I giornali hanno scoperto in questi giorni uno studio del 2012 di due economisti italiani, Proto e Rustichini, secondo i quali la felicità aumenta con il reddito ma soltanto fino a un certo punto. Poi, superato un livello di reddito, superato il quale la felicità tende a diminuire all'aumentare del reddito.
Si tratta in realtà, come spiegano gli autori, di una vecchia idea, proposta da Easterlin che ha osservato per primo, 40 anni fa, una situazione paradossale: un incremento del PIL procapite non determina un aumento della felicità.
Altri hanno osservato che dove il reddito è troppo basso, la felicità di una collettività è bassa e sale poco con il reddito, perchè l'incremento di reddito serve a soddisfare soltanto bisogni primari, mentre aumenta se il reddito è basso ma non troppo. In quel caso ci si può permettere l'acquisto di beni che migliorano la vita e quindi rendono felici.
Invece quando il reddito supera un certo livello, la felicità tende a non crescere più e anzi diminuisce.
La ragione è che si modificano gli obiettivi e i desideri. Se il povero aspira ad avere una casa più confortevole, cibo migliore, vestiti ecc., chi è ricco aspira a possedere una villa invece di un appartamento, vuole un'auto di lusso invece di un'utilitaria, e così via.
Ma aspirare a possedere beni o acquistare servizi più costosi non rende le persone più felici, anzi scaturisce l'effetto opposto. Questo è il risultato a cui sono giunti i due economisti italiani, che hanno individuato l'intervallo di reddito oltre il quale il benessere non aumenta all'aumentare del reddito.
Ancora una volta si giunge alla conclusione che in una società con minori disuguaglianze si vive meglio. La qualità della vita diminuisce infatti dove è maggiore l'ambizione di possedere i beni, e quindi diminuisce con il grado di disuguaglianza.
30 novembre 2013
28 novembre 2013
Economia e ideologia
Qualche tempo fa s'è scoperto che Oscar Giannino non solo non ha mai ottenuto un master a Chicago, ma neppure s'era laureato. Eppure molti lo consideravano un giornalista economico credibile e per questo lo invitavano a intervenire in televisione, a partecipare ai convegni, a tenere rubriche radiofoniche e a dirigere periodici economici.
Com'è possibile? Semplice: Giannino diceva quello che molti volevano sentire. Gli è andata bene fino a quando è entrato in politica e a qualcuno è venuta voglia di controllare se fosse vero quello che diceva di se stesso.
Il mondo degli economisti è pieno di persone che propagandano idee ideologiche al punto che un mese fa la direzione della commissione europea guidata da Olli Rehn ha prima pubblicato e poi rimosso uno studio molto critico verso l'austerità.
Jan in' t Veld ha creato un modello econometrico con il quale ha misurato gli effetti delle politiche di austerità, concludendo che in Italia uno sforzo di consolidamento dei conti pubblici pari a quasi il 4% del PIL ha prodotto un calo del PIL di quasi il 5%.
Analoghe le percentuali in Francia (3,68% di consolidamento, 4,78% di calo), Germania (2,6% e 3,9%) e Spagna (4,45% e 5,39%), con conseguenze negative per disoccupazione (+3% in Italia) consumi e investimenti (-4,37% e -4,29% rispettivamente, sempre in Italia).
Dati che non sono piaciuti alla Commissione o almeno a qualche membro. Così lo studio è sparito, per un pò di tempo, dal sito della direzione affari economici e monetari. Forse qualcuno ha pensato che non sarebbe piaciuto ai paesi fautori dell'austerità.
Poi di fronte al rischio di figuraccia, il paper è tornato on line con l'avvertenza che rappresenta il punto di vista dell'autore.
Quello dei politici invece è ben rappresentato da qualche sedicente economista che dice quello che i politici si vogliono sentir dire.
Com'è possibile? Semplice: Giannino diceva quello che molti volevano sentire. Gli è andata bene fino a quando è entrato in politica e a qualcuno è venuta voglia di controllare se fosse vero quello che diceva di se stesso.
Il mondo degli economisti è pieno di persone che propagandano idee ideologiche al punto che un mese fa la direzione della commissione europea guidata da Olli Rehn ha prima pubblicato e poi rimosso uno studio molto critico verso l'austerità.
Jan in' t Veld ha creato un modello econometrico con il quale ha misurato gli effetti delle politiche di austerità, concludendo che in Italia uno sforzo di consolidamento dei conti pubblici pari a quasi il 4% del PIL ha prodotto un calo del PIL di quasi il 5%.
Analoghe le percentuali in Francia (3,68% di consolidamento, 4,78% di calo), Germania (2,6% e 3,9%) e Spagna (4,45% e 5,39%), con conseguenze negative per disoccupazione (+3% in Italia) consumi e investimenti (-4,37% e -4,29% rispettivamente, sempre in Italia).
Dati che non sono piaciuti alla Commissione o almeno a qualche membro. Così lo studio è sparito, per un pò di tempo, dal sito della direzione affari economici e monetari. Forse qualcuno ha pensato che non sarebbe piaciuto ai paesi fautori dell'austerità.
Poi di fronte al rischio di figuraccia, il paper è tornato on line con l'avvertenza che rappresenta il punto di vista dell'autore.
Quello dei politici invece è ben rappresentato da qualche sedicente economista che dice quello che i politici si vogliono sentir dire.
26 novembre 2013
Questo stadio non s'ha da fare
Un piccolo contributo per far crescere l'economia potrebbe venire dallo sport.
Gli italiani fanno i conti con strutture sportive vecchie e inospitali. Gli stadi per il calcio sovente non sono altro che tribune su cui hanno montato seggiolini di plastica, il campo spesso è lontano, non ci sono servizi che invitino a frequentare lo stadio al di fuori delle poche ore in cui si gioca a pallone.
Sono pochissimi gli stadi "moderni" che dispongono di bar, ristoranti, musei, negozi. Tra i pochi c'è lo stadio della Juventus, che ha sostituito il vecchio Stadio delle Alpi. Se questo era spesso vuoto, il nuovo stadio fa quasi sempre il tutto esaurito, perchè coinvolge i tifosi che possono pranzare prima della partita o visitare il museo.
A fianco dello stadio sorge un centro commerciale con decine di negozi grazie ai quali la Juventus ha finanziato la costruzione dell'impianto sportivo, cedendo a gli spazi commerciali a Conad.
Un modello da replicare, deve aver pensato il governo, che ha inserito nella legge di stabilità una norma che dice più o meno così: chi progetta un impianto sportivo avrà un percorso burocratico privilegiato per accorciare i tempi tra la presentazione del progetto e la fine dei lavori di costruzione dello stadio (la Juventus ha impiegato 8 anni per costruire lo stadio, l'Udinese 9 anni), e gli diamo la possibilità di costruire altri immobili, utili per finanziare la struttura sportiva.
Apriti cielo. In molti si sono indignati per la futura possibile colata di cemento e il governo ha dovuto ritirare la norma, che certamente non farà parte della legge di stabilità, come ha spiegato Letta.
Risultato? Per adesso niente legge, niente stadi, nessun aumento degli spettatori e delle imposte che lo Stato incassa. Il mondo del calcio torna a aspettare i soldi pubblici per poter costruire impianti e iniziare a far crescere i ricavi. Soldi attesi da anni e mai stanziati...
Gli italiani fanno i conti con strutture sportive vecchie e inospitali. Gli stadi per il calcio sovente non sono altro che tribune su cui hanno montato seggiolini di plastica, il campo spesso è lontano, non ci sono servizi che invitino a frequentare lo stadio al di fuori delle poche ore in cui si gioca a pallone.
Sono pochissimi gli stadi "moderni" che dispongono di bar, ristoranti, musei, negozi. Tra i pochi c'è lo stadio della Juventus, che ha sostituito il vecchio Stadio delle Alpi. Se questo era spesso vuoto, il nuovo stadio fa quasi sempre il tutto esaurito, perchè coinvolge i tifosi che possono pranzare prima della partita o visitare il museo.
A fianco dello stadio sorge un centro commerciale con decine di negozi grazie ai quali la Juventus ha finanziato la costruzione dell'impianto sportivo, cedendo a gli spazi commerciali a Conad.
Un modello da replicare, deve aver pensato il governo, che ha inserito nella legge di stabilità una norma che dice più o meno così: chi progetta un impianto sportivo avrà un percorso burocratico privilegiato per accorciare i tempi tra la presentazione del progetto e la fine dei lavori di costruzione dello stadio (la Juventus ha impiegato 8 anni per costruire lo stadio, l'Udinese 9 anni), e gli diamo la possibilità di costruire altri immobili, utili per finanziare la struttura sportiva.
Apriti cielo. In molti si sono indignati per la futura possibile colata di cemento e il governo ha dovuto ritirare la norma, che certamente non farà parte della legge di stabilità, come ha spiegato Letta.
Risultato? Per adesso niente legge, niente stadi, nessun aumento degli spettatori e delle imposte che lo Stato incassa. Il mondo del calcio torna a aspettare i soldi pubblici per poter costruire impianti e iniziare a far crescere i ricavi. Soldi attesi da anni e mai stanziati...
24 novembre 2013
1:12 Referendum bocciato
Gli svizzeri hanno bocciato il referendum denominato 1:12 che puntava a limitare l'importo degli stipendi dei manager a 12 volte la retribuzione più bassa.
Oggi il rapporto tra i dipendenti meno pagati e i manager più pagati è 1 a 200. Se avessero vinto i sì i manager avrebbero subito un enorme taglio dei compensi e reso meno diseguale la Svizzera. Eppure gli svizzeri hanno rigettato la proposta.
La prima ragione è che gli svizzeri hanno paura che i manager cambino paese. La gestione del risparmio e magari del risparmio ottenuto in modo poco lecito è da sempre una grande risorsa per la Svizzera.
Ma altri paesi hanno imparato a fare lo stesso mestiere. Gestiscono i capitali, fanno pagare poche imposte, assicurano il segreto bancario, magari danno una mano a spostare capitali "sporchi". La Svizzera però subisce le pressioni di USA e Unione Europea per rendere trasparenti le attività bancarie e questo mette a rischio il ricco business bancario.
Business che è fatto di posti di lavoro ben retribuiti e imposte pagate da banche, lavoratori e tutti quelli che guadagnano grazie alla gestione dei capitali altrui.
Quindi meglio non correre il rischio che capitali e dirigenti si spostino altrove, magari in qualche piccolo paradiso fiscale su cui USA e UE esercitano poco potere.
La seconda ragione è che c'è già stata una riforma: gli svizzeri hanno deciso che i compensi dei manager nelle società quotate devono essere decisi dall'assemblea degli azionisti e non dal consiglio di amministrazione.
Se gli azionisti decidono circa le remunerazioni dei manager, difficilmente sceglieranno di premiare chi ha fatto male, e ciò consigliava di votare no.
Infine è possibile che ci sia un'altra ragione: la Svizzera è un paese in cui c'è un buon livello di benessere, con buoni servizi a favore di tutta la popolazione che preferisce lasciare le cose come stanno e non correre rischi.
Oggi il rapporto tra i dipendenti meno pagati e i manager più pagati è 1 a 200. Se avessero vinto i sì i manager avrebbero subito un enorme taglio dei compensi e reso meno diseguale la Svizzera. Eppure gli svizzeri hanno rigettato la proposta.
La prima ragione è che gli svizzeri hanno paura che i manager cambino paese. La gestione del risparmio e magari del risparmio ottenuto in modo poco lecito è da sempre una grande risorsa per la Svizzera.
Ma altri paesi hanno imparato a fare lo stesso mestiere. Gestiscono i capitali, fanno pagare poche imposte, assicurano il segreto bancario, magari danno una mano a spostare capitali "sporchi". La Svizzera però subisce le pressioni di USA e Unione Europea per rendere trasparenti le attività bancarie e questo mette a rischio il ricco business bancario.
Business che è fatto di posti di lavoro ben retribuiti e imposte pagate da banche, lavoratori e tutti quelli che guadagnano grazie alla gestione dei capitali altrui.
Quindi meglio non correre il rischio che capitali e dirigenti si spostino altrove, magari in qualche piccolo paradiso fiscale su cui USA e UE esercitano poco potere.
La seconda ragione è che c'è già stata una riforma: gli svizzeri hanno deciso che i compensi dei manager nelle società quotate devono essere decisi dall'assemblea degli azionisti e non dal consiglio di amministrazione.
Se gli azionisti decidono circa le remunerazioni dei manager, difficilmente sceglieranno di premiare chi ha fatto male, e ciò consigliava di votare no.
Infine è possibile che ci sia un'altra ragione: la Svizzera è un paese in cui c'è un buon livello di benessere, con buoni servizi a favore di tutta la popolazione che preferisce lasciare le cose come stanno e non correre rischi.
22 novembre 2013
Via Solferino
Il Corriere della Sera è senza dubbio uno dei giornali italiani più prestigiosi, forte di una storia centanaria. Negli ultimi anni non sono mancati sul Corriere gli appelli per tagliare le spese statali, privatizzare, ridurre gli sprechi e via discorrendo.
Gianantonio Stella e Sergio Rizzo sono diventati famosi per il libro La Casta che elenca sprechi e privilegi dei politici. E lavorano naturalmente al Corriere, che appartiene al gruppo Rizzoli Corriere della Sera, da tempo alle prese con consistenti perdite.
Qualche mese fa, il gruppo RCS è stato costretto a lanciare un aumento di capitale per ridurre i debiti verso il sistema bancario, rischiando il commissariamento e anche il fallimento.
Per rimettere i conti a posto, la società ha deciso di vendere la storica sede di via Solferino a Milano al fondo Blackstone con la prospettiva nei prossimi anni di abbandonare gli uffici, prestigiosi per aver ospitato molti famosi giornalisti italiani.
E' facile immaginare cosa direbbe il Corriere di un politico che preferisce una sede prestigiosa e costosa a un ufficio "normale" magari in una via non prestigiosa.
Al Corriere però l'idea che la sede prestigiosa con relativi privilegi di status possa essere abbandonata proprio non piace. I giornalisti hanno chiesto alle autorità di indagare su possibili conflitti di interesse degli azionisti del Corriere nell'operazione di vendita, si sono rivolti alle autorità locali che dovrebbero tutelare la sede storica impedendo all'acquirente di cedere l'immobile perchè vincolato, hanno raccolto migliaia di firme per chiedere che la proprietà rinunciasse alla vendita.
Un doppiopesismo molto italiano, come il giornale che da oltre un secolo orienta le opinioni di molti italiani.
Gianantonio Stella e Sergio Rizzo sono diventati famosi per il libro La Casta che elenca sprechi e privilegi dei politici. E lavorano naturalmente al Corriere, che appartiene al gruppo Rizzoli Corriere della Sera, da tempo alle prese con consistenti perdite.
Qualche mese fa, il gruppo RCS è stato costretto a lanciare un aumento di capitale per ridurre i debiti verso il sistema bancario, rischiando il commissariamento e anche il fallimento.
Per rimettere i conti a posto, la società ha deciso di vendere la storica sede di via Solferino a Milano al fondo Blackstone con la prospettiva nei prossimi anni di abbandonare gli uffici, prestigiosi per aver ospitato molti famosi giornalisti italiani.
E' facile immaginare cosa direbbe il Corriere di un politico che preferisce una sede prestigiosa e costosa a un ufficio "normale" magari in una via non prestigiosa.
Al Corriere però l'idea che la sede prestigiosa con relativi privilegi di status possa essere abbandonata proprio non piace. I giornalisti hanno chiesto alle autorità di indagare su possibili conflitti di interesse degli azionisti del Corriere nell'operazione di vendita, si sono rivolti alle autorità locali che dovrebbero tutelare la sede storica impedendo all'acquirente di cedere l'immobile perchè vincolato, hanno raccolto migliaia di firme per chiedere che la proprietà rinunciasse alla vendita.
Un doppiopesismo molto italiano, come il giornale che da oltre un secolo orienta le opinioni di molti italiani.
21 novembre 2013
Tecnologia collettiva e individuale
Qualche sera fa mi è capitato di vedere su Rai5 un bel documentario della BBC sulle missioni spaziali degli anni '60-'70, quando gli astronauti americani sono andati sulla luna.
La tecnologia di quegli anni era poco sviluppata, gli astronauti erano eroi che rischiavano la pelle, e qualcuno morì davvero, ma le astronavi e le missioni avevano un fascino incredibile. Una ragione la spiegò John F. Kennedy quando annunciò il programma per conquistare lo spazio. Disse «Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili».
Una sfida che prometteva di ripagare i vincitori con un maggior benessere collettivo. Si immaginava un mondo, quello del mitico 2000, in cui le tecnologie avrebbero aiutato tutti, rendendo la vita più facile, dando più opportunità se non a tutti, certamente a molti.
Si immaginava di liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro manuale grazie alle macchine che sarebbero entrate nelle fabbriche e nelle case, cominciare dai lavori manuali, che poco per volta sarebbero stati sostituiti dalle macchine.
Cosa è rimasto di quei sogni, 40 anni dopo, anzi più di 50 anni dopo, se prendiamo come punto di partenza il discorso di Kennedy del 1962?
La tecnologia di oggi era inimmaginabile anche solo 20 anni fa, figuriamoci ai tempi di Kennedy. Ma sono cambiati gli obiettivi. Non si sogna più un mondo migliore per tutti o per molti. Forse lo fa qualche esperto di marketing che deve convincerci che Apple o Google non sono solo enormi macchine da soldi.
Gli altri sognano e pensano soprattutto al proprio mondo, fatto di oggetti personali che ci offrono nuovi modi di fare le stesse cose: siamo passati dalle chiacchierate al bar alle chiacchierate via facebook impiegando smartphone con cui possiamo anche sentire musica, scattare una foto, guardare un film ecc.
Insomma siamo passati da una tecnologia povera ma collettiva, che prometteva benefici per molti, a una tecnologia individuale che promette solo di farci fare meglio quello che facevamo anche prima, con poche novità e pochi o nessun sogno collettivo.
La tecnologia di quegli anni era poco sviluppata, gli astronauti erano eroi che rischiavano la pelle, e qualcuno morì davvero, ma le astronavi e le missioni avevano un fascino incredibile. Una ragione la spiegò John F. Kennedy quando annunciò il programma per conquistare lo spazio. Disse «Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili».
Una sfida che prometteva di ripagare i vincitori con un maggior benessere collettivo. Si immaginava un mondo, quello del mitico 2000, in cui le tecnologie avrebbero aiutato tutti, rendendo la vita più facile, dando più opportunità se non a tutti, certamente a molti.
Si immaginava di liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro manuale grazie alle macchine che sarebbero entrate nelle fabbriche e nelle case, cominciare dai lavori manuali, che poco per volta sarebbero stati sostituiti dalle macchine.
Cosa è rimasto di quei sogni, 40 anni dopo, anzi più di 50 anni dopo, se prendiamo come punto di partenza il discorso di Kennedy del 1962?
La tecnologia di oggi era inimmaginabile anche solo 20 anni fa, figuriamoci ai tempi di Kennedy. Ma sono cambiati gli obiettivi. Non si sogna più un mondo migliore per tutti o per molti. Forse lo fa qualche esperto di marketing che deve convincerci che Apple o Google non sono solo enormi macchine da soldi.
Gli altri sognano e pensano soprattutto al proprio mondo, fatto di oggetti personali che ci offrono nuovi modi di fare le stesse cose: siamo passati dalle chiacchierate al bar alle chiacchierate via facebook impiegando smartphone con cui possiamo anche sentire musica, scattare una foto, guardare un film ecc.
Insomma siamo passati da una tecnologia povera ma collettiva, che prometteva benefici per molti, a una tecnologia individuale che promette solo di farci fare meglio quello che facevamo anche prima, con poche novità e pochi o nessun sogno collettivo.
19 novembre 2013
Mazzucato vs Boldrin
18 novembre 2013
TAV e costituzione svizzera
Da anni ormai in val di Susa ci si divide tra sostenitori e oppositori della TAV, la futura linea ferroviaria che collegherà Italia e Francia. Molte associazioni ambientaliste sono contrarie all'opera perché -sostengono- devasterà la valle e perchè sarebbe inutile.
Ora, possono gli ecologisti essere contrari a un'opera che porterà merci e passeggeri a transitare in val di Susa su rotaia invece che su inquinanti automobili e camion? Contrarietà che stranamente accomuna ecologisti e liberisti, quest'ultimi impegnati a avversare un'opera che significa spesa pubblica.
I liberisti non appoggerebbero mai la TAV anche per un'altra ragione: pensano che non serva. Formulano ipotesi sui traffici futuri e concludono che sulla futura linea TAV transiteranno pochi treni.
Non sono ipotesi irrealistiche, ma partono dal presupposto che chi viaggia o trasporta merci sia libero di scegliere quale mezzo usare. La linea ferroviaria entrerà in concorrenza con altri mezzi di trasporto e per questo i no-TAV pensano che senza un aumento drastico delle merci trasportate sarà inutile costruire una nuova ferrovia.
In Svizzera invece costruiscono le ferrovie partendo dall'idea che si devono limitare i transiti su gomma per tutelare le persone e le alpi. Lo hanno scritto in costituzione. L'articolo 84 dice che la Confederazione protegge la regione alpina dalle ripercussioni negative del traffico di transito, che le merci devono attraversare le alpi tramite ferrovia e che non si può aumentare la capacità delle strade di transito nella regione alpina.
Dunque niente nuove strade e obbligo di costruire ferrovie per trasportare le merci. Ma anche tasse sul traffico pesante per scoraggiare i transiti.
Questa è la Svizzera, dove gli ambientalisti sono favorevoli alla costruzione di ferrovie. Al contrario dei nostri che adottano le teorie liberiste e paiono preferire i camion ai treni, lasciando ai tir la libertà di viaggiare ovunque con il loro carico di inquinamento. Illudendosi forse di poter far diminuire il traffico attraverso le alpi.
Ora, possono gli ecologisti essere contrari a un'opera che porterà merci e passeggeri a transitare in val di Susa su rotaia invece che su inquinanti automobili e camion? Contrarietà che stranamente accomuna ecologisti e liberisti, quest'ultimi impegnati a avversare un'opera che significa spesa pubblica.
I liberisti non appoggerebbero mai la TAV anche per un'altra ragione: pensano che non serva. Formulano ipotesi sui traffici futuri e concludono che sulla futura linea TAV transiteranno pochi treni.
Non sono ipotesi irrealistiche, ma partono dal presupposto che chi viaggia o trasporta merci sia libero di scegliere quale mezzo usare. La linea ferroviaria entrerà in concorrenza con altri mezzi di trasporto e per questo i no-TAV pensano che senza un aumento drastico delle merci trasportate sarà inutile costruire una nuova ferrovia.
In Svizzera invece costruiscono le ferrovie partendo dall'idea che si devono limitare i transiti su gomma per tutelare le persone e le alpi. Lo hanno scritto in costituzione. L'articolo 84 dice che la Confederazione protegge la regione alpina dalle ripercussioni negative del traffico di transito, che le merci devono attraversare le alpi tramite ferrovia e che non si può aumentare la capacità delle strade di transito nella regione alpina.
Dunque niente nuove strade e obbligo di costruire ferrovie per trasportare le merci. Ma anche tasse sul traffico pesante per scoraggiare i transiti.
Questa è la Svizzera, dove gli ambientalisti sono favorevoli alla costruzione di ferrovie. Al contrario dei nostri che adottano le teorie liberiste e paiono preferire i camion ai treni, lasciando ai tir la libertà di viaggiare ovunque con il loro carico di inquinamento. Illudendosi forse di poter far diminuire il traffico attraverso le alpi.
17 novembre 2013
Bonus assunzione
Qualche mese fa il governo ha lanciato il bonus per l'assunzione dei giovani. Il ministro Giovannini aveva previsto 100.000 lavoratori beneficiati, grazie a 800 milioni (500 dei quali destinati al sud) stanziati in 3 anni.
I requisiti richiesti erano molto selettivi: i beneficiari non dovevano avere un diploma, disoccupati, con almeno una persona a carico.
E infatti gli incentivi hanno deluso le attese: le domande pervenute sono state meno di 14 mila.
Un fallimento? Probabilmente sì, sia perchè i requisiti erano troppo stringenti, sia perchè in un periodo di crisi, di investimenti assenti, di aziende che licenziano, incentivare l'assunzione rischia di essere un autogol fin troppo facile da prevedere.
Le aziende non assumono se la domanda non aumenta ma diminuisce, e ancor meno lo fanno le aziende del sud dove la domanda estera, che è la sola domanda che fa crescere alcune imprese, è più debole.
La politica di sostegno all'offerta non è una risposta a problemi che dipendono dalla scarsità della domanda: è un modo per lasciare il problema irrisolto.
Viene il sospetto che il governo stiagiocando a fare l'illusionista: i soldi non utilizzati verranno impiegati in altro modo, stanziati in futuro con tanto di conferenza stampa con un ministro speranzoso e magari una platea attenta e incapace di distinguere una buona politica economica da una pessima e inutile.
I requisiti richiesti erano molto selettivi: i beneficiari non dovevano avere un diploma, disoccupati, con almeno una persona a carico.
E infatti gli incentivi hanno deluso le attese: le domande pervenute sono state meno di 14 mila.
Un fallimento? Probabilmente sì, sia perchè i requisiti erano troppo stringenti, sia perchè in un periodo di crisi, di investimenti assenti, di aziende che licenziano, incentivare l'assunzione rischia di essere un autogol fin troppo facile da prevedere.
Le aziende non assumono se la domanda non aumenta ma diminuisce, e ancor meno lo fanno le aziende del sud dove la domanda estera, che è la sola domanda che fa crescere alcune imprese, è più debole.
La politica di sostegno all'offerta non è una risposta a problemi che dipendono dalla scarsità della domanda: è un modo per lasciare il problema irrisolto.
Viene il sospetto che il governo stiagiocando a fare l'illusionista: i soldi non utilizzati verranno impiegati in altro modo, stanziati in futuro con tanto di conferenza stampa con un ministro speranzoso e magari una platea attenta e incapace di distinguere una buona politica economica da una pessima e inutile.
15 novembre 2013
Econoliberal su Facebook
Econoliberal è anche su Facebook all'indirizzo https://www.facebook.com/groups/193199597411710/, utile luogo per discutere, proporre argomenti, fare domande...
13 novembre 2013
Carceri chiuse
Qualche settimana fa il Presidente della Repubblica, in visita al carcere di Poggioreale, ha chiesto al mondo politico di prendere in considerazione l'ipotesi di amnistia. Le sofferenze dei detenuti, stipati in celle destinate a contenere meno persone di quante ve ne sono davvero, rischiano di far ocndannare l'Italia in sede europea.
I detenuti possono chiedere un risarcimento per il solo fatto di essere in carcere. Lo Stato prima o poi viene condannato a pagare. Di qui la richiesta di Napolitano, a cui si oppongono molte forze politiche, preccupate di non perdere voti.
Già perchè gran parte degli italiani pensa che chi sbaglia deve andare in prigione, senza se e ma, e non si cura di capire perchè si finisce in carcere nè delle conseguenze delle carcerazioni.
Pochi giorni fa invece arriva la notizia, ripresa dal Corriere (vedi qui), che in Svezia ci sono troppe carceri. La popolazione carceraria sta diminuendo ad un tasso dell'1% all'anno e con sempre più celle vuote, le autorità hanno deciso di chiudere alcune carceri.
Secondo la giornalista del Corriere non si sa il perchè ciò accada.
Invece una spiegazione c'è. Ce la offre una nostra vecchia conoscenza, il libro La misura dell'anima (ve lo ricordate? che per chi non l'avesse letto ora è disponibile anche in versione economica - vedi qui).
Il capitolo 11 è intitolato Incarcerazione e punizione, e si spiega ad esempio che i paesi con maggiori disuguaglianze di reddito sono anche i paesi in cui ci sono più detenuti in rapporto alla popolazione, ma anche quelli più punitivi.
E viceversa, naturalmente. La Svezia appartiene al gruppo dei paesi con meno disuguaglianze, meno carcerati e un maggior ricorso a pene alternative.
Per questo le prigioni restano vuote e alla fine si razionalizzano, chiudendone alcune.
I detenuti possono chiedere un risarcimento per il solo fatto di essere in carcere. Lo Stato prima o poi viene condannato a pagare. Di qui la richiesta di Napolitano, a cui si oppongono molte forze politiche, preccupate di non perdere voti.
Già perchè gran parte degli italiani pensa che chi sbaglia deve andare in prigione, senza se e ma, e non si cura di capire perchè si finisce in carcere nè delle conseguenze delle carcerazioni.
Pochi giorni fa invece arriva la notizia, ripresa dal Corriere (vedi qui), che in Svezia ci sono troppe carceri. La popolazione carceraria sta diminuendo ad un tasso dell'1% all'anno e con sempre più celle vuote, le autorità hanno deciso di chiudere alcune carceri.
Secondo la giornalista del Corriere non si sa il perchè ciò accada.
Invece una spiegazione c'è. Ce la offre una nostra vecchia conoscenza, il libro La misura dell'anima (ve lo ricordate? che per chi non l'avesse letto ora è disponibile anche in versione economica - vedi qui).
Il capitolo 11 è intitolato Incarcerazione e punizione, e si spiega ad esempio che i paesi con maggiori disuguaglianze di reddito sono anche i paesi in cui ci sono più detenuti in rapporto alla popolazione, ma anche quelli più punitivi.
E viceversa, naturalmente. La Svezia appartiene al gruppo dei paesi con meno disuguaglianze, meno carcerati e un maggior ricorso a pene alternative.
Per questo le prigioni restano vuote e alla fine si razionalizzano, chiudendone alcune.
12 novembre 2013
Citazioni divertenti: Grillo e i tassi
1. «tra settembre e ottobre il governo sarà a corto di soldi e avrà difficoltà a pagare le pensioni e gli stipendi»
Beppe Grillo, intervistato dalla Bild ad aprile 2013 (vedi qui).
2. Il BoT a 12 mesi scende al minimo storico: 0,688%.
Titolo del Sole 24 ore di oggi.
Beppe Grillo, intervistato dalla Bild ad aprile 2013 (vedi qui).
2. Il BoT a 12 mesi scende al minimo storico: 0,688%.
Titolo del Sole 24 ore di oggi.
10 novembre 2013
Grillo e la Google Tax
Di recente il G8 (vedi ad esempio questo articolo) s'è posto il problema dell'elusione delle imposte da parte delle multinazionali: se una multinazionale americana colloca in Irlanda la propria sede europea, pagherà lì le imposte anche sui profitti realizzati nel resto d'Europa, lasciando a bocca asciutta o quasi il fisco di Italia, Francia, eccetera.
I paesi più grandi, dove le multinazionali realizzano la maggior parte dei loro ricavi europei, restano con i loro problemi di bilancio, mentre i paesi più piccoli possono permettersi di abbassare le imposte perché incassano le imposte delle multinazionali, attratte dalle aliquote inferiori.
E' una situazione a cui porre rimedio perchè le casse statali soffrono e per tutelare le aziende nazionali che pagano le imposte in patria.
La proposta del deputato del PD Boccia va in questa direzione. Vorrebbe obbligare le multinazionali a aprire filiali in Italia e a operare tramite queste, così da costringerle a pagare più imposte. La proposta è debole sul piano formale, ma interessante su quello sostanziale.
Oltre 70 parlamentari del Movimento 5 stelle l'hanno votata, scoprendo subito dopo che il blog di Grillo è contrario (vedi qui) con tanto di citazione tratta da Forbes.
L'autore delle righe citate è Tom Worstall, membro tra l'altro dell'Adam Smith Institute, un think tank inglese che propone tesi molto liberiste, tra cui la necessità di liberalizzare, di aprire i mercati, di ridurre le imposte.
Idee lontane dai giovani parlamentari pentastellati, ma vicine a Casaleggio, il vero leader del Movimento. Chi se non lo staff di Casaleggio può scrivere un articolo contro la Google Tax votata da decine di parlamentari pentastellati? E perchè scrive un articolo simile? Non soltanto per attaccare i politici, vista la posizione di molti parlamentari del suo movimento.
I paesi più grandi, dove le multinazionali realizzano la maggior parte dei loro ricavi europei, restano con i loro problemi di bilancio, mentre i paesi più piccoli possono permettersi di abbassare le imposte perché incassano le imposte delle multinazionali, attratte dalle aliquote inferiori.
E' una situazione a cui porre rimedio perchè le casse statali soffrono e per tutelare le aziende nazionali che pagano le imposte in patria.
La proposta del deputato del PD Boccia va in questa direzione. Vorrebbe obbligare le multinazionali a aprire filiali in Italia e a operare tramite queste, così da costringerle a pagare più imposte. La proposta è debole sul piano formale, ma interessante su quello sostanziale.
Oltre 70 parlamentari del Movimento 5 stelle l'hanno votata, scoprendo subito dopo che il blog di Grillo è contrario (vedi qui) con tanto di citazione tratta da Forbes.
L'autore delle righe citate è Tom Worstall, membro tra l'altro dell'Adam Smith Institute, un think tank inglese che propone tesi molto liberiste, tra cui la necessità di liberalizzare, di aprire i mercati, di ridurre le imposte.
Idee lontane dai giovani parlamentari pentastellati, ma vicine a Casaleggio, il vero leader del Movimento. Chi se non lo staff di Casaleggio può scrivere un articolo contro la Google Tax votata da decine di parlamentari pentastellati? E perchè scrive un articolo simile? Non soltanto per attaccare i politici, vista la posizione di molti parlamentari del suo movimento.
09 novembre 2013
BCE: 0,25%
La BCE ha deciso di abbassare ancora i tassi. Siamo arrivati allo 0,25%, perché l'Europa cresce poco e c'è il rischio di deflazione.
Ma come, la moneta abbondante non avrebbe dovuto causare una iperinflazione? Viene voglia di chiederselo, se non avessimo spiegato quasi quattro anni fa (vedi qui: http://econoliberal.blogspot.it/2009/12/esiste-un-pericolo-inflazione.html) che il pericolo non esiste.
No, il pericolo non c'è. Semmai c'è il pericolo contrario: nonostante l'aumento in Italia dell'IVA i prezzi non salgono. Casomai scendono. Le imprese non vendono e quindi abbassano i prezzi, con la conseguenza che chi vuole acquistare un computer o un'auto o un divano rinvia l'acquisto. Aspetta che i prezzi diminuiscano.
Il rischio di deflazione ha dato la possibilità alla BCE di fare un passo in avanti verso una politica monetaria simile a quella della FED. Le resistenze tedesche poco per volta sono state affrontate. La BCE è arrivata più tardi e ha agito con minor forza della FED, ma ormai i tassi sono vicini allo zero.
Cosa resta da fare? Forse la BCE potrebbe stabilire un tasso negativo sui depositi delle banche presso la banca centrale, così da spingere le banche, piene di liquidità, a non depositarla presso la banca centrale, prestandola invece a altre banche.
Forse può chiedere all'Europa di accelerare l'adozione di regole che riducano al minimo il rischio di default di un sistema bancario nazionale e spingano le banche a prestarsi capitali. O forse potrebbe compiere operazioni poco ortodosse come l'acquisto di crediti avariati delle banche.
Si calcola che le banche italiane e spagnole abbiano almeno 200 miliardi di euro di crediti inesigibili o quasi. La BCE potrebbe acquistarne una parte per finanziare le banche.
Lo ha già fatto, penserà qualcuno. Certo, ma lo scopo allora era soprattutto abbassare i tassi pagati dagli stati, per ridurre il rischio di una crisi del debito di paesi come Italia e Spagna. Ma una volta messo sotto controllo il problema del debito e del suo costo per gli stati, resta il il problema di aziende troppo indebitate che hanno difficoltà a restituire alle banche i soldi e di banche che, piene di crediti inesigibili, faticano a prestare soldi alle imprese.
In attesa delle mosse della BCE, c'è un aspetto positivo: l'euro è sceso rispetto al dollaro. Se il trend continuerà, l'economia europea ne trarrà qualche piccolo beneficio sotto forma di maggiori esportazioni verso i paesi che usano il dollaro.
Ma come, la moneta abbondante non avrebbe dovuto causare una iperinflazione? Viene voglia di chiederselo, se non avessimo spiegato quasi quattro anni fa (vedi qui: http://econoliberal.blogspot.it/2009/12/esiste-un-pericolo-inflazione.html) che il pericolo non esiste.
No, il pericolo non c'è. Semmai c'è il pericolo contrario: nonostante l'aumento in Italia dell'IVA i prezzi non salgono. Casomai scendono. Le imprese non vendono e quindi abbassano i prezzi, con la conseguenza che chi vuole acquistare un computer o un'auto o un divano rinvia l'acquisto. Aspetta che i prezzi diminuiscano.
Il rischio di deflazione ha dato la possibilità alla BCE di fare un passo in avanti verso una politica monetaria simile a quella della FED. Le resistenze tedesche poco per volta sono state affrontate. La BCE è arrivata più tardi e ha agito con minor forza della FED, ma ormai i tassi sono vicini allo zero.
Cosa resta da fare? Forse la BCE potrebbe stabilire un tasso negativo sui depositi delle banche presso la banca centrale, così da spingere le banche, piene di liquidità, a non depositarla presso la banca centrale, prestandola invece a altre banche.
Forse può chiedere all'Europa di accelerare l'adozione di regole che riducano al minimo il rischio di default di un sistema bancario nazionale e spingano le banche a prestarsi capitali. O forse potrebbe compiere operazioni poco ortodosse come l'acquisto di crediti avariati delle banche.
Si calcola che le banche italiane e spagnole abbiano almeno 200 miliardi di euro di crediti inesigibili o quasi. La BCE potrebbe acquistarne una parte per finanziare le banche.
Lo ha già fatto, penserà qualcuno. Certo, ma lo scopo allora era soprattutto abbassare i tassi pagati dagli stati, per ridurre il rischio di una crisi del debito di paesi come Italia e Spagna. Ma una volta messo sotto controllo il problema del debito e del suo costo per gli stati, resta il il problema di aziende troppo indebitate che hanno difficoltà a restituire alle banche i soldi e di banche che, piene di crediti inesigibili, faticano a prestare soldi alle imprese.
In attesa delle mosse della BCE, c'è un aspetto positivo: l'euro è sceso rispetto al dollaro. Se il trend continuerà, l'economia europea ne trarrà qualche piccolo beneficio sotto forma di maggiori esportazioni verso i paesi che usano il dollaro.
08 novembre 2013
Pensioni ai politici: conviene eliminarle?
Che fine fanno i politici sconfitti alle elezioni?
Molti si riciclano nel sottobosco della politica, andando a occupare posti nei consigli di amministrazione di qualche municipalizzata, in una fondazione bancaria, nei partiti, in qualche associazione che sembra esistere più per servire gli interessi di singoli individui o di partiti che dei beneficiari dei servizi offerti dall'associazione.
Tutto questo comporta . Costi diretti sotto forma di stipendi, di benefit vari, di staff assunto per dare una mano al riciclato, e costi indiretti, soldi che si spendono per alimentare piccole clientele o dare un senso al lavoro del politico riciclato.
diversi costi
Da qualche tempo la lotta agli sprechi e ai costi della politica sta colpendo proprio questi politici, che un tempo andavano in pensione anche giovani e con un buon assegno. Una spesa che oggi si tende a ridurre, eliminando i privilegi dei politici.
Ma conviene? Meglio dare una pensione a un sessantenne che ha perso le elezioni dimenticato dagli elettori o meglio trovarselo in un consiglio di amministrazione magari intento a far assumere i figli o a scambiare favori con altri?
Forse un calcolo sarebbe necessario. Una pensione dignitosa erogata qualche anno prima potrebbe costare di meno alla collettività di una retribuzione a un consigliere di amministrazione che poi prova a far eleggere parenti e amici in un'azienda pubblica.
Certo, la mia è una provocazione e molti penseranno che sarebbe meglio non dare una pensione a chi non se la merita e che nei cda bisognerebbe assumere chi se lo merita, ma il problema esiste e forse sarà ancora più importante in futuro, perchè le opinioni politiche sembrano cambiare velocemente e sembra esserci un alto tasso di ricambio tra i politici: molti entrano in Parlamento o in un consiglio regionale e molti escono, senza sapere come riciclarsi e senza avere l'età della pensione.
Molti si riciclano nel sottobosco della politica, andando a occupare posti nei consigli di amministrazione di qualche municipalizzata, in una fondazione bancaria, nei partiti, in qualche associazione che sembra esistere più per servire gli interessi di singoli individui o di partiti che dei beneficiari dei servizi offerti dall'associazione.
Tutto questo comporta . Costi diretti sotto forma di stipendi, di benefit vari, di staff assunto per dare una mano al riciclato, e costi indiretti, soldi che si spendono per alimentare piccole clientele o dare un senso al lavoro del politico riciclato.
diversi costi
Da qualche tempo la lotta agli sprechi e ai costi della politica sta colpendo proprio questi politici, che un tempo andavano in pensione anche giovani e con un buon assegno. Una spesa che oggi si tende a ridurre, eliminando i privilegi dei politici.
Ma conviene? Meglio dare una pensione a un sessantenne che ha perso le elezioni dimenticato dagli elettori o meglio trovarselo in un consiglio di amministrazione magari intento a far assumere i figli o a scambiare favori con altri?
Forse un calcolo sarebbe necessario. Una pensione dignitosa erogata qualche anno prima potrebbe costare di meno alla collettività di una retribuzione a un consigliere di amministrazione che poi prova a far eleggere parenti e amici in un'azienda pubblica.
Certo, la mia è una provocazione e molti penseranno che sarebbe meglio non dare una pensione a chi non se la merita e che nei cda bisognerebbe assumere chi se lo merita, ma il problema esiste e forse sarà ancora più importante in futuro, perchè le opinioni politiche sembrano cambiare velocemente e sembra esserci un alto tasso di ricambio tra i politici: molti entrano in Parlamento o in un consiglio regionale e molti escono, senza sapere come riciclarsi e senza avere l'età della pensione.
07 novembre 2013
De Blasio
Bill De Blasio è il nuovo sindaco di New York. Padre di origini tedesche, madre di origini italiane, è considerato molto di sinistra, al punto che alcuni suoi avversari l'hanno accusato di essere un comunista, forti dei suoi viaggi a Cuba e nel Nicaragua sandinista.
Ha vinto con un programma di sinistra, più imposte per chi guadagna oltre 500.000 dollari, più soldi alle scuole pubbliche e meno alle private e un'idea ben chiara: ridurre le differenze.
La spiegazione di De Blasio è tanto semplice quando vera: la città dei ricchi, di chi vive nel lusso degli appartamenti da molti milioni di dollari ha bisogno di aiutare l'altra città, quella dei poveri e soprattutto della classe media che fa fatica a vivere nella grande mela. Altrimenti si rischia lo scontro, si rischia che la città dei ricchi venga assediata dall'altra.
I progressisti, anche se ricchissimi, newyorkesi, gli hanno creduto.
Ha vinto con un programma di sinistra, più imposte per chi guadagna oltre 500.000 dollari, più soldi alle scuole pubbliche e meno alle private e un'idea ben chiara: ridurre le differenze.
La spiegazione di De Blasio è tanto semplice quando vera: la città dei ricchi, di chi vive nel lusso degli appartamenti da molti milioni di dollari ha bisogno di aiutare l'altra città, quella dei poveri e soprattutto della classe media che fa fatica a vivere nella grande mela. Altrimenti si rischia lo scontro, si rischia che la città dei ricchi venga assediata dall'altra.
I progressisti, anche se ricchissimi, newyorkesi, gli hanno creduto.
05 novembre 2013
Taglio alle spese? No, grazie
La puntata di Ballarò di oggi, 5 novembre, come sempre offre qualche sondaggio interessante.
Alla domanda: cosa accetterebbe in cambio dell'abbassamento delle tasse, gli intervistati hanno così risposto:
- il 18% è disposto a accettare il taglio dei posti di lavoro degli statali;
- l'11% il taglio delle pensioni;
- il 5% la chiusura degli ospedali poco utilizzati e il taglio dei posti letto;
- il 3% il taglio dei servizi pubblici locali.
E il resto? Il 59% preferisce non tagliare nulla e rinunciare al taglio delle tasse.
I dati del sondaggio arrivano giusto il giorno dopo la festa delle forze armate. Ieri, 4 novembre, il sindaco di Messina, Renato Accorinti ha celebrato la festa ricordando che l'articolo 11 della Costituzione afferma che l'Italia ripudia la guerra e chiedendo di rivedere la spesa pubblica tagliando la spesa militare e destinando più risorse ad esempio all'accoglimento degli stranieri che muoiono cercando di attraversare il Mediterraneo.
Qualche centinaio di chilometri più a nord, il Presidente Napolitano, celebrando la festa delle forze armate, ha detto: "non possiamo indulgere a semplicismi e propagandismi che circolano in materia di spesa e di dotazioni indispensabili per l'esercito".
Insomma, tagliare le spese sembra un'illusione nella quale si crogiolano in molti, ma che pochi vogliono davvero e a una condizione molto stretta: che riguardi gli altri.
Alla domanda: cosa accetterebbe in cambio dell'abbassamento delle tasse, gli intervistati hanno così risposto:
- il 18% è disposto a accettare il taglio dei posti di lavoro degli statali;
- l'11% il taglio delle pensioni;
- il 5% la chiusura degli ospedali poco utilizzati e il taglio dei posti letto;
- il 3% il taglio dei servizi pubblici locali.
E il resto? Il 59% preferisce non tagliare nulla e rinunciare al taglio delle tasse.
I dati del sondaggio arrivano giusto il giorno dopo la festa delle forze armate. Ieri, 4 novembre, il sindaco di Messina, Renato Accorinti ha celebrato la festa ricordando che l'articolo 11 della Costituzione afferma che l'Italia ripudia la guerra e chiedendo di rivedere la spesa pubblica tagliando la spesa militare e destinando più risorse ad esempio all'accoglimento degli stranieri che muoiono cercando di attraversare il Mediterraneo.
Qualche centinaio di chilometri più a nord, il Presidente Napolitano, celebrando la festa delle forze armate, ha detto: "non possiamo indulgere a semplicismi e propagandismi che circolano in materia di spesa e di dotazioni indispensabili per l'esercito".
Insomma, tagliare le spese sembra un'illusione nella quale si crogiolano in molti, ma che pochi vogliono davvero e a una condizione molto stretta: che riguardi gli altri.
04 novembre 2013
Olivetti... e i neoborbonici
Rai1 ha di recente mandato in onda la fiction su Adriano Olivetti, geniale imprenditore a capo dell'ominima azienda nata a Ivrea oltre un secolo fa.
L'azienda Olivetti, a lungo un'azienda leader nel settore delle macchine da ufficio, oggi quasi non esiste più, limitandosi a fare da comparsa in settori dominati dai prodotti americani e asiatici. Gli edifici che a Scarmagno, vicino a Ivrea, ospitavano migliaia di dipendenti sono un monumento alla deindustrializzazione.
Olivetti è stata la prima impresa al mondo a costruire un computer, eppure oggi non c'è più. Qualcuno potrebbe storcere il naso e ricordare, come i neoborici, i record di Olivetti, come aver progettato e costruito il primo computer al mondo.
Ma essere stati primi un tempo , soprattutto se arrivare per primi a produrre qualcosa non comporta alcun vantaggio sul mercato. Un conto infatti è inventare un prodotto e conquistare i potenziali acquirenti, rendendo difficile per altri concorrenti entrare in quel mercato, un altro è costruire un prototipo o un bene che magari domina un mercato piccolo, destinato a crescere rapidamente. In questo secondo caso è facile perdere il primato.
non garantisce la possibilità di mantenere il primato
E se qualcuno mai pensasse a un complotto per eliminare Olivetti? Gli si potrebbe rispondere con un nome: Vobis.
20 anni fa era l'azienda tedesca che produceva più computer, aveva successo al punto che Microsoft agli inizi degli anni '90 fece di tutto per arrivare a un accordo con Vobis, convincendoli a adottare il proprio sistema operativo. Ebbe successo e per chi produceva sistemi operativi alternativi fu la fine.
Oggi Vobis cosa produce?
Ha fatto la fine di Olivetti, a ulteriori riprova del fatto che arrivare per primi o essere stati i migliori non significa nulla, checchè ne dicano i neoborbonici.
L'azienda Olivetti, a lungo un'azienda leader nel settore delle macchine da ufficio, oggi quasi non esiste più, limitandosi a fare da comparsa in settori dominati dai prodotti americani e asiatici. Gli edifici che a Scarmagno, vicino a Ivrea, ospitavano migliaia di dipendenti sono un monumento alla deindustrializzazione.
Olivetti è stata la prima impresa al mondo a costruire un computer, eppure oggi non c'è più. Qualcuno potrebbe storcere il naso e ricordare, come i neoborici, i record di Olivetti, come aver progettato e costruito il primo computer al mondo.
Ma essere stati primi un tempo , soprattutto se arrivare per primi a produrre qualcosa non comporta alcun vantaggio sul mercato. Un conto infatti è inventare un prodotto e conquistare i potenziali acquirenti, rendendo difficile per altri concorrenti entrare in quel mercato, un altro è costruire un prototipo o un bene che magari domina un mercato piccolo, destinato a crescere rapidamente. In questo secondo caso è facile perdere il primato.
non garantisce la possibilità di mantenere il primato
E se qualcuno mai pensasse a un complotto per eliminare Olivetti? Gli si potrebbe rispondere con un nome: Vobis.
20 anni fa era l'azienda tedesca che produceva più computer, aveva successo al punto che Microsoft agli inizi degli anni '90 fece di tutto per arrivare a un accordo con Vobis, convincendoli a adottare il proprio sistema operativo. Ebbe successo e per chi produceva sistemi operativi alternativi fu la fine.
Oggi Vobis cosa produce?
Ha fatto la fine di Olivetti, a ulteriori riprova del fatto che arrivare per primi o essere stati i migliori non significa nulla, checchè ne dicano i neoborbonici.
03 novembre 2013
Catasto
Esiste un modo di incassare più soldi senza creare ingiustizie e troppo scontento: la riforma del catasto.
Il pagamento dell'IMU e di altre tasse si basa sulla rendita catastale o più semplicemente sul valore secondo il fisco dell'immobile da tassare. Valore che andrebbe modificato nel tempo tenendo conto di eventuali cambiamenti dell'immobile (ad esempio molti edifici non hanno più il bagno sul balcone, come succedeva molto tempo fa) sia dei prezzi a cui gli immobili sono scambiati in un certo luogo.
Maggiore è il valore di un immobile, maggiore è l'incasso per lo stato e per gli enti locali, che dovrebbero aggiornare il catasto non solo per incassare di puù, ma anche per ragioni di equità.
Non è raro che un immobile di periferia costruito e accatastato negli ultimi decenni anni fa sia valutato più di un immobile delle stesse dimensioni ma collocato in una via del centro città, che è stato accatastato magari un secolo fa. La conseguenza è che il primo paga più imposte sulla casa del secondo anche se vale meno.
Lo stato ci rimette, perchè incassa meno, e i cittadini costretti a pagare di più nonostante possiedano un immobile che vale meno subiscono un'ingiustizia.
Dunque una revisione è necessaria quantomeno per rendere più eque le imposte sugli immobili, come ha fatto di recente la città di Roma, interessando 175 mila immobili, molti dei quali erano considerati di scarso valore nonostante si vendano a prezzi elevati.
Perchè s'è fatto? Per tamponare i problemi di bilancio. Il comune s'è messo d'accordo con l'agenzia delle entrate che ha battuto palmo a palmo il territorio e scoperto che non esistono più case senza bagno e che si spendono molte migliaia di euro al metro quadro per appartamenti fino a ieri considerati "ultrapopolari".
Il pagamento dell'IMU e di altre tasse si basa sulla rendita catastale o più semplicemente sul valore secondo il fisco dell'immobile da tassare. Valore che andrebbe modificato nel tempo tenendo conto di eventuali cambiamenti dell'immobile (ad esempio molti edifici non hanno più il bagno sul balcone, come succedeva molto tempo fa) sia dei prezzi a cui gli immobili sono scambiati in un certo luogo.
Maggiore è il valore di un immobile, maggiore è l'incasso per lo stato e per gli enti locali, che dovrebbero aggiornare il catasto non solo per incassare di puù, ma anche per ragioni di equità.
Non è raro che un immobile di periferia costruito e accatastato negli ultimi decenni anni fa sia valutato più di un immobile delle stesse dimensioni ma collocato in una via del centro città, che è stato accatastato magari un secolo fa. La conseguenza è che il primo paga più imposte sulla casa del secondo anche se vale meno.
Lo stato ci rimette, perchè incassa meno, e i cittadini costretti a pagare di più nonostante possiedano un immobile che vale meno subiscono un'ingiustizia.
Dunque una revisione è necessaria quantomeno per rendere più eque le imposte sugli immobili, come ha fatto di recente la città di Roma, interessando 175 mila immobili, molti dei quali erano considerati di scarso valore nonostante si vendano a prezzi elevati.
Perchè s'è fatto? Per tamponare i problemi di bilancio. Il comune s'è messo d'accordo con l'agenzia delle entrate che ha battuto palmo a palmo il territorio e scoperto che non esistono più case senza bagno e che si spendono molte migliaia di euro al metro quadro per appartamenti fino a ieri considerati "ultrapopolari".
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