conveniente lo scambio.

20 settembre 2010

L'asino economico

Vorrei inaugurare una piccola rubrica: l'errore o forse orrore economico. In tv o sui giornali appaiono notizie incredibili e vale la pena commentarle per spiegare come funzionano davvero le cose economiche.

Per cui se qualcuno sente o legge qualcosa che gli appare errato, me lo comunichi: fotogian@yahoo.it

Stasera ho sentito due piccoli orrori.

Primo, stasera sento il tg3 che intervista Alemanno, sindaco di Roma. Cerca di ragionare come farebbe un leghista e dice: Roma riceve dallo Stato poco più di un miliardo di euro mentre ne paga oltre 30 in imposte varie.

Cavoli! dico io.

E' possibile? Certo che no. Lo Stato versa ai comuni i soldi con cui pagano il riscaldamento delle scuole, ma non gli insegnanti. Il comune non paga i tribunali, la polizia, l'esercito (e a Roma ci sono parecchie caserme e dipendenti delle forze armate), i maestri o i professori universitari e neppure la sanità, pagata dalla Regione con soldi versati dallo Stato.

Quindi che senso ha dire che Roma paga imposte pari a 30 volte i soldi che il comune riceve?

Secondo. Passano un paio di ore e Gad Lerner si occupa di Marchionne. Una troupe fa notare a Marchionne che guadagna 435 volte quel che guadagna un operaio cassintegrato di Pomigliano. E lui, parlando con altri giornalisti, spiega che lui lavora tanto ed è arrivato in ufficio alle 6.30 senza pensare ai propri diritti.

Appare incredibile che Marchionne risponda in questo modo. Può un supermanager del suo calibro pensare che il suo superstipendio si giustifichi col fatto che lavora come un matto?

Basterebbe dire: trovate un altro, magari migliore, magari che guadagna meno.

L'istruzione costa?


Si, l'istruzione decisamente costa cara ad un paese. Ma in prospettiva rende più di quello che costa a chi ha il coraggio per investirci.

In questo periodo di inizio scuola a fare scalpore e ad occupare le prime pagine dei giornali sono i quasi 200.000 precari della scuola che non vedranno confermati gli incarichi, perché ritenuti esuberanti. Ma i mali della scuola italiana purtroppo non si fermano qui. E i risultati si vedono con il tempo!

L'istruzione primaria pubblica italiana, con in testa l'Emilia Romagna negli anni '90, è servita da modello in tutto il mondo. Non per niente era considerata la migliore del mondo: più insegnanti, più progetti, tempo prolungato, ecc. ecc.

Ora che fine farà tutto cio?

Riporto solo un paio di dati: il numero medio degli alunni per classe è aumentato a dismisura, e a volte sfiora i 30 e, dall'altra parte in Europa siamo penultimi come spesa per la scuola.

Aggiungo un altro dato: da uno studio recente del ministero dell'istruzione il 30% degli edifici scolastici non è a norma con le leggi antisismiche e quasi la metà del totale andrebbe ristrutturata.

Quindi si può tranquillamente affermare che per la scuola non è vero che si spende tantissimo. Ma probabilmente è vero che si spende male.

Buona parte del problema è dato dall'eterno intreccio di competenze: scuole di proprietà dei comuni, ma insegnanti pagati dallo stato. Ma a mio parere l'altra parte del problema è la chiara volontà politica di spingere sulle scuole private.

Il disegno è chiaro: si tolgono soldi alle scuole pubbliche provocando un peggioramento del servizio. Il commento del genitore è: "perché mio figlio dovrebbe andare in una scuola piena di immigrati che nemmeno parlano l'italiano, portandosi dietro pure la carta igienica? Allora lo mando alla scuola privata! Pago, ma almeno li gli immigrati non ci sono (perché costa....)".

Quando questo meccanismo è consolidato, allora si possiede la base elettorale per dare maggiorni contributi alle scuole private, togliendoli ancora alla scuola pubblica ed il gioco è fatto!

Ma conviene ad uno stato in prospettiva un simile sistema?

Il problema di fondo è dato dalla divaricazione tra i redditi della nostra società, dove sta scomparendo la classe media e ci stiamo dividendo in ricchi e poveri. I ricchi vorranno e potranno istruire i loro figli in maniera sempre migliore e ai poveri rimarrà una scuola pubblica disastrata (ci sono già interessanti esperienze in merito negli USA).

Parafrasando il titolo di un famoso film, verrebbe da dire: "non è un paese per giovani"

Il capitale della Banca d'Italia

Click per scaricare la piccola inchiesta in formato pdf.


17 settembre 2010

Il signoraggista sbugiardato on line

Un buffo signore (chiamato Marco Saba) con idee poco democratiche e nessuna conoscenza dell'economia, qualche tempo fa ha scoperto il curriculum di un mio omonimo e l'ha accusato di essere me, senza rendersi conto del grossolano errore.

Avevo segnalato il caso qui.

Era strano il caso di un esperto di filosofia che scrive di economia (come faccio io) ma non cita mai un filosofo. Ma la stranezza non ha stimolato alcuna cellula cerebrale del buffo signore, con cui avevo protestato come aveva fatto anche il mio omonimo.

O forse il signore l'ha capito e, seguendo le sue simpatie politiche, ha detto: "io me ne frego" ?

Dopo un pò se ne sono accorti i lettori del blog del buffo signore.





Il buffo signore ha allora tolto il curriculum del mio omonimo e anche i commenti che dimostrano che non è tanto intelligente (non è poi tanto difficile sospettare che uno che scrive di economia e non cita mai un filosofo non può essere un docente di filosofia) e anche la sua mala fede.

Infatti il buffo signore pur avendo ignorato le mie proteste ha scritto che non mi sono lamentato.

Oltre a non essere vero, il buffo signore non ha capito che al massimo mi diverto a leggere le sue castronerie. E poi non sono stato certo infangato io da chi mi ha confuso con un altro.

Lui può anche cancellare gli imbarazzanti contenuti del suo blog, ma le copie cache restano a dimostrare chi è (vedi qui), rendendolo ulteriormente ridicolo (e poi sarebbero i banchieri che fanno "cover up"?). In caso venga cancellata la cache di google, qui c'è un freeze della pagina.

15 settembre 2010

Cosa si sa davvero del capitale della Banca d'Italia - Seconda parte

Cosa dice De Mattia nel suo libro?

La Banca d'Italia nasce nel 1893 unendo diverse banche con diritto di emettere moneta presenti nel momento dell'Unità d'Italia. E' una società per azioni e le sue 300.000 azioni finiscono nelle mani di azionisti privati, in maggioranza liguri e piemontesi.

Le azioni sono quotate in molte borse e il loro prezzo oscilla troppo. Così nel 1926 la Banca d'Italia decide un aumento di capitale. Si emettono 200.000 azioni, metà delle quali riservate alle casse di risparmio, che si impegnano a non rivenderle per almeno 10 anni.

Le casse di risparmio si ripartiscono le azioni in base ai depositi raccolti in quel momento: chi gestisce più capitali ha più azioni. Sono più di 100 le casse che aderiscono all'aumento di capitale e i nomi si trovano nella tabella 20 del tomo II del libro di De Mattia, divise per aree geografiche.

La suddivisione regionale risponde a una esigenza di attenzione ai territori richiesta alla Banca, che nomina il Consiglio Superiore con diverse elezioni presso le sedi regionali.

Nel 1936 cambia tutto. La Banca d'Italia diventa un istituto di diritto pubblico. Non è più società per azioni e scompaiono gli azionisti privati. Tutti gli azionisti ricevono 1.300 lire per ogni azione posseduta. La sottoscrizione di quote da parte dei "partecipanti" è sottoposta ad alcuni vincoli: si può trattare solo di banche, assicurazioni e istituti di previdenza e il trasferimento delle quote è vincolato al consenso della Banca.

Per suddividere le quote si crea un apposito consorzio a cui partecipano i rappresentanti della Banca, delle banche e delle assicurazioni. Il consorzio decide che le casse di risparmio, che nel frattempo hanno comprato altre azioni (circa 42.000) nella speranza di contare di più nel rapporto con la Banca d'Italia (1), investiranno nel capitale della Banca la somma derivante dalla rimborso delle azioni.

In pratica 1300 lire per oltre 140.000 azioni (100.000 sottoscritte nel 1926 più quelle acquistate in seguito) si trasformano in circa 185 milioni di lire, reinvestiti, da 88 casse in 185.056 quote (su 300.000 totali).

In pratica la maggioranza del capitale è in mano alle casse di risparmio, che tuttavia decidono poco o, meglio, nulla, come ha raccontato lo storico Luigi De Rosa (2).

Le altre azioni sono distribuite tra 11 banche e 9 assicurazioni più l'INPS che da sola ottiene 15.000 quote.

Tutto ciòè raccontato da De Mattia nel libro del 1977, ma era noto già nel 1937.

Basta procurarsi l'Adunanza generale ordinaria dei partecipanti di Banca d'Italia relativo al 1936, l'equivalente dell'epoca della Relazione annuale del governatore per leggere a pagina 71 che

"Al 31 dicembre 1936, gli enti e istituti possessori delle 300 mila quote di partecipazione al capitale della Banca erano suddivisi nelle seguenti categorie:
Casse di risparmio, n.88 per quote 185.056
Istituti di credito e banche di diritto pubblico, n.11 per quote 68.444
Istituti di previdenza, n.1 per quote 15.000
Istituti di assicurazione n. 9 per quote 31.500"

De Mattia offre dati più particolareggiati, perché -si può supporre- ha avuto a disposizione documenti presenti solo nell'archivio romano della Banca. E' così possibile conoscere la distribuzione delle quote per per categorie di soggetti proprietari e in base alla distribuzione territoriale (tabella 21, tomo II), distribuzione utile a capire quali banche possedessero quote. Ad esempio esiste un solo istituto di diritto pubblico toscano: può solo essere il Monte dei Paschi di Siena; un solo istituto in Piemonte, che possiede 2500 quote: è l'Istituto Bancario San Paolo.

Infine De Mattia racconta i pochi passaggi di proprietà delle quote dal 1937 in poi. In pratica il capitale della Banca è rimasto sempre nelle stesse mani. Fino al 1992, aggiungo io, quando arriva la legge Amato-Ciampi che dà il via al valzer delle fusioni e acquisizioni bancarie e, con esse, all'aggregazione delle quote del capitale della Banca d'Italia, possedute oggi per oltre il 42% dal gruppo Intesa-San Paolo.

C'eravamo chiesti perchè solo nel 2003 sono saltate fuori notizie sui partecipanti al capitale. I pochi passaggi di quote da una banca all'altra sono una buona ragione: un tema interessa se cambia qualcosa. La distribuzione del capitale della Banca d'Italia è rimasto praticamente invariato per decenni e a pochi è venuta la voglia di occuparsi dell'argomento.

vai alla prima parte dell'articolo
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(1) De Rosa, Storia delle casse di risparmio e della loro associazione, Laterza, pag. 306 e seguenti

(2) De Rosa racconta che il presidente dell'associazione delle casse (ACRI), De Capitani, riteneva di poter contare di più nel Consiglio Superiore della Banca d'Italia e per questo motivo chiese alle casse di acquistare azioni. Aveva ricevuto assicurazioni in tal senso dal governatore Azzolini.

Ma alla fine nel Consiglio Superiore non entra alcun rappresentante delle Casse, che pure avevano oltre il 60% delle quote, a dimostrazione di quanto contino davvero i partecipanti nella Banca.

Nello statuto si stabilisce infatti l'incompatibilità per gli amministratori delle Casse di Risparmio, delle Banche e degli Isituti di diritto pubblico a far parte del Consiglio Superiore della Banca d'Italia.

Le Casse protestano ma si sentono rispondere che gli istituti vigilati non potevano diventare organi vigilanti e che tale decisione era stata presa da Mussolini (De Rosa, pagg. 313-314)

Cosa si sa davvero del capitale della Banca d'Italia - Prima parte

Una leggenda internettiana racconta che dei partecipanti al capitale della Banca d'Italia si sapeva poco o nulla prima che, nel 2003, Mediobanca pubblicasse l'elenco di quasi tutti i partecipanti al capitale (vedi qui).

La questione mi ha incuriosito. Ho notato che in molti dicono l'elenco dei partecipanti era "riservato". Vuol dire che i dati non sono segreti, ma neppure resi pubblici. Chi li ha, li tiene in un cassetto mostrandoli solo a chi ha diritto di conoscere tali dati.

A dire che l'elenco era riservato è stato il settimanale religioso Famiglia Cristiana in un trafiletto nel primo numero del 2004 (vedi qui). Gli altri hanno preso per buono il trafiletto e hanno diffuso il concetto.

E qui mi viene in mente la bufala secondo cui Kennedy è stato ucciso per questioni legate al signoraggio. Se si cerca la fonte si scopre che si tratta di un altro periodico religioso, citato nel libro di Auriti intitolato Il paese dell'utopia, ed edito da una diocesi veneta.

Insomma, che si tratti dell'uccisione di Kennedy o dei partecipanti al capitale della Banca d'Italia, la fonte è sempre un periodico religioso.

La tesi dell'elenco riservato appare allora debole. Ma è vero che prima dei dati di Mediobanca non si sapeva nulla dei partecipanti al capitale della Banca d'Italia?

La dottoressa Scatamacchia che ha scritto Azioni e azionisti. Il lungo Ottocento della Banca d’Italia, mi ha fatto notare che la Banca è diventata istituto di diritto pubblico nel 1936. La legge del 1936 (articoli 20 e 21) dice che le quote della Banca sono riservate a banche, assicurazioni e istituti di previdenza.

Perciò sono andato a cercare le quote del capitale di Bankitalia nei bilanci disponibili on line delle banche relativi ad anni precedenti lo studio di Mediobanca. Con un pò di pazienza si trovano bilanci degli anni attorno al 2000 e le quote possedute dalle singole banche.

Mediobanca ha letto i bilanci prendendo nota delle quote del capitale di Bankitalia possedute da banche e assicurazioni. Chiunque avrebbe potuto fare lo stesso. Bastava disporre dei bilanci delle banche e di pazienza.

Se le quote erano indicate nei bilanci bancari prima dello studio di Mediobanca si può escludere che i dati prima dello studio fossero riservati: erano disponibili e chiunque avrebbe potuto ricostruire l'elenco dei partecipanti, se solo avesse voluto.

A questo punto mi sono chiesto se qualcuno si fosse mai chiesto chi fossero i partecipanti al capitale della Banca.

Alla ricerca di qualche fonte, ho chiesto aiuto al professor Gianni Toniolo, che mi ha consigliato di cercare i libri di Renato De Mattia, scoprendo che nel 1977 ha scritto Storia del capitale della Banca d'Italia e degli istituti predecessori, edito dalla Banca d'Italia.

E' curioso che la Banca, che secondo Famiglia Cristiana avrebbe nascosto per anni i dati, abbia invece pubblicato oltre 30 anni fa un libro, disponibile in decine di biblioteche pubbliche in tutta Italia, in cui si affronta l'argomento.
E ancora più curioso è ciò che si può leggere nella prefazione: il primo ad essersi occupato -con l'assenso del governatore Azzolini- del tema del capitale della Banca è stato, nel 1938, Paolo Baffi, che diventerà a sua volta governatore.

Lo studio di Baffi, interrotto a causa della guerra, è stato poi ripreso, idealmente, da De Mattia a metà degli anni '70 e sfociato in un volumino libro edito dalla Banca d'Italia.

Possiamo quindi escludere che Banca d'Italia o i suoi massimi dirigenti abbiano mai voluto nascondere notizie relative al capitale.

Fine prima parte



13 settembre 2010

L'industria del sud nell'Ottocento

Com'era l'industria meridionale prima dell'unità d'Italia?

Secondo lo storico Valerio Castronovo (1) fin dalla prima metà dell'ottocento l'economia meridionale mostrava sintomi di ristagno e debolezza.

L'agricoltura era più arretrata rispetto a quella del nord dove, soprattutto nella val padana, gli imprenditori si erano impegnati in opere di bonifica e sistemazione idraulica, avevano trasformato i contratti di affitto delle terre e fatto ricorso al credito.

Nel sud ciò non è avvenuto o è avvenuto in misura minore, impedendo l'accumulazione di capitali da destinare a ulteriori miglioramenti fondiari e limitando la crescita dei redditi.

Il contesto economico del sud è stato dunque meno favorevole alla nascita e allo sviluppo di un'industria competitiva e ha favorito comportamenti assai diversi da quelli attesi da imprese che operano in un mercato libero.

Diamo la parola a Castronovo: mentre nelle campagne i grandi proprietari fondavano la loro egemonia sulla riscossione di rendite di carattere fiscale o su prestazioni lavorative di matrice feudale, a Napoli e in altri centri urbani appaltatori, grossi mercanti e banchieri, inseriti nell'[..]amministrazione finanziaria dello Stato, cercavano di far fruttare il loro capitale soltanto per conservare i giro d'affari legato a particolari franchigie, a diritti di pedaggio stradale [...] all'esclusiva di determinati lavori pubblici. Il commercio e le attività terziarie finivano così per assorbire le limitate eccedenze prodotte dall'agricoltura per danneggiare lo sviluppo di valide iniziative imprenditoriali

Non mancano le attività speculative. Diversi tra gli imprenditori dell'industria cotoniera, favorita dal blocco delle esportazioni inglesi e dalle coltivazioni di cotone a Castellammare, sono svizzeri, attirati dal basso costo del lavoro e dalla possibilità di ottenere dazi dai Borboni.

Il contesto economico non è favorevole e le iniziative degli svizzeri non fanno da battistrada a una più ampia diffusione dell'industria tessile. I privilegi e il monopolio degli svizzeri, che usano macchinari di provenienza straniera, non stimolano gli investimenti nel tessile e sono modesti i rapporti con l'economia locale.

Anche le altre imprese hanno il fiato corto: le principali cartiere e concerie di Napoli chiudono nonostante godessero di sovvenzioni statali e, più in generale, secondo Castronovo, l'industria meccanica, cresciuta in gran parte non tanto sulla base di investimenti privati, quanto piuttosto sulla protezione e sui contratti sottoscritti dal governo.

E mentre il Liguria, Piemonte e Lombardia il protezionismo doganale non sorreggeva più da tempo le fortune di officine meccaniche e di costruzioni marittime, a Napoli l'industria meccanica continuava a vivere esclusivamente grazie ai pesanti dazi stabiliti sui prodotti esteri.

Il quadro di un'industria debole offerto da Castronovo riguarda infine le ferrovie: il valore reale delle ferrovie napoletane entrate in servizio era quantomeno discutibile.

Volendo generalizzare, è possibile dire che secondo Castronovo al sud ci sono state condizioni meno favorevoli alla nascita e allo sviluppo dell'industria, dal quale è dipeso l'aumento della ricchezza prodotta.

Nel prossimo post sull'argomento spiegherò come certi ritardi tendono a perpetuarsi e quali sono -secondo me- i punti deboli degli aiuti statali al sud.



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V.Castronovo, L'industria italiana dall'ottocento a oggi, Mondadori
, pagg. 19-24

11 settembre 2010

La confusione di Grillo

Beppe Grillo parla di Genova, città che ha inventato il debito, i bot e i cct.

Ma come si fa a inventare il debito? Forse nessuno si è indebitato prima che i genovesi inventassero il debito?

Ovviamente l'idea che i genovesi abbiano inventato il debito è errata e senza senso.

Casomai hanno inventato i titoli del debito pubblico, vale a dire uno strumento per gestire il debito, in quel caso della repubblica genovese.

09 settembre 2010

Quando si arrestava il governatore della Banca d'Italia...


L'età deve aver fatto perdere a Giulio Andreotti qualche freno inibitore. Così ha detto che l'avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso da un sicario della mafia mandato dal bancarottiere Michele Sindona, se la stava cercando. E' morto per quattro proiettili di un sicario mafioso assoldato da Sindona, che Andreotti considerava il "salvatore della lira" e la mafia a un certo punto ha pensato fosse solo uno scomodo complice da eliminare con un caffè corretto al cianuro.

Michele Sindona è stato un avvocato siciliano col pallino della finanza e capitali mafiosi a disposizione. Ha tentato operazioni finanziarie spericolate, e ha fallito, ma soprattutto ha usato i soldi dei correntisti come se fossero soldi della banca.

La sua Banca Privata è finita in mano all'avvocato Ambrosoli, il curatore fallimentare scelto dal Tribunale. Ambrosoli ricostruisce le "intricate combinazioni finanziarie" (1) della banca e si oppone ai piani di salvataggio organizzati anche da Andreotti, allora presidente del consiglio, per salvare la banca.

Ambrosoli si oppone ai salvataggi che avrebbero trasferito le perdite della Banca Privata al Banco di Roma, attraverso una acquisizione della banca di Sindona a opera della banca romana i cui dirigenti erano scelti dal potere politico e, in particolare da Andreotti, e per questo viene ucciso.

Prima che entri in azione un killer della mafia, che nel fallimento delle attività mafiose stava perdendo grossi capitali, succede un fatto quasi altrettanto inquietante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli: il governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi finisce agli arresti domiciliari, mentre il direttore generale Mario Sarcinelli è arrestato.

L'inchiesta, destinata a finire nel nulla, prende le mosse da un magistrato molto vicino ad Andreotti, Claudio Vitalone, come ricorda Eugenio Scalfari in questo articolo.

Come Ambrosoli, anche la Banca d'Italia era contraria a un'operazione di acquisizione di una banca a opera di un'altra per salvare la banca che ricorda molto l'operazione di acquisizione della banca leghista Credieuronord a opera della Banca di Lodi di Fiorani su suggerimento del governatore Fazio.

Sindona aveva un terzo avversario: il leader repubblicano Ugo La Malfa. La Malfa prima si oppone a un aumento di capitale della Finambro, voluta da Sindona per sistemare, almeno per un pò, qualche guaio, perchè avrebbe messo in pericolo i risparmi di migliaia di cittadini, e poi usa il suo potere di ministro economico per bloccare con un escamotage l'acquisizione della banca di Sindona a opera del Banco di Roma, che avrebbe fatto pagare al risparmiatore i costi dei disastri dell'avvocato siciliano.

La Malfa non è stato ucciso o arrestato, ma paga ancora oggi con l'oblio la colpa di aver cercato di occuparsi di economia in modo serio. Tra le sue colpe c'è quella, gravissima in Italia, di aver cercato di realizzare una riforma fiscale poco gradita a chi le imposte non le vuole pagare, come ricorda Eugenio Scalfari in quest'altro articolo del 1993 di cui è bene riportare un brano (mi scuso per la lunghezza del post) che spiega bene cosa si nasconde dietro a tante vicende politiche all'apparenza incomprensibili, o anche solo all'ammirazione di molti per personaggi discussi e discutibili, come Giulio Andreotti.

l' uomo più odiato in quegli anni fu Ezio Vanoni, cioè uno dei capi storici della Democrazia cristiana. Vanoni era un uomo assai mite, molto dolce. Fu per lunghi anni ministro delle Finanze e del Bilancio.

Non si arricchì di una lira, condusse vita specchiata, ebbe vivissimo il senso dello Stato e del pubblico servizio. Morì d' infarto mentre alla Camera esponeva un programma finanziario di giustizia fiscale e di austerità. Nonostante queste qualità che avrebbero dovuto attirargli la stima e il rispetto di tutti, fu passionalmente e visceralmente odiato.

La sua colpa era stata di aver reso obbligatoria la dichiarazione dei redditi, il famigerato modulo Vanoni. La destra italiana infatti, al di là delle distinzioni ideologiche, culturali, estetiche, snobistiche, si è sempre trovata unita da un robusto sentimento unificante: non ha mai voluto pagare le imposte e infatti - finché ha potuto - non le ha pagate. Questo robusto sentimento dura tuttora e lo vediamo.

Un altro uomo odiatissimo dalla destra è stato Ugo La Malfa e insieme con lui Bruno Visentini. Oggi è facile dir bene di La Malfa: è morto da un pezzo. Ma finché è stato vivo la musica era diversa.

Se pronunciavate il suo nome non dico in ambienti missini, ma tra quella che si definisce la buona borghesia, vedevate subito facce lunghe e occhiate rancorose. Una volta uno di questi buoni borghesi, pensando di far dello spirito, mi disse: "Quando sento il nome di La Malfa metto mano alla pistola".

Infatti il suo Partito repubblicano fu sempre lasciato al palo. Aveva le carte in perfetta regola: liberali in politica, fautori ad oltranza del libero mercato, innamorati dell' America e degli americani, gente perbene, gente colta, gente moderna, gente competente. Quattro gatti erano e quattro gatti sono rimasti. La destra vera, la grande destra italiana li ha sempre odiati.

Prima di morire La Malfa osò perfino proclamare che Berlinguer ormai, avendo rotto con Mosca, era entrato di pieno diritto nel sistema democratico e poteva legittimamente aspirare a governare. La vera destra aveva dunque capito bene e fin dall' inizio che La Malfa era un bolscevico. Non era stato anche lui a favore d' una riforma fiscale seria, non aveva combattuto i monopoli, non aveva tentato di riformare il sistema commerciale e di rompere le corporazioni, non aveva voluto (insieme a Vanoni) la riforma agraria, non aveva patrocinato (insieme a Visentini) la nominatività dei titoli e tasse eque sul lavoro autonomo?


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(1) Razza padrona, Scalfari-Turani, Feltrinelli 1974, pag. 390

06 settembre 2010

Il federalismo che ci aspetta


Si parla tanto di federalismo fiscale e ormai non si parla più del “se”, ma solo del quando sarà applicato.
Purtroppo la maggior parte di chi ne parla o tende a glissare sugli effetti, oppure tende a concentrarsi sulle questioni inerenti all’unità nazionale, dimenticando che gli effetti potrebbero essere dirompenti sull’economia delle regioni.

Concentriamoci ora ad esaminare gli aspetti fiscali e finanziari.

La struttura fiscale italiana nasce, come scritto nella costituzione, come una struttura regionale, quindi pesantemente decentrata. Purtroppo la tardiva istituzione delle regioni (operative dagli anni ’70) e dall’ancor più tardivo processo di decentramento di riscossione delle imposte locali e delle competenze, ha reso lo stato italiano fortemente centralista dal dopoguerra a oggi, ad eccezione delle regioni a statuto speciale, per le quali vale un discorso a parte.

Le regioni italiane sono divise a seconda dello statuto, ordinario o speciale.

Le regioni a statuto speciale partecipano (cioè trattengono) una quota più o meno consistente dei tributi statali. A titolo di esempio il Trentino-Alto adige, trattiene per sé il 90% di Ires, Ire, una quota variabile dal 40 al 70% dell’IVA, il 90% delle imposte di registro, bollo, concessioni governative, accise e simili. Poi ci sono le addizionali che vanno rispettivamente a regione e comuni.

Nelle regioni a statuto ordinario invece i tributi erariali vanno allo stato che poi provvede a ridistribuirli. E qui iniziano le note dolenti. Infatti i tributi non vengono ridistribuiti in proporzione a quanto pagato, ma seguono altri criteri in modo da favorire le regioni più povere.
Le regioni quindi sono divise in tre fasce: quelle che versano moltissimo, quelle che sono sostanzialmente in pareggio e quelle che ricevono moltissimo. Le tre regioni contributrici sono Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Poi c’è un drappello di regioni più o meno in equilibrio (Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Lazio, per citarne solo alcune) ed infine alcune regioni che prendono moltissimo: Campania, Calabria, Puglia per citare solo le più grandi.

E non si tratta di numeri piccoli: la Lombardia da sola vale il 25% del PIL italiano. Le tre regioni citate sopra valgono insieme circa il 46% del PIL italiano.

E’ ovvio che il federalismo ha come obiettivo, anche se nessuno lo dice apertamente, di correggere questa situazione. Quindi la riforma non sarà a costo zero, ma ci sarà chi ci guadagnerà e chi ci perderà. Ed è facile intuire chi saranno questi soggetti.

03 settembre 2010

Le mucche fantasma ovvero le quote latte

I molti che accusano l'Europa di essere un'Europa di banchieri forse non sanno che da sempre l'interesse primario dell'Unione Europea/Comunità Europea è l'agricoltura.

Perchè almeno la metà del bilancio dell'Unione finisce all'agricoltura che, in fondo, pesa molto poco nel PIL di un paese?

I prodotti del settore agricolo hanno un prezzo che scende quando aumenta la quantità prodotta e venduta, mentre se il prezzo scende, non è detto che si venda di più. Se il prezzo delle pesche diminuisce, non consumiamo per forza più pesche e, se lo facciamo, riduciamo il consumo di albicocche.
Ma se diminuisce il consumo di albicocche anche il prezzo scende, facendo risalire il consumo di albicocche a scapito del consumo di pesche.

Se il prezzo diminuisce, non è detto che anche i costi possano diminuire. Le mucche mangiano la stessa quantità di mangimi e se il prezzo della carne diminuisce troppo, chi ci va di mezzo è l'allevatore, che non copre i costi.

Per questo motivo le autorità pubbliche cercano di sostenere i prezzi di certi beni agricoli.

Tra i mezzi inventati dalla Comunità Europea (ora Unione Europea) per non far scendere troppo i prezzi ci sono le quote latte, da oltre un quarto di secolo protagoniste di mille polemiche in Italia.

Di che si tratta esattamente? Qual è la sostanza del problema?

Nei primi anni Ottanta, la Comunità Europea capisce che gli aumenti della produzione rischiano di far cadere i prezzi. Si decide di stabilire le quantità di latte che ciascuno stato e quindi ogni produttore avrebbe potuto vendere sul mercato. Per l'Italia si decide che la quantità di riferimento è la produzione del 1983.

Il produttore di latte si vede assegnare delle "quote latte" in base alle quantità prodotte. Ciò implica che un aumento di produzione è possibile solo acquisendo "diritti" ovvero quote latte da altri produttori e che, in caso di superamento dei limiti, scatti una multa, definita prelievo addizionale, capace di scoraggiare la sovrapproduzione di latte.

Sono state le multe a creare problemi che durano da un quarto di secolo. Chi è stato multato ha fatto il possibile per non pagare, forte di appoggi politici. Per anni i governi hanno pagato le multe innescando un lungo contenzioso con l'Europa. Lo scopo era conquistare fedeltà politica e non mettere in crisi le aziende, anche a costo di creare una serie di ingiustizie: infatti alcuni hanno comprato quote latte per poter produrre più latte, altri hanno rispettato i limiti consentiti, altri ancora hanno pagato le multe.

Tutti concordano nel dire che l'Italia produce troppo poco latte rispetto al latte consumato ogni giorno dagli italiani. Nel 1984 è stata assegnata all'Italia una quantità di latte troppo bassa.

Di chi è la colpa?

La vera causa è l'evasione fiscale. Nel corso del tempo i produttori di latte hanno cercato di non far sapere quanto producessero, per evadere le imposte e incassare contributi statali. Vendevano il latte in nero, ne producevano più di quanto dichiarato. Il governo li lasciava fare e preferiva non indagare troppo per non perdere consenso.

Così quando la Comunità Europea ha chiesto all'Italia quanto latte producessero le mucche italiane, il governo ha fornito dati molto inferiori al vero. Molte mucche producevano latte, ma ufficialmente non esistevano.

L'Europa ha assegnato le quote in base ai dati offerti dal governo di allora e questo ha generato un'infinità di problemi, generati da quote troppo basse rispetto alla produzione effettiva. Problemi ancora attuali per il forte interesse di alcune forze politiche a difendere l'interesse delle mucche fantasma. O meglio, dei loro proprietari.

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