30 novembre 2018

Paragone, Castelli e Padoan

Ieri sera su La7 mi è capitato di sentire Gianluigi Paragone, un tempo giornalista della Lega e oggi senatore del Movimento 5 Stelle, spiegare che FCA ha fiducia nell'Italia al punto di aver annunciato 5 miliardi di investimenti per la 500 elettrica, la Renegade ibrida e la Jeep Compass da prodursi in Italia (oggi si produce in Messico).

Un giudizio come un altro? No, un giudizio sbagliato. Dove dovrebbe produrre FCA le auto destinate al mercato EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa) se non negli stabilimenti disponibili? Produrre in Italia significa tre cose: primo, risparmiare i costi di trasporto rispetto alle auto prodotte in Messico o negli USA; secondo, ridurre i rischi di maggiori costi a causa di variazioni del cambio e per l'introduzione di possibili dazi (la guerra dei dazi di Trump rischia di portare a dazi europei); e, terzo, vuol dire sfruttare gli impianti perchè hanno costi elevati anche se la produzione è ridotta ai minimi termini.

Quindi Paragone confonde una parte (l'Italia) con il tutto (una macro area da cui dipendono le scelte di FCA in Italia) e finge che l'alternativa per FCA all'investimento in Italia sia un investimento in un altro paese, concludendo che se investe in Italia è perchè crede nell'Italia. In realtà per FCA l'alternativa è investire dove ha già impianti o non investire affatto e quindi la scelta non significa fiducia nell'Italia, ma fiducia che il mercato EMEA assorba le auto prodotte.

Lo stesso errore, cioè confondere quello che succede in Italia con quello che succede in un'area più grande, lo ha fatto il Sole 24 Ore da cui  Laura Castelli ha preso una tabella usata per spiegare all'ex ministro Padoan che lo spread non influenza il tasso Euribor e quindi i tassi dei mutui. A quello scambio di battute son seguiti molti articoli che spiegano che la tabella era vera, ma aveva ragione pure Padoan, anzi forse più Padoan della Castelli e quindi che, se anche l'euribor non dipende dallo spread, tuttavia lo spread in aumento significa che prima o poi i tassi sui mutui saliranno.

Poco s'è ragionato sulla tabella del Sole 24 Ore che mette in relazione lo spread italiano (la parte) con un tasso, l'euribor, derivante dalla media dei tassi registrati da 20 grandi banche europee (il tutto). 20 grandi banche, al massimo 2 saranno le italiane, e si tratta di banche grandi mentre nulla si dice delle banche più piccole, che possono invece avere problemi di finanziamento, ovvero possono andare incontro a razionamento del credito o pagare tassi più alti.

Come si può pensare che uno spread  in risalita per effetto quasi esclusivamente di scelte del governo italiano possa influenzare l'euribor? Le due grandezze (spread e euribor) possono al massimo variare per effetto di una terza forza che influenza entrambe, ma non serve molto a capire che difficilmente una delle due causa variazioni rilevanti dell'altra.

28 novembre 2018

Verso la recessione

Qualche giorno fa Ennio Doris, intervistato da La Stampa, ha spiegato che i suoi clienti (Doris ha fondato Mediolanum dopo aver fatto a lungo il promotore finanziario) e amici veneti votano per la Lega, hanno fiducia in Salvini ma non comprano i titoli di Stato.

Come dire che si fidano del Governo quando parla di alcuni temi (sicurezza, immigrazione) ma non sull'economia, tanto che la vendita dei BTP Italia ha deluso le aspettative e molti portano i risparmi all'estero.

Gli italiani sono prudenti, perchè spaventati dallo spread, che in 6 mesi di governo è salito a livelli mai visti negli ultimi 5 anni, e temono effetti collaterali, come un aumento delle imposte per coprire un deficit che nella maggioranza si vorrebbe più grande e nei mercati più piccolo.

Qualche effetto a dire il vero s'è già visto: chi ha in portafoglio i titoli di stato (e lo stesso vale per chi ha azioni) è virtualmente più povero. Se vendesse oggi titoli acquistati un anno fa, incasserebbe meno di quanto ha speso.

Chi ha investito i risparmi in titoli di stato e vuol comprare qualcosa (ad esempio ha la possibilità di acquistare un'auto con lo sconto) o la necessità di usare i soldi (l'auto s'è rotta), rischia di subire perdite cedendo i titoli, e quindi rinvia l'acquisto o spende meno.

Lo spread in aumento e il timore che uno spread fuori controllo significhi più imposte o tagli futuri, spingono i consumatori a essere più prudenti negli acquisti. Se ne stanno accorgendo i commercianti, che da mesi registrano un lento calo delle vendite.

I partiti di governo che negli scorsi anni hanno ferocemente criticato i provvedimenti di Monti in quanto recessivi, dimenticano che il governo dei tecnici nacque da uno spread altissimo causato da un deficit fuori controllo. Si limitano a ricordare le scelte di Monti dimenticando il contesto.

Non hanno imparato la lezione e continuano a ripetere "i mercati capiranno" oppure "gli italiani ci aiuteranno" anche se i dati smentiscono il loro ottimismo.

Invece gli italiani e i mercati la lezione l'hanno capita. Stanno alla larga dai titoli pubblici e riducono i consumi temendo il futuro, con la conseguenza di neutralizzare la manovra: se l'obiettivo del governo è alimentare la crescita. il realismo degli italiani sta facendo rallentare l'economia al punto che diventa probabile una crescita negativa, vale a dire una recessione.


23 novembre 2018

Genova, non solo Morandi

E' di qualche giorno fa la notizia che l'autorità portuale di Genova e Savona ha pubblicato il bando per la progettazione della nuova diga foranea, la struttura che difende il porto e i cantieri navali dalle mareggiate. La nuova diga costerà un miliardo (in parte potrebbe essere pagato da una società cinese in cambio della partecipazione a alcune attività portuali, e sarà spostata al largo di 500 metri rispetto all'attuale, permettendo l'attracco di gigantesche navi porta container.

Genova oltre al porto ha anche il peggiore viadotto, il famoso Morandi crollato in parte il 14 agosto. Crollo che segnala la debolezza delle infrastrutture che collegano il più importante porto italiano con la pianura padana. L'autostrada A7 che va verso Milano è una delle più vecchie d'Italia, al punto che la carreggiata verso sud è la trasformazione di una strada degli anni '30.

Più moderna invece la A26 che da Genova porta verso il confine svizzero, ma è anche un'autostrada con qualche criticità. I viadotti verso Genova son molto alti, in alcuni casi superano i 100 metri, e qualcuno fa paura, al punto che Autostrade ha sospeso i trasporti eccezionali. Una sciagura per le industrie lombarde e piemontesi che possono usare soltanto la A26 per portare i carichi eccezionali al porto di Genova.

A questo si aggiungono i problemi del trasporto ferroviario. Le linee che collegano la Liguria con la pianura, indispensabili per il traffico merci, risalgono a fine '800. Il progetto di un terzo valico, ovvero di una ferrovia aggiuntiva, è in via di lenta realizzazione.

Insomma il porto può crescere purchè non ci siano vincoli. Così funziona l'economia: una crescita potenziale diventa effettiva se non ci sono vincoli. Non basta gioire per una fabbrica che può produrre di più, occorre che non ci siano altri vincoli a fermare la crescita.

Il crollo del viadotto progettato da Morandi è un vincolo in più per l'economia ligure e del nord ovest che utilizza il porto di Genova. Soffrono le industrie, soffrono i servizi legati al porto e ai trasporti, oltre ai cittadini che ogni giorno devono fare i conti con l'assenza di una parte molto frequentata dell'autostrada A10.

I costi del crollo in termini di danni provocati e di calo del fatturato per le imprese e quindi di minori imposte e contributi incassati dallo Stato, dovrebbe spingere il Governo a fare in fretta. Servono investimenti da effettuare in fretta per ricostruire il Morandi e ammodernare ferrovie e autostrade. Una buona alternativa all'impiego di risorse con finalità propagandistiche.

18 novembre 2018

Varoufakis italiani

Sabato 17 il Corriere ha raccontato che il ministro Savona avrebbe confessato ai collaboratori e ai membri del governo che la situazione è peggiore del previsto.

Si aspettava una Commissione Europea più conciliante e si ritrova un'Europa rigida, con il rischio di una procedura di infrazione per deficit eccessivo causato non da una forte spesa in investimenti, come suggeriva il ministro sardo, ma per finanziare la spesa corrente sotto forma di reddito di cittadinanza, un pò di flat tax e un pò di aggiramento della legge Fornero.

Savona (con il governo) mi ricorda Varoufakis; un economista poco ortodosso che da ministro delle finanze della Grecia assunse un atteggiamento spregiudicato nelle trattative per uno dei tanti salvataggi della Grecia. Varoufakis pensava che i partner europei, spaventati dalle conseguenze di un fallimento della Grecia, avrebbero accettato un accordo più favorevole ai greci. 

Le cose andarono diversamente perchè i finanziatori del debito greco non si fecero spaventare e il governo greco di cui Varoufakis faceva parte pensò anzitutto alle conseguente per il proprio paese in caso di mancato accordo e decise così di cedere alle pressioni della trojka.

A distanza di qualche anno il governo italiano sembra voler imitare le posizioni di Varoufakis. Di Maio e Salvini spiegano che tra pochi mesi la commissione UE in carica sarà un ricordo, ma non dicono cosa potrebbe succedere, lasciando che gli elettori immaginino l'arrivo di una commissione più accondiscendente, che accetti un deficit maggiore.

Probabilmente, però, ciò non accadrà. Un'Europa in cui dovessero trionfare i partiti sovranisti sarà un'Europa più ostile verso l'Italia, come dimostra la richiesta dell'Austria di aprire una procedura contro l'Italia. Saranno meno disponibili a ascoltare le ragioni dei paesi che chiedono di poter violare gli accordi presi, avranno paura che un paese poco virtuoso possa causare danni pure a loro e quindi non vedranno di buon occhio le richieste italiane.

Lo spread sta segnalando da tempo che un braccio di ferro con l'UE partirebbe da posizioni sfavorevoli. Una partita persa prima di giocarla. I ministri politici vorrebbero imitare Varoufakis che puntava a convincere la controparte sbandierando le conseguenze per l'Europa di un fallimento greco, mentre i più responsabili e consapevoli ministri tecnici puntano a non tirare la corda perchè la battaglia, come segnala lo spread a oltre 300 punti, rischia di essere persa prima di iniziare.


13 novembre 2018

Manifestazione Sì TAV

Sabato 10 novembre a Torino s'è tenuta la manifestazione Sì TAV, promossa da 7 donne (dirigenti, libere professioniste) e un ex sottosegretario ai trasporti, il forzista Giachino.

Nel mirino l'amministrazione comunale 5 stelle, guidata da Chiara Appendino, colpevole di immobilismo. E non potrebbe essere diversamente: i 5 stelle in Piemonte da sempre stati contrari alle grandi opere, hanno sbandierato lo spettro del debito eccessivo di Regione e comune di Torino e sollevato il sospetto che le opere pubbliche e buona parte della spesa pubblica siano solo strumenti per difendere interessi, distribuire incarichi a parenti e amici, ecc., insomma per mantenere in vita clientele utili ai partiti.

I manifestanti di sabato ricordano i 40 mila che manifestarono nel 1980, dopo settimane di occupazione della Fiat da parte degli operai, sostenuti dai sindacati, che a migliaia l'azienda in crisi aveva deciso di espellere dalle fabbriche. Era la rivolta di una borghesia insicura e impaurita da una crisi drammatica che rischiava di travolgerne le certezze.

E' assai probabile che molti tra i manifestanti Sì TAV abbiano votato Chiara Appendino, sperando in una svolta positiva, per i propri interessi e per la città. Si son trovati invece una svolta negativa in cui ogni progetto è valutato con timore di fare qualcosa che non coinvolge gli elettori e sprecare denaro pubblico.

Il tutto in un contesto economico negativo, nel quale il PIL rallenta, la spesa per interessi cresce, soprattutto a causa di dichiarazioni poco responsabili dei partiti di governo su deficit e rapporti con l'Europa in senso lato, l'occupazione diminuisce complici le nuove regole sul lavoro, e la locomotiva tedesca dà segni di stanchezza.

Così si chiede di portare avanti la TAV quasi per disperazione, ignorando gli effetti positivi sull'ambiente di un'opera che potrebbe togliere i TIR non solo dalla val di Susa ma anche dalla Val d'Aosta e da altri valichi stradali alpini. Si punta solo alla spesa, che può aiutare un sistema industriale piemontese per il quale la sindaca Appendino sta per chiedere lo stato di crisi.

Insomma non c'è niente di positivo nella manifestazione si sabato, solo paura e ritorno ad un passato che come ricorda Gad Lerner, ha aperto una stagione difficile per Torino.




06 novembre 2018

Senza Euro e con l'emissione di moneta

I sovranisti italiani immaginano un ritorno al 1980, anno in cui non esisteva l'euro e neppure il divorzio tra la Banca d'Italia e il ministero del Tesoro, avvenuto nel 1981.

Supponiamo allora di tornare a quel 1980 e cerchiamo di capire cosa potrebbe succedere nell'economia italiana.

Il divorzio del 1981 si realizzò con la decisione di togliere l'obbligo per la Banca d'Italia di comprare i titoli invenduti alle emissioni di titoli di stato. Tale obbligo consentiva al Tesoro di emettere BOT, CCT, BTP ecc ben sapendo che un compratore ci sarebbe stato. O, in altri termini permetteva allo Stato di spendere di più e collocare i titoli ai tassi stabiliti dal governo.

Viene da chiedersi perché servisse l'obbligo di acquisto dei titoli invenduti. La risposta è che ci si voleva tutelare contro il rischio che alle aste dei titoli di stato la domanda fosse inferiore all'offerta. Ma si voleva anche tenere i tassi e quindi la spesa per interessi a livelli più bassi.

Detta così si potrebbe concludere che il ritorno al 1980 potrebbe essere positivo: lo Stato spende più di quanto consentito dai vincoli europei e dal buon senso, e la spesa per interessi resta sotto controllo, se alle aste dei BOT e del BTP c'è la Banca d'Italia a comprare i titoli invenduti.

Ma c'è un rovescio della medaglia che molti ignorano, anzi più di uno

Se la Banca d'Italia entra nelle aste dei titoli di stato è forse perché mancano i capitali privati? Gli italiani sono grandi risparmiatori e il risparmio supera ogni anno il deficit statale, ma i risparmiatori-investitori non si fidano di titoli che offrono un tasso di interesse troppo basso e sanno che c'è un rischio svalutazione della moneta, quando è emessa in quantità eccessiva.

Quando la Banca d'Italia interviene per comprare i titoli di stato accade proprio questo: la banca emette moneta, più di quanta ne emettono altri paesi, e la moneta si svaluta.

Se dunque tornassimo all'euro e emettessimo moneta ovvero la Banca d'Italia avesse l'obbligo di comprare i titoli di stato al momento dell'emissione, finiremmo per avere un moneta destinata a svalutarsi, con conseguenze negative anche per le imprese.

Se i titoli di stato sono in una moneta che si svaluta, serve un rendimento sufficiente a coprire il rischio di perdite. E questo rendimento sarebbe richiesto non solo allo Stato ma anche a famiglie e imprese che ricevono prestiti.

Allora che senso ha immaginare un ritorno alla lira e soprattutto l'emissione di moneta da parte della Banca d'Italia? Lasciare una moneta che permette di pagare tassi molto bassi, per una moneta che si svaluta e quindi impone tassi alti, appare un suicidio, una mossa politica senza senso.


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