30 dicembre 2013

Se Mario Monti non avesse fatto nulla...

Due anni fa di questi tempi s'era appena insediato il governo Monti. L'Italia era a pezzi, lo spread in estate era salito alle stelle, i titoli di stato venivano collocati a tassi crescenti. Berlusconi, ridicolizzato da Sarkozy e Merkel, per non perdere consenso aveva rinviato gli interventi necessari a rendere credibile l'Italia sui mercati internazionali e alla fine è stato travolto e s'è dovuto dimettere.

A inizio dicembre arriva la stangata del governo: riforma delle pensioni, anticipazione dell'IMU al 2012, aumento delle accise sui carburanti e via discorrendo.

Sacrifici che avevano un senso di fronte alle previsioni economiche del Tesoro: PIL in calo dello 0,4% nel 2012, in aumento dello 0,3% nel 2013.

Il rapporto deficit/Pil doveva essere all'1,6% nel 2012, allo 0,1% del 2013, mentre per il 2014 si prevedeva un avanzo di 2 decimi di punto (come spiegava il Sole 24 Ore).

"Senza manovra, il deficit si attesterebbe al 2,5% nel 2012, all'1,3% nel 2013 e all'1,1% nel 2014" spiegava il giornale di Confindustria.

Previsioni del tutto sbagliate. Il PIL è sceso del 2,5% nel 2012 e dell'1,8% nel 2013 e il deficit nel 2013 resta a fatica nel limite del 3% del PIL.

Dov'è l'errore? Nel non aver compreso che pesanti manovre finanziarie avrebbero depresso la domanda causando un pesante calo del PIL e di conseguenza delle entrate fiscali.

Monti non l'ha capito e non l'ha capito neppure Bruxelles con cui la manovra è stata concordata, col paradossale effetto che se Monti non avesse fatto nulla, limitandosi a controllare l'esistente, a intervenire solo in caso di necessità e a offrire credibilità all'Europa, i conti pubblici oggi sarebbero migliori e centinaia di migliaia di persone non avrebbero il lavoro perso nel 2012-13.





 

28 dicembre 2013

La scalata di Monte dei Paschi

Questa mattina a Siena s'è assistito a uno scontro durissimo tra i vertici di Monte dei Paschi di Siena e gli azionisti, rappresentati in particolare dalla Fondazione che detiene un terzo delle azioni della terza banca italiana.

La banca senese è malata da tempo. Ha acquistato Antonveneta strapagandola ed è alle prese, come tutte le banche, con i problemi di crediti difficili da incassare.

Serve un aumento di capitale, imposto dalle autorità bancarie europee, ma c'è un problema: il primo azionista, la Fondazione Monte Paschi, in passato ha elargito molti, forse troppi soldi alla comunità senese, invece di tenerne parte per le emergenze, come un aumento di capitale.

La proposta di aumentare subito, nel mese di gennaio, il capitale di Monte dei Paschi suona allora come una minaccia. Una specie di golpe degli amministratori della banca: se la Fondazione non la sottoscrivesse, la sua quota nella banca scenderebbe e -come ha spiegato la rappresentante della Fondazione intervenuta nell'assemblea- la stessa Fondazione rischierebbe di concludere la propria esistenza.

Il presidente Profumo e l'amministratoreViola hanno giustificato la loro proposta di un aumento a gennaio con la necessità di restituire allo Stato i soldi ricevuti in prestito: 3 miliardi di euro che costano 120 milioni l'anno di interessi.

Profumo chiede di mettersi nei panni del contribuente che vorrebbe indietro i suoi soldi e argomenta che se la situazione politica nei prossimi mesi cambiasse, per la banca sarebbe più difficile o meno conveniente finanziarsi.

Ma il progetto è stato bocciato dai soci, che invece hanno approvato il rinvio dell'aumento di capitale.

Perchè? Forse perché Profumo vuole agire in Monte Paschi senza vincoli politici e territoriali, magari per diventare il punto di riferimento di una banca con una miriade di piccoli azionisti e di qualche fondo amico, oppure per condurre qualche operazione internazionale che porterebbe Monte Paschi a diventare la filiale italiana di una banca straniera come successo alla Banca Nazionale del Lavoro, entrata a far parte di BNP-Paribas?

Lo vedremo, come vedremo qual è la strategia della Fondazione, oggi molto determinata nel respingere il "golpe" di Profumo e del consiglio di amministrazione della banca, per continuare a mantenere il controllo dell'istituto senese.


24 dicembre 2013

L'auto a idrogeno (e auguri di Natale)

Ve la ricordate l'auto a idrogeno? Qualche anno fa sembrava a portata di mano, anche grazie al libro di Rifkin, L'economia dell'idrogeno.

Poi è sparita, dimenticata secondo qualcuno perché sarebbe stato complicato e costoso creare una rete di distributori di idrogeno, che avrebbero dovuto affiancare prima e sostituire poi i normali distributori a benzina.

Toyota ha presentato al salone di Tokyo una nuova versione della sua auto a idrogeno e ci spiega una triste verità per chi sperava nell'auto a idrogeno: le celle a combustibile che trasformano l'idrogeno in energia elettrica, costano molto.

Nel 2015 si prevede che il loro costo scenderà a 50 mila euro, con un prezzo dell'auto di circa 73.000 euro. Nel 2020 il prezzo dell'auto dovrebbe scendere a 50 mila euro.

Nel frattempo, a tutti gli auguri di buon Natale!

23 dicembre 2013

Affitti

A Genova la catena di abbigliamento svedese H&M chiude. Colpa della crisi? Non proprio. Chiudono perché l'affitto dei locali è troppo alto e la società proprietaria dell'immobile non vuol sentir ragioni. Non vuole abbassare l'affitto e così a H&M non resta che chiudere.

L'assessore al commercio scrive una lettera alle associazioni di categoria: "o ci si rende conto che è necessario adeguare la richiesta al mercato, oppure si muore", proponendo accordi sotto la regia degli enti locali e magari qualche sconto all'IMU a favore di chi riduce i canoni di affitto.

E' un aspetto quasi paradossale della crisi quello dei negozi che chiudono per canoni d'affitto troppo elevati. Ma è anche la prova che le teorie liberiste falliscono fuori dalle aule universitarie.

Già, perchè se fate presente a un liberista che un prezzo (in questo caso i canoni d'affitto) è troppo alto, vi spiega che quando la domanda diminuisce, anche il prezzo cala, risolvendo ogni problema, perchè il mercato si autoregolamenta.

Teorie deboli, smentite dai fatti, che alla fine suggeriscono la necessità di un controllo e un intervento pubblico. Per evitare guai peggiori all'economia.



20 dicembre 2013

Il buono postale del 1938

Durante i lavori di ristrutturazione della casa di un'ultracentenaria signora savonese, è spuntato un buono postale del 1938, del valore nominale di 1000 lire.

Calcolati gli interessi, la signora avrebbe dovuto incassare la bellezza di 145.000 euro, ma alla fine s'è accontentata di 60.000 euro pur di evitare una lunga battaglia legale.

Investire 1000 lire e incassare 60.000 euro dopo 75 anni significa ottenere un rendimento vicino al 17% annuo. Oltre il 18% se avesse incassato 145.000 euro.
Un'enormità che si giustifica con l'inflazione.

Sono andato a cercare i coefficienti di rivalutazione, scoprendo che se il buono postale l'avesse protetta dall'inflazione avrebbe avuto diritto a oltre 800 mila euro. Mille lire del 1938 equivalgono infatti a oltre 1,6 miliardi di lire (800.000 euro) di oggi.

Ma 1000 lire investite dopo la guerra, nel 1947, equivalgono a 48.000 lire (poco più di 24 euro) odierne.

Insomma considerato il rendimento, la signora ha fatto un ottimo affare anche accettando la somma proposta dalle Poste. Ha avuto la fortuna di investire i soldi quando l'inflazione correva e le poste promettevano un elevato tasso di interesse.

Però se consideriamo l'inflazione, ha perso parte dei suoi soldi. Un titolo capace di difenderla dall'inflazione gli avrebbe reso oltre 800.000 euro.



19 dicembre 2013

La "droga" del Sole 24 Ore

La FED annuncia il mini tapering: da gennaio la banca centrale americana acquisterà una minore quantità di titoli di stato.

L'acquisto ha un obiettivo semplice: tenere bassi i tassi di interesse pagati dal governo americano sull'enorme debito pubblico del paese e i tassi in generale. I tassi bassi sono utili per la crescita economica, e in modo particolare per aiutare chi (stato, imprese, famiglie) ha troppi debiti e rischia di dover sacrificare consumi e investimenti per pagare debito e interessi.

Una logica semplice che però fa a pugni con antichi pregiudizi, come dimostra il sito del Sole 24 Ore di oggi  (nell'immagine) che parla esplicitamente di droga monetaria e sembra suggerire che la politica monetaria non abbia senso se modifica il libero funzionamento del mercato.

Mercato, tuttavia, che se lasciato a se stesso, garantirebbe solo sacrifici capaci di produrre meno crescita e milioni di disoccupati in più.

Se il Sole 24 Ore considera droga una scelta di politica monetaria, perché stupirci di chi parla di sovranità monetaria, signoraggio ecc.?


18 dicembre 2013

Liguria, una buona idea

La Regione Liguria sta organizzando una piccola rivoluzione nei trasporti che, se funzionerà, potrebbe portare qualche beneficio ai cittadini e qualche utile risparmio.

Nel 2015 scade il contratto tra la Regione e Trenitalia, che gestisce il trasporto locale. Il contratto si rinnova automaticamente salvo che uno dei due contraenti mandi la disdetta con almeno un anno di anticipo. Cosa che sta accadendo, perchè la Regione ha un obiettivo molto ambizioso: affidare a un solo soggetto la gestione di tutto il trasporto locale.

I vantaggi? Nei costi se questo vorrà dire mettere insieme le numerose aziende locali di trasporto, alcune delle quali in evidente crisi. Qualche settimana prima dello sciopero selvaggio che ha bloccato per 5 giorni Genova, gli enti locali hanno dovuto affrontare la vicenda di un'altra azienda di trasporto locale, che gestisce le corse degli autobus in provincia di Genova.

Perchè non fonderle? Si unificherebbero i centri di spesa, si potrebbe ottenere qualche risparmio da un'unica gestione dei mezzi, dei magazzini, degli appalti. E infine si potrebbero integrare gli orari, migliorando il servizio reso, evitando i disservizi inevitabilmente prodotti da imprese che, almeno in parte, fissano gli orari senza coordinarsi con gli altri.

16 dicembre 2013

La politica tedesca e l'unione bancaria

21 anni fa Giuliano Amato, presidente del consiglio, e Carlo Azeglio Ciampi, ministro economico, fecero la rivoluzione delle banche. Decisero di togliere i politici dalla gestione delle banche, fecero nascere le fondazioni bancarie a cui attribuirono le azioni di banche, trasformate in società e affidate a manager senza preoccupazioni politiche.

Il risultato è, oggi, un sistema bancario non privo di problemi, ma migliorato perché è diventato meno facile mescolare il normale business bancario con interessi "politici", che spingono le banche a finanziare attività non sempre redditizie.

Una riforma simile in Germania non c'è mai stata. Il sistema delle banche locali finanzia le imprese locali, finanzia la politica, compie spesso operazioni poco sicure, spingendo poi i governi regionali o il governo centrale a intervenire per coprire le perdite. Il debito tedesco è infatti cresciuto negli ultimi anni per colpa delle banche, che prima hanno investito in titoli a alto rischio, spesso tradendo il loro ruolo di banche locali, e poi sono state salvate con massicce iniezioni di soldi pubblici.

Una Germania molto italiana, con l'intreccio tra banche e politica, finanziamenti a imprese amiche, soldi alla politica e, dulcis in fundo, l'immobilismo in campo europeo.

La politica tedesca mette i bastoni tra le ruote all'unione bancaria europea, che imponendo a tutte le banche le stesse regole, gli stessi controllori e le stesse opportunità, contribuerebbe a ricostruire una fiducia nel sistema, crollata dopo il fallimento di Lehman Brothers.

14 dicembre 2013

Sorpresa: corsa agli acquisti dei titoli tossici

Ve li ricordate i titoli tossici, quelli che hanno innescato la crisi? Bene, le banche americane nelle scorse settimane hanno comprato questi titoli per circa 5 miliardi di euro dal governo olandese, che se li è trovati in tasca quando ha salvato ING dal fallimento.

Cerchiamo di capire perchè li comprano. Immaginate che una ipotetica banca abbia finanziato migliaia di mutui con i quali altrettanti americani hanno comprato la casa. Ci sono i mutui concessi a 100 famiglie di Los Angeles che hanno comprato altrettanti immobili costruiti in un quartiere della città, 500 famiglie che hanno comprato casa in una zona residenziale di Detroit, 1000 che hanno comprato casa in un condominio di Miami e così via.

La banca ha prestato complessivamente somme enormi e crea un'infinità di titoli il cui rendimento dipende da tutti i mutui concessi, vale a dire dai 100 concessi a Los Angeles, dai 500 di Detroit, dai 1000 di Miami e così via.

Se però i clienti incominciano a non pagare come valutare i titoli? Si deve calcolare qual è la percentuale di insolvenza dei mutuatari di ciascuna città e ipotizzare quanto si incasserà vendendo le case dei morosi nel momento in cui saranno vendute. A questi valori si aggiungono le spese per pignorare e vendere le case, che nessuno sa se, prima di finire sul mercato, richiederanno qualche altra spesa.

In pratica è impossibile dare con certezza un valore ai titoli. Ma si sa che se il mercato immobiliare è in crisi, il valore dei titoli è destinato a diminuire.

Di fronte al rischio di perdite e all'impossibilità di misurarle, gli investitori hanno semplicemente abbandonato al loro destino questi titoli, provocando la crisi del sistema finanziario e costringendo le autorità pubbliche a intervenire per evitare guai peggiori.

Ma oggi la situazione dell'economia è differente. La crisi almeno negli USA è alle spalle e comprare un pacchetto di mutui a un prezzo conveniente può riservare piacevoli sorprese. Per cui le stesse banche travolte dalla crisi dei mutui oggi comprano i titoli il cui rendimento dipende da quei mutui.

Lo fanno, almeno ufficialmente, per conto della clientela. Non per conto proprio perchè le regole non glielo consentirebbero.


12 dicembre 2013

Scuola e reddito

Qualche settimana fa i dati P.I.S.A. hanno mostrato le forti differenze territoriali nel livello di preparazione degli studenti italiani (vedi qui). I risultati premiano gli studenti del nord e in particolare quelli del triveneto, tra i migliori in Europa, mentre penalizzano gli studenti del sud, che hanno una preparazione in matematica inferiore alla media.

Come spiegare queste differenze territoriali?

Una ricerca sull'apprendimento aiuta a cercare una risposta. Lo studio dell'Università di Stanford spiega che un bambino nato in una famiglia benestante impara molte più parole di un bambino nato in una famiglia povera e che di conseguenze per il primo è molto più facile apprendere ciò che gli insegna la scuola.

Al sud il reddito è più basso, e questo vuol dire che, se lo studio è applicabile anche all'Italia, i bambini calabresi o siciliani partono svantaggiati, quando entrano a scuola, rispetto ai bambini lombardi o piemontesi. Ma non basta, perchè il gap se nascere in una famiglia più povera significa apprendere di meno, si può obiettare che poi i bambini vanno all'asilo.

E non c'è motivo per pensare che le maestre del nord siano mediamente più preparate delle loro colleghe del sud, per cui un bambino che impara di meno in una famiglia più povera dovrebbe avere l'opportunità di recuperare all'asilo.

Dovrebbe essere così, se solo i bambini italiani avessero la stessa opportunità di andare all'asilo. Purtroppo non è così: un bambino emiliano ha molte più probabilità di andare all'asilo di un bambino siciliano. Alcune regioni offrono molti più posti all'asilo di altre e le regioni del sud hanno ancora una volta il triste primato del minor numero di posti disponibili negli asili.

11 dicembre 2013

Forconi

Ieri mi è arrivato un messaggio: cosa ne pensi della protesta dei forconi?

C'è prima di tutto un aspetto politico. La protesta sta assumendo toni preoccupanti. Negozi chiusi sotto la spinta delle minacce non sono un bel segnale. Specie in una Italia dove non mancano i populisti, i politici che urlano al colpo di stato. I toni fascisti della protesta non promettono nulla di buono se non a chi cerca di approfittarne (sarà un caso che uno dei leader della protesta ha fatto il viaggio tra Genova e Torino a bordo di una Jaguar?).

Poi c'è un aspetto economico. L'Italia forse sta uscendo dalla recessione. I consumi sono diminuiti per due anni dal 2011 a oggi dopo un altro calo notevole tra la fine del 2008 e il 2009.

Possiamo continuare a far scendere i consumi? Certamente no. Anzi serve invertire la rotta, facendo crescere i consumi e con essi gli investimenti e le imposte intascate dallo Stato. Una protesta selvaggia non aiuta negozianti e consumatori, fa diminuire i consumi, spaventa gli investitori, riduce le entrate dello Stato che, visti i vincoli di deficit, non può che reagire con nuove imposte o tagli alle spese.

Sappiamo cosa sta succedendo da anni in Grecia. Lo Stato taglia la spesa pubblica e i cittadini tagliano i consumi e le imprese chiudono o riducono drasticamente gli stipendi. Le entrate fiscali diminuiscono e lo Stato non può fare altro che imporre altri tagli alla spesa o un aumento di imposte.

Occorre invece invertire la rotta facendo aumentare i consumi e le entrate fiscali e usare le maggiori entrate fiscali per ridurre l'imposizione fiscale o almeno per fare in modo che i soldi incassati e spesi dallo Stato siano spesi per far crescere l'economia.

I forconi non si rendono conto che si vogliono infilare in un circolo vizioso come in Grecia che penalizza proprio la parte di loro che ha maggiori difficoltà sul mercato del lavoro perchè priva di istruzione, di competenze, di qualità da spendere. Ma forse i veri obiettivi della protesta sono ben diversi da quelli di chi spiega che vorrebbe un lavoro e un reddito.


09 dicembre 2013

Tanto va la Merkel al...

La notizia non è buona, ma fa (quasi) piacere lo stesso: la produzione industriale tedesca è diminuita a ottobre per il secondo mese consecutivo. Gli economisti avevano previsto un aumento di oltre il 3% nell'anno e invece si viaggia verso un aumento dell'1%.

Molto meglio dell'Italia, certo, se si guarda all'ultimo anno, ma peggio se si considerano solo gli ultimi 2 mesi.

E' diminuito inoltre il surplus commerciale tedesco, da 18,3 miliardi a oltre 16,8 miliardi.

Insomma l'economia tedesca mostra qualche scricchiolio. Vedremo in futuro se è l'inizio di una recessione o solo una correzione in un percorso virtuoso. Ma una sia pur moderata recessione in Germania pare quasi inevitabile, per colpa delle politiche di austerità che hanno influenzato negativamente la domanda di beni e servizi.

Una Germania in recessione, non sarebbe una buona notizia per l'eurozona, che ha bisogno di una Germania con una domanda in crescita. Però dimostrerebbe, se mai ce ne fosse bisogno, che l'Europa a guida tedesca ha adottato politiche economiche suicide, tanto sbagliate da provocare la recessione anche nel paese economicamente più forte.




08 dicembre 2013

Rivoluzione quote Bankitalia

Una rivoluzione silenziosa sta per travolge l'assetto proprietario della Banca d'Italia. Oggi le quote valgono poco, 156 mila euro, e sono in mano a banche, assicurazioni e qualche ente pubblico.

Grazie alle fusioni tra banche, i principali detentori di quote sono Unicredit e Intesa San Paolo, gruppi cresciuti inglobando numerose banche. Nel bilancio di Bankitalia ci sono anche ricche riserve quasi inutili, visto che la politica monetaria è ormai in mano alla BCE. Il governo ha dunque pensato di prendere circa 7 miliardi e mezzo di euro da una riserva e di usarli per aumentare il capitale sociale.

Aumenterà il valore nominale delle quote possedute dai detentori delle quote della Banca, che saranno costrette a rivalutare le proprie quote, iscritte in bilancio, pagando un'imposta sul maggior valore.

Ciò avrà effetti positivi per le casse dello Stato e anche per le banche che detengono le quote. La BCE infatti sta per mettere sotto controllo i conti delle banche europee e imporrà alle banche con troppi crediti in sofferenza (vale a dire crediti concessi ai clienti e che la banca ha difficoltà a farsi restituire) rispetto ai crediti sicuri di intervenire, ad esempio con aumenti di capitale.

Il maggior valore delle quote aiuterà le banche a superare i controlli della BCE. Non solo: il decreto del governo prevede un limite al possesso delle quote. Non più del 5% per ogni detentore. Intesa San Paolo e Unicredit dovranno vendere parte delle loro quote, incassano miliardi di euro utili a rimettere in sesto i conti.

Infine c'è un dubbio. Oggi la Banca distribuisce ai detentori di quote il 6% del valore nominale delle quote più una parte delle riserve per un totale di circa 70 milioni. Il governo ha previsto che in futuro gli utili distribuiti potranno essere pari ad un massimo del 6% del capitale, il quale passa da 156.000 euro a circa 7,5 miliardi.

Se gli utili fossero il 6% del capitale, la somma distribuita in utili salirebbe da 70 a circa 450 milioni. A rimetterci sarebbe lo Stato, ma con qualche vantaggio indiretto. I milioni finirebbero alle banche, oggi in difficoltà, e magari a qualche ente pubblico come la Cassa depositi e prestiti, che potrebbero entrare tra i possessori di quote.


06 dicembre 2013

Le tre carte



In questi giorni stanno arrivando i saldi della Tares (chiamiamola così per semplicità) da parte dei comuni italiani, quindi ho pensato di scrivere di quello che è diventato il gioco delle tre carte tra stato ed enti locali. Il pollo da spennare che perde sempre è il contribuente italiano.

Quella messa in piedi dallo stato è stata una gigantesca opera di mistificazione in maniera da aumentare le tasse in maniera indiretta a favore dello stato centrale, scaricando le tensioni sulle amministrazioni periferiche.

Sono partito dallo studio di qualche bilancio comunale incrociando qualche tabella per cercare conferme a quello che in realtà stiamo provando tutti sulla nostra pelle!

Ogni bilancio comunale ha allegata una relazione corredata da comodi indici sintetici per i raffronti degli ultimi 5 anni. Il mio comune ha circa 30.000 abitanti, quindi è un esempio "medio" della città italiana, lasciando fuori le metropoli e i micro centri.

I dati da tenere bene sott'occhio sono i seguenti:

Trasferimenti dello stato per abitante: passano da 224 € del 2009 a 209 € nel 2010 a 25 € nel 2011 fino ad arrivare a soli 11 € nel 2012.
Parallelamente la pressione tributaria pro capite (entrate per abitante/n. abitanti) passa da 500 € del 2009 a 554 € nel 2010 per poi schizzare a 768 € nel 2011 fino a 856 € nel 2012

Quindi il gioco è stato evidente: taglio dei trasferimenti statali e autonomia impositiva degli enti locali, specie i comuni, permettendo loro di aumentare le imposte locali. Qui potete trovare le differenze nei trasferimenti dal 2010 al 2011 per ogni ente, l'anno più critico!

Ma a dire che le imposte sono aumentate lo certifica anche l'ISTAT, anche se Fassino (presidente dell'Anci) fa notare che comunque ai comuni il gettito non basterà comunque!

Ma quello che fa veramente rimanere basiti è il fatto che se sono stati tagliati i trasferimenti e permesso ai comuni di alzare le aliquote, che ne ha fatto lo stato dei soldi che non ha più trasferito ai comuni?

A rigor di logica dovrebbe averci tagliato le tasse! Se non trasferisco più soldi ai comuni e faccio riscuotere a loro, allora mi rimarranno più soldi in cassa. Purtroppo così non è stato, in quanto come possiamo vedere qui, gli scaglioni IRPEF sono rimasti bloccati!

Quindi di fatto si sono aumentate le tasse: L'IRPEF è rimasta bloccata, sono aumentate le tasse locali e sono stati azzerati i trasferimenti!

C'è un ultimo fattore da considerare, l'inflazione negli ultimi 5 anni è stata del 9% (vedi qui per i calcoli e le serie), anche se rispetto a certi periodi degli anni '80 non è molto, comunque comincia a farsi sentire il fenomeno del fiscal drag, in quanto gli scaglioni IRPEF sono fermi dal 2007, come visto sopra.

Il fiscal drag è semplicemente lo scivolamento verso scaglioni di reddito superiore dovuto all'inflazione: il salario aumenta per contrastare l'inflazione e a parità di reddito ci troviamo in uno scaglione più alto e ci troviamo a pagare più tasse!

05 dicembre 2013

Krugman e il downgrade della Francia

Da qualche tempo nel mondo finanziario si sostiene che il vero malato d'Europa non è la Grecia, non è l'Italia ma la Francia. Mancano le riforme, dicono le banche americane, ci sono problemi strutturali, a cominciare da quelli sul mercato del lavoro., le prospettive non sono incoraggianti, il debito cresce troppo velocemente.

Sembra un film già visto. Due anni fa Mario Monti prendeva il posto di uno screditato Berlusconi e rimproverava le stesse colpe all'Italia, riuscendo però a fare un disastro che oggi spinge chi lo sosteneva in Parlamento a criticare la politica di austerità e a chiedere un cambiamento.

Cambiamento non facile da ottenere per ragioni politiche. Il motivo lo spiega Paul Krugman (vedi qui).

Krugman si domanda perchè mai il rating francese è inferiore a quello inglese, nonostante i dati economici transalpini siano migliori. Il PIL pro capite reale francese è cresciuto di più e le prospettive di crescita sono migliori, mentre il rapporto debito/PIL francese è leggermente inferiore a quello inglese e le prospettive sono di un andamento migliore di quello inglese.

Krugman esclude che Standard & Poor's disponga di informazioni segrete o di modelli macroeconomici migliori da cui dedurre un futuro peggiore per la Francia. Inoltre spiega che le famose riforme di cui tanto si parla, non è affatto detto che facciano crescere l'economia. Le prove di efficacia delle riforme sono quantomeno dubbie.

Dunque perchè la Francia subisce i downgrade delle agenzie di rating che invece non colpiscono la Gran Bretagna, nonostante abbia un'economia più debole?

Il motivo secondo Krugman è che la Francia non fa le politiche economiche conservatrici. Invece di tagliare lo stato sociale perché troppo costoso, punta a aumentare le imposte. E questo non piace a Standard & Poor's come a Olli Rehn e a tutti i conservatori europei. Che due anni fa hanno dato il benservito a uno di loro, Silvio Berlusconi, colpevole di non aver realizzato con prontezza le stesse politiche economiche.



04 dicembre 2013

I milioni del PSG

Come ha fatto il Paris St. Germain (PSG) a spendere 63 milioni per Cavani, una quarantina a testa per Pastore, Lavezzi e Thiago Silva, solo per citare i più costosi?

Una società di calcio spende i propri ricavi soprattutto per acquistare e pagare i calciatori. L'acquisto dei calciatori incide sul bilancio principalmente attraverso l'ammortamento. Se un calciatore costa 40 milioni e ha un contratto quinquennale, l'ammortamento è pari a 1/5 della somma spesa, vale a dire 8 milioni all'anno per 5 anni.

Ai quali si aggiunge lo stipendio lordo, ovvero comprensivo di imposte e contributi dovuti per legge.

Non è difficile stimare i costi di uno dei tanti giocatori strapagati dal PSG. 4-5 milioni di stipendio significano 8-10 milioni di stipendio lordo a cui si aggiungono 8-10 milioni sotto forma di ammortamento. Quindi 15-20 milioni l'anno per un singolo calciatore.

Somme che una società di calcio può pagare solo se incassa diverse centinaia di milioni o se qualcuno ripiana le perdite.

Le regole del fair play finanziario impediscono ormai alle società di calcio di spendere a piacimento e di coprire le perdite con i soldi del presidente. Altrimenti rischiano di restare fuori dalle competizioni europee. Per cui devono incassare soldi sufficienti a pagare i costi della società.

Ora, come fa il PSG a pagare le enormi spese derivanti dall'acquisto dei giocatori più quotati?

Il proprietario del club è il figlio dell'emiro del Qatar, che agisce tramite un fondo di investimento del paese. Per finanziare il PSG, il fondo del Qatar ha stipulato contratto con società dello stesso Qatar.

Contratti di sponsorizzazione che mascherano un finanziamento della proprietà e che ora sono sotto la lente della UEFA. Entro fine anno la proprietà del PSG deve spiegare alla UEFA come intende sostituire le entrate riferibili a società qatariote con entrate provenienti da società diverse, dalla tv, dal pubblico.

Insomma, la UEFA ha introdotto regole di fair play finanziario per cercare di evitare che un ricco proprietario spenda somme gigantesche per vincere. Alcuni club hanno aggirato le regole e adesso si 
corre ai ripari.

02 dicembre 2013

Libertà di coniare moneta?

Cosa succederebbe se qualsiasi banca fosse libera di emettere moneta? 

La domanda non è solo teorica. E' successo davvero negli USA nel XIX secolo. Un gran numero di banche sono state autorizzate a emettere una propria moneta, sotto forma di banconote.

Il solo requisito per emettere moneta era di garantirne la convertibilità in oro. Chiunque avrebbe potuto prendere una banconota emessa da una banca e chiedere l'equivalente in oro, promesso dalla banconote.

Le banche naturalmente emettevano banconote per importi superiori all'oro posseduto. Se avevano ad esempio 1 milione di dollari in oro, emettevano banconote per 2 milioni.

Confidavano nel fatto che pochi avrebbero chiesto di convertire le banconote in oro. La maggior parte delle persone avrebbe usato le banconote.

Perchè si emettevano banconote? Non sarebbe stato più semplice usare le monete in oro?

La risposta è che l'emissione di moneta serviva a aumentare i prestiti. Se l'oro è la base monetaria, per far crescere la base monetaria servono nuove acquisizioni di oro. Ma non è facile trovare oro.

Se invece si emettono banconote, garantite parzialmente dall'oro, la base monetaria e con essa i prestiti possono crescere più rapidamente.

Ma se molte banche possono emettere banconote, non vuol dire che siano tutte ugualmente convertibili. Se una banca emette una quantità doppia di banconote rispetto a un'altra, prima o poi qualcuno se ne rende conto e allora è possibile che non sia disposto a scambiare un dollaro emesso da una banca con un dollaro emesso da un'altra. Chi disponeva di un dollaro per così dire di alta qualità, cioè emesso da una banca affidabile, comprava dollari emessi da banche meno affidabili solo in cambio di un forte sconto.

Il dollaro emesso da queste ultime valeva 70-80 centesimi di dollaro emesso dalle banche affidabili.

Il dollaro emesso da una banca con poco oro in cassaforte si svalutava rispetto al dollaro con un maggior grado di copertura e questo aveva un effetto sui prezzi, che salivano là dove il dollaro valeva meno in termini di oro.


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