31 ottobre 2010

La rivoluzione con le pantofole


L'8 ottobre Eric Cantona parla della rivoluzione. Si, il grande ed irrequieto calciatore Cantona parlando degli scioperi in Francia tira in ballo le banche e dice che l'insofferenza dei cittadini si potrebbe risolvere con una rivoluzione.

Cosa dice Cantona?
Una possibilità c'è, c'è un qualcosa da fare. [...] La rivoluzione oggi è molto semplice da fare. Il sistema consiste in cosa? Il sistema gira intorno alle banche. Si fonda sul potere delle banche, quindi dev'essere distrutto partendo proprio dalle banche. Cioè, basta che 3 milioni di persone invece di andare in strada, a manifestare con i propri cartelloni etc., vanno in banca, ritirano i loro soldi e queste crollano. 3 milioni, 10 milioni di persone... e le banche crollano. E là c'è una vera minaccia, una vera rivoluzione. La rivoluzione si fa così oggi, non è complicato. Invece di andare in strada e fare kilometri con la propria auto, si va alla banca del proprio paese e si ritira il proprio denaro, e se c'è una grossa quantità di gente che ritira il proprio denaro, il sistema crolla. Nessun'arma, niente sangue, niente del genere.
E' stato anche creato un evento su facebook, in Italia, per invogliare quanta più gente possibile ad andare nel giorno prestabilito a ritirare i propri risparmi (vedi qui).

Ma cosa può succedere se una moltitudine di persone chiude i propri conti in banca in un tempo breve?

Semplice: una bella crisi, come quella scoppiata nel 2008.

La crisi è scoppiata dopo che per anni il debito degli americani è stato finanziato con capitali provenienti da tutto il mondo: si compravano case e si finanziavano i consumi con prestiti garantiti dal valore degli immobili.
Chi prestava capitali, a sua volta si finanziava emettendo titoli assai complessi garantiti dai mutui e quindi, indirettamente, garantiti dal valore degli immobili.

Quando il valore degli immobili ha iniziato a scendere, perchè si costruivano più case di quelle acquistate, le garanzie si sono dimostrate insufficienti e chi possedeva titoli, garantiti dai mutui, ha reagito al rischio di subire vendendo i titoli e ritirando i capitali dalle banche rischiose.

Proprio come suggerisce di fare Cantona per risolvere i problemi francesi.

La vendita dei titoli garantiti dai mutui ha innescato altre vendite. Il panico s'è impennato col fallimento di Lehman Brothers, che aveva raccolto grandi quantità di capitali in tutto il mondo per poi prestarlo ai propri clienti. Anche le banche che avevano prestato soldi a Lehman Brothers erano a rischio.

L'effetto immediato è stato il crollo del mercato interbancario: le banche non si prestavano più soldi tra loro e i capitali sono fuggiti dalle banche che possedevano titoli "a rischio". I clienti ritiravano i capitali dalle banche a rischio.

Ciò avrebbe potuto creare un disastro di proporzioni gigantesche, con il fallimento della maggior parte delle banche in tutto il mondo, se le banche centrali non avessero offerto liquidità alle banche in difficoltà.

Il fallimento di una banca di grandi dimensioni infatti causerebbe la crisi anche delle banche che le prestano soldi e il panico dei risparmiatori che non sanno se la loro banca è davvero solida.

La crisi del sistema bancario si è poi estesa all'economia reale, già in difficoltà per il crollo dei valori immobiliari: se il prezzo delle case scende è meno conveniente costruire case e ci sono meno garanzie per finanziare la costruzione e l'acquisto di case.

Quindi se qualcuno ritirasse i capitali, non farebbe altro che riproporre le condizioni che hanno innescato la crisi, che in termini concreti significa un aumento spaventoso della disoccupazione, imprese che chiudono e altre cose simili, assai poco piacevoli.

Qualcuno potrebbe dire: io prendo i soldi da una banca e li porto presso una banca più etica. In questo caso la banca etica forse aumenterebbe i prestiti ai propri clienti.

Certamente, se fossero in tanti a seguire questa soluzione, si troverebbe a gestire troppi soldi e li presterebbe ad altre banche. Magari le stesse da cui i capitali sono fuoriusciti per decisione dei risparmiatori.

Insomma, ritirare i risparmi è dannoso e, nella migliore delle ipotesi, inutile, perchè la banca che vede fuggire i capitali può rifornirsi nei mercati interbancari, dove fluiscono i capitali delle banche che raccolgono troppi soldi.

29 ottobre 2010

Da Terzigno a Palermo, passando per Marchionne

Tra un bunga-bunga e l'altro, il presidente del Consiglio e Bertolaso hanno spiegato cosa succede a Terzigno.

Bertolaso ha raccontato che fare la raccolta differenziata a Napoli è difficile per ragioni logistiche. Così i rifiuti finiscono, non differenziati, nell'inceneritore di Acerra, che per varie ragioni lavora poco e male, e in discarica.

Berlusconi ha spiegato che l'odoraccio che a Terzigno provoca le proteste della popolazione si deve alla mancanza dei previsti trattamenti per l'immondizia raccolta.

Perchè non si tratta l'immondizia nel modo dovuto? Secondo Berlusconi perchè Asia, che raccoglie i rifiuti a Napoli è in crisi. Il comune di Napoli non paga come dovrebbe e Asia risparmia.

E' un male diffuso in molti enti locali del sud. Le asl in Campania pagano lavoratori e fornitori con forti ritardi perché la Regione ha pochi soldi. E lo stesso accade a Palermo, dove l'azienda che raccoglie i rifiuti è quasi fallita, i gestori delle discariche hanno chiuso i cancelli perchè non vengono pagati e l'immondizia è rimasta nelle strade.

Quando la situazione diventa insostenibile arriva la protezione civile, paga e, grazie all'esercito, ripulisce le città.

Una delle ragioni, certo non la sola, della crisi è l'eccesso di personale: le municipalizzate, le asl e gli enti locali al sud hanno personale in eccesso, assunto per ovviare alla mancanza di alternative lavorative e per creare consenso.

C'è da chiedersi se il personale lavori davvero o se incassi lo stipendio e svolga un altro lavoro. Il dipendente pubblico che non lavora danneggia la collettività in vari modi: incassa uno stipendio senza far nulla, alimenta il sommerso e sollecita i lavoratori del settore privato a fare altrettanto.

Forse si spiega così l'assenteismo lamentato da Marchionne che parla di anarchia come era successo qui due mesi fa. Se esiste una forte economia sommersa, una piccola parte dei lavoratori del settore privato "si ammala" e lavora altrove, forte dell'esempio di un dipendente di una municipalizzata che prende lo stipendio per farsi gli affari suoi.

Marchionne ha posto il problema dell'efficienza e della produttività,ma è il solo. Nessuno si domanda: ma cosa succederà alla raccolta dei rifiuti se le imprese che svolgono il servizio non hanno un solo euro da investire nella differenziata e non riescono neppure apagare regolarmente i fornitori?

Bertolaso con i suoi poteri speciali può risolvere la situazione per qualche tempo, ma senza soldi il Comune di Napoli non può aumentare la percentuale di raccolta differenziata e probabilmente prima o poi le strade resteranno bloccate, piene di rifiuti. E' successo a Napoli ma anche a Palermo, in comuni amministrati dalla destra come in comuni amministrati dalla sinistra.

E' facile immaginare cosa succederà: una volta cambiato il sindaco a Napoli arriveranno i soldi, come successo a Roma. I lavoratori in eccesso resteranno nelle rispettive aziende e, se servirà, torneranno Bertolaso e l'esercito.

Di rendere le municipalizzare più efficienti e con i conti a posto non ci pensa nessuno.

27 ottobre 2010

Foglie americane


La prossima settimana negli USA si terranno le elezioni di medio termine e i referendum. E' un voto all'insegna delle foglie, tea e marjuana.

Foglie del Tea

Le elezioni di medio termine sono una tradizione inventata dai costituenti per evitare una concentrazione eccessiva di potere, frutto di un'elezione sola in cui una parte politica vince magari con argomenti populistici.

Così hanno scaglionato le elezioni. Non si elegge il Parlamento in una sola occasione, ma ogni due anni si elegge una parte dei deputati e dei senatori.

La novità di quest'anno è il Tea Party, ovvero l'ultradestra rappresentata da Sarah Palin intenzionata a far piazza pulita di Obama e dei repubblicani moderati.

E' un effetto collaterale dello spostamento a destra dei repubblicani durante la presidenza Bush: una parte degli elettori cerca una destra ancora più radicale, col forte sostegno economico delle lobby che vogliono ricominciare a occuparsi solo dei loro interessi.

Regole e sanità sono i nemici da combattere per questa destra dalle maniere poco gentili (come dimostra questo video) e col portafoglio riempito da chi, per interesse, vuol spazzare via regole e riforme (come avevo raccontato qui).

I rappresentanti del Tea Party hanno scalzato, all'interno del partito Repubblicano, molti candidati moderati.

E' una buona notizia per Obama, eletto anche da repubblicani moderati scontenti di un Bush troppo a destra, ma gli esponenti del Tea Party rischiano di mettere in pericolo le riforme di Obama e di restituirci un'America ancora più selvaggia. Se così fosse dal 2012 dovremmo aspettarci poco di buono, in economia come in politica estera.

Foglie di cannabis

Per non apparire troppo di sinistra Obama cerca di bloccare gli effetti del referendum californiano (ne avevo parlato a marzo, vedi qui) che liberalizzerebbe l'uso della cannabis e farebbe incassare soldi alle casse della California.

La destra repubblicana ottenne nel 1979 con un referendum di imporre un limite alle imposte sugli immobili e oggi lo stato affacciato sul Pacifico ha le casse vuote. Può solo tagliare le spese o sperare in una ripresa economica forte.

La cannabis darebbe una mano grazie a maggiori entrate e minori spese per mettere consumatori e spacciatori in galera. Ma, paradossalmente, rischia di dare una mano alla destra ostile a chi consuma droghe. Per questo Obama si oppone e cerca il modo di neutralizzare un referendum politicamente pericoloso ma economicamente utile, come dimostra il sostegno di Soros (vedi qui).

25 ottobre 2010

L'artigiano introvabile


La notizia sembra clamorosa: nel paese dove la disoccupazione sfonda ormai l'11%, a sentire gli "esoterici" dati della Banca d'Italia (confermati anche da studi indipendenti, però), non si troverebbero installatori, falegnami, cuochi e panettieri!

Ma come?!? L'italico popolo di antica perizia artigiana condannerebbe le imprese a un'affannosa e infruttuosa ricerca di introvabili operai?

E soprattutto perché i giovani non vorrebbero più impegnarsi in attività manuali?

Secondo me la realtà è un'altra.

Alcuni miei amici, in seguito alla crisi, sono stati licenziati dalle rispettive imprese. Si tratta di artigiani bravissimi, appunto installatori, falegnami, fabbri, tappezzieri.

Hanno mandato centinaia di curriculum, disposti anche a trasferirsi ovunque, eppure non trovano lavoro. Nessuna impresa è disposta ad assumerli!
E potete immaginare che non vanno troppo per il sottile, in quanto hanno famiglia da mantenere e mutuo da pagare!

Vogliamo allora dirla tutta sulle figure che le imprese cercano?

Le imprese cercano ragazzi di 22-25 anni da assumere con il contratto di apprendistato a 800-900 Euro al mese, oppure con contratti a termine, che quando scadono non vengono rinnovati.
Perché un operaio specializzato costa 1500 Euro al mese, netti, quindi 3000 lordi, compresi TFR, INAIL, IRAP!
E quindi costa troppo.

Allora diciamo le cose come stanno: non è vero che le imprese non trovano operai. Le imprese non trovano operai alle condizioni che vogliono loro. Perché se io fossi oggi un ragazzo di 22-23 anni ci penserei molto bene prima di accettare un contratto dove mi danno 800 Euro al mese finché dura il contratto di apprendistato. E poi finito il contratto un calcio nel sedere!
Perché poi arrivata l'età in cui non posso più essere assunto come apprendista improvvisamente il lavoro non lo trovo più, perché - guarda caso - costo troppo!

Il sud, il turismo e l'esperimento del frigorifero


Si sente spesso dire che il sud dovrebbe puntare le carte del suo futuro economico sul turismo, disponendo di mare, sole, arte, tradizioni culturali e culinarie. Ma è vero?

Ho fatto un piccolo esperimento: ho aperto il frigorifero cercando i prodotti italiani che dispongono di una etichetta che spiega dove sono stati prodotti o, se sono prodotti stranieri, chi gestisce la distribuzione in Italia. Ho scoperto che la maggior parte di essi arriva dalla mia regione, il Piemonte, e da due regioni vicine: Lombardia e Emilia Romagna. Il resto dal nord est.

Poi ho chiesto a Mattia, che abita in Campania, di fare altrettanto. Su sei prodotti, tre arrivano dalla Campania, uno dall'Abruzzo, uno dalla Toscana e uno dalla Lombardia. Metà dal sud e metà dal resto d'Italia.

L'esperimento, per quando grossolano, rende bene l'idea della diversa distribuzione sul territorio nazionale delle imprese industriali, anche se parliamo solo dell'industria alimentare. I soldi di chi fa la spesa al nord finiscono alle imprese locali più di quanto accada al sud.

E lo stesso accade con il turista. Chi trascorre una vacanza al mare in Sicilia o tra le nevi del Trentino, consuma beni e servizi. Paga stanze di hotel, mangia al ristorante, beve caffè o aperitivi nei bar, consuma la pizza o il gelato.

Pagare un hotel a Taormina significa, magari senza rendersene conto, pagare l'azienda che ha prodotto il rubinetto, quella che ha pagato l'armadio e quella che ha inscatolato i pomodori che finiscono sulla pizza.

Se queste aziende non si trovano in Sicilia o al sud, succede che 100 euro spesi da un turista a Taormina aiuteranno l'economia locale meno di 100 euro spesi a Rimini.

Il turismo è una buona carta da giocare, ma perché aiuti davvero la crescita economica di un territorio richiede un buon tessuto industriale capace di soddisfare la domanda di beni e servizi del turista. Altrimenti i soldi del turista creeranno occupazione altrove.

Dunque perchè il turismo serva a sviluppare il sud occorrerebbero industrie forti e competitive, capaci di offrire ai turisti gran parte dei beni e dei servizi che consumano. Ma se tali aziende ci fossero, perchè si dovrebbe sperare che sia il turismo a trainare l'economia del sud?

22 ottobre 2010

Che pensione ci aspetta - parte 3


In quest'ultima parte cercherò di rispondere alla domanda: "conviene investire in un fondo pensione"?

Per essere più precisi i fondi pensione di cui parlerò sono i fondi pensione APERTI. La differenza tra quelli aperti e quelli chiusi è che ai fondi pensione aperti possono accedere tutti, in quelli chiusi invece possono accedere solo gli appartenenti a certe categorie. Esempio, al fondo "Cometa" possono accedere solo i metalmeccanici.

Tutti i fondi senza eccezione sono meccanismi a capitalizzazione, cioé quello che verso mi tornerà indietro sotto forma di rendita o capitale, a seconda del regolamento del fondo.
Cominciamo ora ad esplorare i vantaggi fiscali, che sono uno dei cavalli di battaglia di chi vende fondi.

Innanzitutto i versamenti sono deducibili dall'IRE per un importo massimo di Euro 5.164,57. Dalla mia esperienza personale si riesce ad accantonare in un fondo al massimo il 10% del proprio reddito, quindi un reddito medio di circa 26.000 Euro l'anno riuscirà ad accantonare, diciamo ottimisticamente, 3.000 Euro.
Il risparmio fiscale, per effetto sia della deducibilità che della minore aliquota, è pari a circa 756 Euro (trascurando le addizionali).

Veniamo poi ai rendimenti. La tassazione dei rendimenti è di quanto più favorevole ci sia in circolazione: sono tassati all'11% (i BOT sono al 12,50%). Ma questo deve rimanere un fattore marginale, per i motivi che esporrò più avanti.

Veniamo poi alla tassazione del montante. Come già anticipato il montante viene tassato una volta sola al momento dell'erogazione secondo un meccanismo a scalare: fino al 15° anno di permanenza nel fondo è tassato al 15%. Poi, per ogni anno a seguire, la tassazione scala dello 0,30% all'anno fino ad arrivare ad un minimo del 9% al 35° anno di permanenza.

Facciamo ora un paio di conti per vedere cosa esce fuori da questo calcolo.

Come ipotesi poniamo di accantonare 3.000 € l'anno per 30 anni, che il rendimento medio composto sia del 2,25% all'anno e il risparmio fiscale sia di 756 € l'anno. Ovviamente queste ipotesi sono un po' semplicistiche, ma per fare una simulazione seria andrebbe costruito un caso "ad personam".

Orbene, dopo 30 anni la situazione è la seguente:

1. versamenti totali: 90.000 €
2. Risparmio fiscale in 30 anni: 22.500 €
3. Montante lordo: 123.445 €
4. Tasse sul montante: 12.962 € (tassate al 10,50%)
5. Montante netto: 110.483 €

Il montante a questo punto viene liquidato sotto forma di rendita o di capitale. Viene fatto un calcolo considerando come limite (attualmente) i 92 anni, quindi si divide il montante per 92 meno l'età di pensionamento (ho considerato 67 anni) e si trova la rendita annua, che divisa per 12 fa la pensione mensile.

Ebbene, nel caso da me proposto la pensione mensile è pari a circa 500 Euro al mese.

Ora cerchiamo di fare alcune considerazioni.

1. 500 Euro al mese possono sembrare pochissimi, ma consideriamo che nell'esempio ho versato 250 € al mese per 30 anni e ne ho presi 500 per 25 (92 meno 67), direi che comunque non è male.
2. Effettivamente il risparmio fiscale si fa sentire, per fare un calcolo esatto dovrei anche considerare quei 22.500 € di risparmio fiscale cumulati in 30 anni e soprattutto la tassazione al 10,50% del montante finale. Non ci dimentichiamo che i depositi bancari sono tassati al 27%, buona parte delle rendite finanziarie al 12,50% e gli immobili saranno presto tassati al 20%.
3. Veniamo ora al rendimento. Io ho ipotizzato un rendimento composto al 2,25% in quanto parto dal principio che in un prodotto come un fondo pensione sia fondamentale la sicurezza e preservare il capitale. Quindi di base ho scartato tutti i fondi basati su azioni e anche quelli basati su obbligazioni, in quanto se qualche società contenuta nel fondo fallisce, le perdite in conto capitale sono gravi e con la pensione non si scherza (anche se integrativa). In pratica sono andato a considerare tutti i fondi che offrono una garanzia di rimborso del capitale al 100% e un tasso garantito minimo (che sul mercato va dallo 0 al 2,5% annuo). I rendimenti medi di tali fondi si collocano in media su questo valore del 2,25%.

Infine la domanda finale: conviene o no?

A mio parere conviene se sono soddisfatti i seguenti presupposti:

1. la nostra aliquota media sia oltre il 20%
2. scegliamo una linea garantita rinunciando ai miraggi di rendimenti mirabolanti
3. Molto prosaicamente riconosciamo che le pensioni non saranno mai più come quelle dei nostri padri

Nota: quello scritto sopra NON si riferisce ai TFR dei dipendenti.

20 ottobre 2010

Che pensione ci aspetta - parte 2


Passiamo ora ad analizzare i sistemi pensionistici pubblici e privati dal punto di vista fiscale.

La pensione pubblica, e con pubblica intendo sia quella dell'INPS che quella erogata da qualunque sistema pensionistico che si basi su criteri analoghi a quelli pubblici.
I contributi INPS sono deducibili dal reddito delle persone fisiche quando sono versati ma sono poi tassati quando sono erogati. In pratica l'INPS eroga una pensione lorda annua che va a sommarsi a tutti i redditi del pensionato. Sul totale viene pagata l'IRE.

I sistemi pensionistici privati, in primo luogo i fondi pensione aperti e chiusi, usano invece un meccanismo completamente differente. Come i contributi INPS sono deducibili dal reddito (fino circa 5000 Euro l'anno), ma poi il montante, cioé la somma di tutti i versamenti e rendimenti accumulati fino all'età della pensione, viene tassato una sola volta e basta.

La percentuale di tassazione è pari al 15% meno lo 0,3% per ogni anno successivo al 15° fino ad arrivare ad una percentuale minima del 9%.

Si parla qui di una pensione integrativa a quella pubblica.

Infatti i calcoli con il sistema contributivo sono molto facili da fare: quello che verso riavrò indietro. Se il sistema è pubblico sarà rivalutato (in genere) secondo l'indice di inflazione, se è privato a seconda di come vanno gli investimenti dentro il fondo.

Nella terza ed ultima parte esporrò alcuni esempi e farò alcune considerazioni se conviene o no investire in una pensione integrativa privata

19 ottobre 2010

Il petrolio farà crollare il PIL di chi lo produce?

All'inizio degli anni ottanta, durante la seconda crisi petrolifera, gli esperti di petrolio pronosticavano scorte esaurite tra il 2000 e il 2010, e prezzi, di conseguenza, in costante crescita.

Siamo nel 2010 e il petrolio sgorga ancora dai pozzi, mentre i prezzi, dopo qualche fiammata legata alle vicende mediorientali, da un paio d'anni non fa più paura.

Anzi è di questi giorni la notizia, riportata dal Sole 24 Ore (vedi qui) che in uno studio dell'OPEC sulle prospettive a lungo termine dei paesi produttori si legge che nei prossimi 50 anni il risparmio energetico dei paesi industrializzati farà scendere il PIL dei produttori di petrolio di una percentuale stimata tra il 27 e il 44%.

Eppure 2 anni fa, nell'estate del 2008, si è parlato parecchio di scorte petrolifere. Il prezzo del petrolio (come di molte materie prime) nel 2008 è salito fino a quasi 150 dollari al barile e c'era chi arrivava a immaginare un barile a 400 dollari (vedi qui). La tesi prevalente diceva: d'ora in poi il consumo di petrolio sarà sempre superiore ai nuovi giacimenti, dunque il prezzo salirà costantemente.

L'esperto di Nomisma-energia non ha fatto bella figura. Dichiara cieca fiducia nel mercato, ma non si dimostra abile nel capire perché il prezzo salisse, attribuendo l'aumento del prezzo all'aumento della domanda.

Nel 2008 il prezzo del petrolio è più che raddoppiato in pochi mesi, passando da 70 a oltre 140 dollari per poi tornare altrettanto velocemente a 70 $. Poteva essere solo effetto di variazioni della domanda?

A mio avviso no, sia perchè la domanda varia ma non tanto velocemente da giustificare un tale aumento (e successiva diminuzione) del prezzo, sia perché bastava leggere i giornali nell'estate 2008 per sapere che sui mercati si scambiavano non veri barili, ma futures (1) relativi a quantità pari anche a 10-15 volte il petrolio realmente estratto.

C'era quindi una componente speculativa sotto gli occhi di tutti. Non era l'aumento della domanda reale di petrolio a provocare un aumento dei prezzi, quanto la speculazione, stimolata da capitali offerti dalle banche.

Una volta crollata Lehman Brothers, è terminata la speculazione e il prezzo è sceso velocemente, segno che i capitali per fare incetta di futures arrivavano dalle banche e non da chi comprava petrolio.

Cosa succederà al prezzo del petrolio?

Ovviamente non possiamo dirlo, ma solo fare ipotesi che, se riferite a un futuro lontano, hanno scarso valore e bassa probabilità di essere corrette. Questo perchè i consumi di petrolio dipendono da molte variabili altrettanti difficili da prevedere.

Si può però spiegare perchè i paesi produttori prevedono un calo nei prossimi decenni.

Nei primi anni ottanta la risposta alle crisi petrolifere degli anni '70 (quella del 1973 e quella del 1979) fu il risparmio energetico. Le case automobilistiche produssero auto più piccole e leggere con motori di cilindrata ridotta che consumavano di meno. I risparmi si estesero a tutti i settori in cui si consumavano i prodotti petroliferi, diventati più cari.

Le guerre in medioriente e i problemi ambientali stanno spingendo gli stati a investire ingenti risorse nella produzione di energie pulite, soprattutto eolico e solare. I paesi petroliferi si stanno preoccupando di fronte alla prospettiva che europei e americani investano molto nel risparmio energetico e per questo immaginano un futuro meno roseo.


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(1) questi contratti sono nati per dare garanzie a chi produce: si stabilisce, prima che il petrolio sia estratto o prima del raccolto del mais, il prezzo di vendita, dando a un soggetto diverso dal produttore il diritto di comprare a quel prezzo. Chi possiede il diritto si assume il rischio del cambiamento del prezzo, mentre il produttore è certo di ottenere la somma pattuita

16 ottobre 2010

Nel paese dei Moratti

Da qualche settimana è in libreria Nel paese dei Moratti di Giorgio Meletti, editore Chiarelettere.

Il libro prende spunto dalla morte di tre operai di una ditta che svolge lavori di manutenzione nello stabilimento di Sarroch, in Sardegna, della SARAS, società dei fratelli Moratti, per raccontare il contrasto tra l'immagine, molto positiva, di una famiglia molto tradizionale, politicamente schierata con tutti, dai neofascisti finanziati da Angelo Moratti (1) ai verdi che ospitano la moglie di un petroliere, passando per la comunità di San Patrignano, il comune di Milano e Emergency.


Rapporti umani, interessi, paternalismo, politica, soldi e campagne stampa si mescolano in un libro che vale la pena leggere perché disegna un quadro interessante delle contraddizioni di alcuni grandi capitalisti italiani.

Non è di questo, però, che voglio occuparmi, ma di un aspetto forse secondario del libro, ovvero di “risparmi traditi” (2). Quelli di chi ha sottoscritto le azioni della Saras nel 2006 pagandole 6 euro l'una e oggi se le ritrova a circa un euro e mezzo senza che le azioni abbiano mai superato il prezzo di collocamento

Nella primavera del 2006, infatti, la società petrolifera creata dei Moratti accede alla borsa, ufficialmente per lanciare un (modesto) aumento di capitale. In realtà i due fratelli Moratti (le sorelle sono state escluse, da Angelo Moratti, dalla gestione della società) vendono oltre un terzo del gruppo (3), incassando 1 miliardo e 710 milioni.

Soldi incassati grazie a una quotazione generosa: 6 euro per azione. Una somma che le azioni Saras non raggiungeranno mai, una volta quotate, benchè per 5 volte la banca JPMorgan (che assume uno dei figli dei fratelli, nonostante un curriculum fatto di studi di sociologia e storia dell'arte) consigli di acquistare le azioni della società petrolifera. Anzi la sola cosa che succede è un costante calo, salvo naturalmente qualche ripresa, come mostra il grafico (cliccateci sopra per ingrandirlo), tanto che oggi il valore di un'azione Saras è di circa 1 euro e mezzo.

Il calo del valore dell'azione Saras solleva interrogativi e sollecita un'inchiesta del pm Orsi. Come mai si è giunti a fissare il prezzo a 6 euro? Sopravvalutando il valore di un'azienda del gruppo, la Sarlux, che produce energia usando residui della raffineria, spacciati per fonti energetiche assimilate alle energie rinnovabili.

Ma perché 6 euro? Si pensa che i responsabili del prezzo siano i fratelli Moratti, ma Massimo dichiara al magistrato di non capire molto di borsa e valutazione di aziende, pur sedendo in numerosi consigli di amministrazione di imprese importanti.

Non restano, per capire, che email e perizie tecniche per capire.

In una di queste un dirigente imporante di JPMorgan in Italia, Federico Imbert, scrive che il prezzo non deve scendere sotto i 6 euro, mentre il suo collega Sancho spiega a un collega: devi sapere che “abbiamo ottenuto 1,6 miliardi di euro, cioè da entrambi i fratelli, ma uno dei due deve ripagare 500 milioni di debiti” (4)

Si tratta forse di Massimo Moratti, presidente dell'Inter? A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, ama dire Andreotti.

Gli indizi sono due, tre considerando l'email di Sancho.

Il primo è l'annuncio di Gianmarco Moratti: terremo i 1710 milioni a disposizione del business di famiglia. Ma di nuove imprese targate Moratti capaci di assorbire tutti questi soldi non ce n'è traccia. Anzi, come documentato da Repubblica (vedi qui), le iniziative dei Moratti non hanno prodotti risultati, ma solo elargizioni di contributi pubblici.

Il secondo sono i conti: da quando Moratti è possiede l'Inter, la società ha perso 1250 milioni di euro. Certificati da Grant Thornton, celebre per aver “sottovalutato” i debiti di Parmalat.

Da alcuni anni l'Inter è una proprietà personale di Massimo Moratti, che detiene il 97% delle azioni dopo aver comprato le quote di altri soci, tra cui Pirelli di Tronchetti Provera. Paga lui le perdite dell'Inter, sempre superiori ai dividendi ricevuti dalla Saras.

Nel 2005 Moratti ha incassato 85 milioni di dividendo da Saras e l'Inter ha perso 115 milioni. Nel 2006 ha incassato 44 milioni e l'Inter ne ha persi 181. Nel 2007 e nel 2008 i dividendi sono saliti a 50 milioni annui e le perdite dell'Inter sono salite rispettivamente a 207 e 158 milioni, per finire con il dividendo azzerato nel 2009, mentre l'Inter continuava a perdere: 154 milioni.

Come credere che i 1710 milioni incassati con la vendita sponsorizzata da JPMorgan siano rimasti a disposizione della famiglia Moratti in attesa di essere investiti in nuovi business?


Per info sul libro ecco la presentazione dell'autore http://www.youtube.com/watch?v=PMQXOqKNI8Y

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(1) Fabio Tamburini, Misteri d'Italia, Longanesi, 1996 pag. 180

(2) l'espressione è presa in prestito dal titolo di un libro del prof. Scienza, Il risparmio tradito, Edizioni Libreria Cortina (vedi qui)

(3) il 38% per l'esattezza, 285 milioni di azioni, pag. 126

(4) pagg. 128-9

13 ottobre 2010

Che pensione ci aspetta - parte 1


Ho diviso l'articolo in più parti, in quanto altrimenti sarebbe venuto troppo lungo....

Il direttore dell'INPS ha appena affermato - seppure con una battuta - che sul sito dell'INPS non sono presenti simulazioni di pensione per i parasubordinati per evitare disordini di piazza. Vediamo di capire un po' meglio come funziona il sistema per fare poi qualche considerazione.

Vi sono 2 sistemi pensionistici: retributivo e contributivo

Con il sistema retributivo la pensione è calcolata in percentuale sull'ultima retribuzione, indipendentemente da quello che si è versato. Esempio: prima di andare in pensione il mio stipendio era di 2000 Euro al mese, se vado in pensione con il retributivo al 75% la mia pensione sarà di 1500 Euro al mese. Stop.

Con il sistema contributivo invece quello che io verso viene accumulato e poi diviso per la speranza di vita residua. Esempio: Se io verso 3.000 Euro per 30 anni, considerando un coefficiente di rivalutazione del 2,25% alla fine avrò accumulato (circa) 123.000 Euro. Questo montante devo poi dividerlo per la durata media residua degli individui. Cioé se vado in pensione a 65 anni, devo dividere per 20 anni (sempre circa, perché il capitale si rivaluta intanto...). Il calcolo è semplice, sono circa 6.150 Euro lordi! Cioé 512 Euro al mese!
Oltretutto il calcolo è lordo, perché poi devo pagarci le tasse!

Se consideriamo i lavoratori parasubordinati le cui aliquote contributive sono il 26,72% (il 17% se hanno un'altra cassa di previdenza) la questione diventa ancora più drammatica.

Il problema vero infatti è quanto si guadagna. Se un parasubordinato (co.co.co, co.co.pro o professionista iscritto alla gestione separata) quadagna lordo 1.200 Euro al mese, netto tolte le spese 1.000. Il reddito annuale è pari a 12.000 Euro l'anno da cui devo togliere 3.206 Euro di INPS e 1.226 Euro di tasse. Gli restano 7.568 Euro l'anno, cioé 631 Euro al mese?!?

E' facilmente intuibile che con questi numeri siamo a livello di sopravvivenza e il nostro povero parasubordinato, specie se è un professionista, cercherà di evadere il più possibile in modo da pagare meno INPS possibile e avere più soldi in tasca (per mangiare), oppure di farsi pagare una parte dello stipendio in nero!

Si intuisce anche che il famoso conflitto tra padri è figli è quanto mai stridente: i pensionati attuali sono andati in pensione tutti con il retributivo, inoltre altri sono andati in pensione con le baby pensioni (alcuni anche a 50 anni!) e praticamente nessuno di loro ha versato quanto prende attualmente.
Ovviamente non per colpa loro: per gli autonomi fino agli anni '70 non c'era neppure la possibilità di versare, per i dipendenti negli anni '50 c'erano le "marchette".
In pratica i lavoratori oggi versano moltissimo e prenderanno molto poco. Chi è andato in pensione con il contributivo, specie con qualifiche alte - e non è un mistero che molti dipendendenti pubblici gli ultimi 5 anni diventavano tutti dirigenti - prende in proporzione a quello che ha versato moltissimo.

Nel prossimo articolo esporrò la differenza tra sistema pensionistico pubblico e privato

11 ottobre 2010

Un Nobel per tre

Diamond, Pissaredes e Mortensen si sono aggiudicati il premio Nobel per l'economia 2010 per gli studi su come le politiche economiche e la regolamentazione influiscono sul mercato del lavoro.

Com'era successo l'anno scorso (vedi qui), il premio Nobel finisce a chi mette in luce i limiti del libero mercato e propone un ruolo attivo dello stato.

Con la crisi sembrano cambiati i criteri di assegnazione del premio e c'è chi parla di un Nobel di sinistra, ricordando che in passato siano stati premiati economisti liberisti.

Può sorprendere leggere che la politica economica influisce sul mercato del lavoro, dopo che in molti hanno affermato il contrario. Tra questi Milton Friedman, famoso tra i liberisti per aver sostenuto l'esatto contrario di Diamond, Mortensen e Pissaredes, vale a dire che la politica economica è ininfluente, se non dannosa, per la crescita economica e la disoccupazione.

Vien voglia di chiedersi: chi ha ragione? Forse chi assegna il Nobel ha cambiato idea?

In realtà Friedman è come quel portiere (Rampulla) celebre per aver segnato un gol e non per le parate. Friedman non è stato premiato per aver negato l'utilità delle politiche economiche, avvalendosi della teoria delle aspettative razionali, ma per i contributi alla teoria del consumo e alle teorie monetarie.

La teoria aspettative razionali, da cui partiva Friedman, non ha credibilità e ha subìto un definito affossamento nel 2001 con il Nobel a Stiglitz, Akerlof e Spence, proprio come il Nobel 2010 nega le conclusioni di Friedman dicendo invece che la politica economica conta per i disoccupati.

Chi assegna il Nobel dunque non si è contraddetto. Non ha appoggiato teorie che si contraddicono. Ha invece dato ulteriore peso alle teorie che da tempo diventano sempre più credibili, ribadendo implicitamente che invece i liberisti basano le loro teorie su fondamenti deboli e giungono a conclusioni affrettate.

Il federalismo fiscale e l'enigma della tassazione

Quello che si capisce fino ad ora del federalismo fiscale è che non ci capisce niente.

In teoria - parole di Tremonti - il più sarebbe fatto, ma in realtà a parte le linee guida, quasi tutto sarebbe demandato a dei regolamenti e non a delle leggi.

Il poco che si capisce è che, a mio parere, le tasse in generale aumenteranno.

Dunque, allo stato attuale le regioni avranno una compartecipazione dell'IVA e potranno aumentare l'IRPEF. Quindi l'IVA in parte andrà allo stato e in parte alla regione e l'addizionale IRPEF diverrà una parte importante della tassazione, in quanto dal 2013 per le regioni in "rosso" potrà essere aumentata fino al 3%.

In più a questo vanno aggiunte le tasse sugli immobili trasferite ai comuni.

E infine le regioni potranno azzerare l'IRAP.

Quali saranno gli effetti di tutto ciò?

Dunque, cerchiamo di assemblare i tasselli: l'IRAP attualmente è una tassa che grava solo sulle imprese e il cui gettito è vincolato al finanziamento della sanità regionale.
In effetti il fatto che le imprese finanzino la sanità della regione dove hanno gli stabilimenti è abbastanza assurdo, però così stanno le cose ora.
L'Irap potrà essere sostituita dall'addizionale IRPEF, spostando quindi la tassazione dalle imprese alle persone fisiche.

Questo ha almeno due importanti conseguenze: da un lato il gettito diventa più certo, in quanto come si sa l'IRPEF è pagata essenzialmente dai dipendenti e dai pensionati. Dall'altro lato darà il via ad una vera e propria concorrenza tra le imprese a stabilirsi nelle regioni con l'IRAP più basso.

Infatti l'IRAP in alcune regioni oggi è sopra il 4,50% e se venisse abolita, si tratta di una grossa differenza.
Ma possono abolirla SOLO le regioni in ordine con i conti, quindi tutte le regioni del sud saranno inevitabilmente tagliate fuori!

E direi che questo aspetto non pareggia minimamente il fondo perequativo che è stato previsto!

Non sarebbe meglio una riforma sullo stile delle province autonome? Dove le regioni trattengono una quota di tributi erariali comunque stabiliti dallo stato per evitare questa competizione tributaria?

10 ottobre 2010

La fiera del tartufo e le nuove tecnologie


Qualche anno fa il Presidente della Repubblica Ciampi, ha chiesto agli imprenditori della provincia che stava visitando quali fossero i problemi delle loro aziende e del territorio. Da ex governatore della Banca d'Italia, Ciampi voleva capire e magari dare una mano.

Gli imprenditori hanno iniziato a illustrare la festa enogastronomica locale, parlando dei vini, dei funghi, della polenta, dei salami e di altri prodotti tipici della zona.

Un pò irritato, Ciampi ha insistito per parlare di imprese, ma senza successo. I suoi ospiti hanno continuato a parlare della fiera locale.

Uscito dall'incontro a porte chiuse, Ciampi ha manifestato la sua irritazione con qualche giornalista che ha riportato l'accaduto.

Mi è venuta in mente questa storia, di qualche anno fa, quando ho visto in tv il presidente della Regione Piemonte Cota che inaugurava la fiera del tartufo ad Alba.

Non ci sarebbe nulla di male se non fosse di questi giorni la notizia che è saltato il possibile accordo con una multinazionale americana per sviluppare presso il Politecnico di Torino nuovi materiali, destinati ad allungare la vita delle batterie.

Una proposta allettante -sviluppare nuovi materiali e costruire batterie- specie a Torino, città dell'auto e soprattutto adesso che il governo ha tagliato i soldi alla ricerca universitaria e che per 5 mesi ha evitato di sostituire il "distratto" Scajola.

Eppure il leghista Cota, che nei mesi scorsi ha annunciato contributi a favore di chi crea nuove imprese in Piemonte, è riuscito a far fuggire la Rockwood, dopo che l'assessore regionale Giordano, sindaco leghista di Novara, ha comunicato il proprio interesse a Rockwood e dopo che il Politecnico ha presentato un progetto.

Non restava che decidere se finanziarlo. I tempi stringevano. Rockwood aveva fretta e voleva una risposta. Il 13 settembre era prevista la riunione della giunta regionale.

Cos'hanno deciso? Nulla, il tema non è neppure stato inserito all'ordine del giorno.

Qualche settimana dopo Rockwood ha fatto sapere di aver firmato un accordo. Con un'università tedesca. Spariti una dozzina di posti da ricercatore e una fabbrica di batterie con 200 posti.

In compenso Cota non ha fatto mancare la sua presenza all'inaugurazione della fiera del tartufo d'Alba.

09 ottobre 2010

Perché le monete non sono più convertibili in oro

Oggi le monete non sono più convertibili in oro mentre un tempo lo erano (o almeno era convertibile la base monetaria). Cosa è cambiato?

Immaginate di fare un viaggio in Inghilterra. Al ritorno avete in tasca alcune banconote. Andate in banca, le consegnate allo sportello e subito vi trovate accreditato l'equivalente in euro.

La banca compra le vostre sterline e le rivende subito dopo sui mercati valutari dove si scambiano ogni giorno somme enormi e dove si fissa il prezzo incrociando innumerevoli domande e offerte di sterline, euro, dollari, ecc.

Alan Greenspan racconta che la sua prima preoccupazione dopo gli attentati dell’11 settembre è stato sorvegliare il corretto funzionamento dei sistema dei pagamenti dove allora si scambiavano ogni giorno 4000 miliardi di dollari in denaro e titoli.

Ciò è possibile perchè esistono i mercati, le banche centrali, organismi internazionali che regolano il funzionamento dei mercati, e, naturalmente, perchè l'informatica collega gli operatori economici, ovunque si trovino. Ma cosa succedeva quando non c’erano i computer, le linee telefoniche, le banche centrali ?

Nel medioevo i mercanti che, come Marco Polo, andavano all'estero ad acquistare prodotti da rivendere in patria, dovevano pagare usando beni accettati dai loro fornitori. Cercavano di scambiare merci con altre merci, ma se il mercante indiano non voleva i panni europei, non restava che pagare in oro o argento. L'oro e l'argento erano infatti accettati ovunque.

Nell'ottocento si emettono banconote convertibili parzialmente in metallo prezioso. Le leggi italiane impongono che, a fronte di banconote emesse per un certo ammontare, chi le emette debba possedere riserve in oro non inferiori al 40% del valore della banconote.

A quei tempi si applicavano tassi di cambio fissi. La Banca d'Italia tramite l'Ufficio Italiano Cambi riceveva, ad esempio, i marchi che le banche compravano dai loro clienti e chiedeva alla banca centrale tedesca l'equivalente in lire, calcolato applicando il tasso di cambio in vigore.

Lo stesso faceva la banca centrale tedesca con le lire ricevute dalle banche tedesche. Se la richiesta di marchi da parte della Germania superava l'offerta di marchi da parte della banca centrale italiana, questa doveva pagare la differenza in oro o in marchi che si faceva prestare usando le riserve d'oro come garanzia.

Un tedesco che incassava lire era quindi certo di poterle convertire in marchi forniti dalla banca centrale che a sua volta sapeva di ricevere, in cambio delle lire, marchi o oro che avrebbe potuto spendere in altre occasioni.

L’oro era usato come garanzia perché accettato ovunque.

Ma se una banca centrale avesse emesso troppa moneta, poi usata per acquistare prodotti all’estero, le riserve in metallo prezioso potevano risultare insufficienti.

Vista l’importanza per i commerci internazionali dei tassi di cambio fissi, specie in epoche in cui le informazioni circolavano lentamente, per cercare di evitare le svalutazioni si vincolava l'emissione di moneta alle riserve in metallo prezioso.

Quando l’Italia ha emesso moneta in gran quantità, per sostenere le spese belliche, la convertibilità è stata sospesa (corso forzoso).

Poi il mondo è cambiato. Sono successe, nel dopoguerra, almeno tre fatti che hanno reso inutile agganciare l’emissione di moneta all’oro.

Primo, all'oro e all'argento si sono aggiunti nuovi beni accettati ovunque come il petrolio e altre materie prime.

Secondo, molte economie hanno accumulato ingenti riserve in dollari e in altre monete, alle quali si ricorreva proprio come, in passato, si ricorreva all’oro.

Terzo, i cambi variabili hanno reso inutile detenere oro per pagare i debiti: la domanda e l'offerta delle monete determinano il tasso di cambio. Non ci sono più debiti di una banca centrale verso un'altra dovuta a squilibri, ad un dato tasso di cambio, tra domanda e offerta di una data moneta. Le banche centrali usano le riserve, acquistando o vendendo monete straniere oltre alla propria, soltanto per impedire che la propria moneta si rivaluti o si svaluti troppo, pregiudicando così il buon andamento delle economie.

Così oggi possiamo acquistare dollari o sterline senza preoccuparci che esse siano convertibili in oro.

06 ottobre 2010

La provincia fantasma


E' passato quasi inosservato il commento e i calcoli del ministero delle finanze sui costi delle province italiane, ricoperto dal fango mediatico che viene abilmente spruzzato su tutta l'informazione italiana.

Orbene, dopo i complessi calcoli del ministero, tagliando le province italiane si avrebbe un risparmio di circa 200 milioni di Euro. Quindi non varrebbe la pena abolirle!

Ma come!

Per mesi l'abolizione delle province era stata sbandierata come la vera panacea per i bilanci pubblici, addirittura dal taglio delle province l'Eurispes aveva calcolato un risparmio di circa 10 miliardi di Euro l'anno (vedi qui).
E anche in un articolo di Sky si spiega come uno dei cavalli di battaglia del PDL era stato proprio l'abolozione delle province!

E ora Tremonti ci viene a dire che non vale la pena abolirle!

Ma dunque, chi fa i calcoli cosa usa? Il rotolo della calcolatrice o il rotolo di carta igienica?

E' possibile che Eurispes e gli altri centri studi si siano così clamorosamente sbagliati?

Credo che fosse ovvio dall'inizio che nessuno pensava che se le province avevano la competenza sui fiumi (ad esempio) si potevano risparmiare soldi abolendo la competenza. E i bacini idrici chi li avrebbe gestiti?
Era ovvio sin dall'inizio che la battaglia sull'abolizione che va avanti da decenni e che ha prodotto la nascita di 18 nuove province (da 91 a 109) era sulla cancella zione della provincia come ente POLITICO.
Detto in altre parole: a che serve un politico per gestire aspetti tecnici come l'acqua, le scuole e le strade?
Era ovvio dall'inizio che chi aveva fatto i calcoli aveva valutato i risparmi in relazione all'abolizione delle province come enti politici e non come competenze, accorpando il personale alle regioni!

Ed è ovvio fin da subito che questo è un regalo alla lega: l'unico partito che si è sempre definito contrario all'abolizione delle province!

03 ottobre 2010

La Chiesa e i soldi nell'era di Berlusconi


Mentre si discute delle bestemmie di Berlusconi, quasi assolto da monsignor Fisichella, oggi il Papa va a Palermo. Tra le polemiche Regione e comune spendono 2 milioni di euro (vedi qui). Polemiche simili a quelle registrate in occasione del viaggio del Papa in Inghilterra. Soldi e pedofilia gli oggetti del contendere.

Uno spreco? Per il cardinal Bagnasco, presidente della CEI, lo spreco è un altro (vedi qui). Naturalmente non il proprio ma quello degli altri, in questo caso quello dei panificatori che, facendo gli affari propri, producono più di quanto serve.

Qualcuno s'è reso conto che la Chiesa predica bene ma razzola male, a volte. L'effetto è la riduzione dell'otto per mille, che induce Bagnasco a avvertire i preti (vedi qui): dovete darvi da fare per raccogliere soldi perché quelli che arrivano dall'otto per mille stanno diminuendo.

Gli scandali dei preti pedofili che non vanno in carcere (e se ci vanno non ne parla nessuno, come sta accadendo con il parroco di Alassio) fanno diminuire le entrate e viene il sospetto che qualche sacerdote possa ricorrere a madonne piangenti e viaggi in santuari guardati con sospetto dal Vaticano, come Medjugorie. Il business della religione che offre miracoli a buon mercato rende bene (vedi qui).

E forse qualche madonna piangerà davvero se l'Unione Europea costringerà l'Italia ad abolire i privilegi della Chiesa in fatto di ICI (vedi qui).

Qual è la morale di tutto ciò?

Pare allargarsi il divario tra chi crede e chi no, tra chi si affida ai miracoli e alle madonne piangenti, o non si scandalizza delle spese per i viaggi papali e chi si ribella agli scandali e decide di usare diversamente l'otto per mille.

Populismo, esaltazione delle differenze, doppia morale e soldi. La Chiesa non pare tanto diversa dal resto d'Italia dove domina una destra che si dimentica degli scandali de l'Aquila con la stessa velocità con cui Fisichella (il monsignore, non il pilota) corre in soccorso un presidente del consiglio che bestemmia.

02 ottobre 2010

Il sud - Premessa


Qualche tempo fa mi è stato chiesto perché le politiche di sviluppo del sud non abbiano funzionato. Si è ricordata la cassa del mezzogiorno, di cui si hanno opinioni per lo più negative.

Per questo il tema è complesso e a rischio.

Complesso perchè se ne sono occupati in tanti e sull'argomento sono stati scritti molti libri e articoli. A rischio perchè da quando poi nella scena politica è arrivata la Lega, hanno ricevuto impulso le argomentazioni fuori tema, che riconducono il tema ad una contestabilissima contrapposizione tra il nord che fatica e produce e il sud pizzaiolo che si gode la vita suonando il mandolino.

Questa visione, oltre che povera, non coglie il vero nocciolo del problema: l'esistenza in tutto il mondo di regioni meno sviluppate di altre, spesso a fianco delle regioni più sviluppate.

Pensiamo al nord Italia. Basta allontanarsi di poco più di 100 km da Milano, la "capitale" di una delle zone più ricche d'Europa, per trovare valli alpine che nel dopoguerra hanno subito lo stesso spopolamento del Sud, dopo essere state, in alcuni casi, la culla dell'industria grazie all'energia offerta dai torrenti. Ma lo stesso vale per le colline descritte da Pavese, zone da cui sono fuggiti in tanti, sotto la pressione della povertà, per cercare ricchezza nell'industria, esattamente come accadeva agli agricoltori calabresi o pugliesi diventati operai nel triangolo industriale.

Dunque occupiamoci del Sud come una delle tante zone poco sviluppate che esistono nel mondo, come un esempio di un mancato sviluppo, e cerchiamo di capire le ragioni di tale ritardo e se si può fare qualcosa per cambiare.

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