Finisce con il mese di marzo il sistema delle quote latte, nato 32 anni fa per regolare la quantità di latte prodotto e non far crollare il prezzo.
Di quote latte ne avevamo parlato quasi 5 anni fa (http://www.econoliberal.it/2010/09/le-mucche-fantasma.html) spiegando che c'era un difetto di fondo: i produttori di latte dichiaravano una produzione minore del vero, e questo ha portato a sottovalutare la produzione italiana. Di conseguenza molti per sopravvivere sono stati costretti a produrre più latte di quanto permesso, ricevendo multe poi pagate soprattutto dallo Stato italiano, per una precisa scelta politica della Lega.
Lega che ha cavalcato la protesta di chi non voleva cambiare il sistema della produzione del latte, con la conseguenza che mentre molti produttori hanno smesso di lavorare, i sopravvissuti continuano a produrre un latte più caro di quello di tanti paesi europei, compresi quelli, come Francia e Germania, che hanno solitamente un costo del lavoro superiore al nostro.
La conseguenza è che oggi il latte dei produttori italiani costa più del latte dei concorrenti stranieri. Invece di ristrutturare il settore e puntare a rendersi più concorrenziali, i produttori italiani hanno puntato a non cambiare, evitando di affrontare il problema delle quote latte, complice un partito che ha puntato a conquistare consenso.
Vedremo adesso cosa offre un mercato liberalizzato.
I produttori stranieri rischiano di trarre vantaggio dalla liberalizzazione. Proporranno più latte a prezzi più bassi e i trasformatori del latte (cioè chi produce formaggi, yogurt, ecc senza vincoli sull'origine del latte) si riforniranno dove il prezzo è minore.
Qualcuno potrà espandere la produzione di latte, con qualche beneficio sul costo, ma per molti la situazione peggiorerà: i trasformatori compreranno altrove il latte.
La pessima politica che ha cercato voti usando i soldi pubblici per evitare ai meno onesti di pagare le multe, tornerà alla carica, questa volta denunciando gli effetti della liberalizzazione e chiedendo aiuti per i produttori in difficoltà.
31 marzo 2015
29 marzo 2015
Un Giannino d'annata
Oscar Giannino, si sa, è un giornalista che diffonde l'ideologia liberista, creduto da molti (che magari lo credono ancora) esperto di economia (delle sue competenze ne avevamo parlato a proposito delle sue lauree e di strane interpretazioni del debito pubblico).
Tre anni fa ha scritto questo articolo http://www.leoniblog.it/2012/03/16/perche-vendere-alfa-a-vw-sarebbe-buona-cosa/ che non lascia dubbi sulla sua competenza.
All'inizio dell'articolo Giannino spiega che se fosse al governo (allora c'era il governo Monti) lui solliceterebbe la Fiat a cedere l'Alfa Romeo alla Volkswagen, incassando -pare di capire- soldi utili a ridurre i debiti e non certo a rilanciare l'attività industriale, visto che, come spiega in seguito, c'è un eccesso di capacità produttiva in Europa.
Il problema era noto: col calo della domanda innescata dalla crisi le aziende automobilistiche europee si sono trovate a fare i conti con un eccesso di capacità produttiva. Potevano produrre molte più auto di quelle richieste. Alcuni produttori volevano un piano europeo di incentivo alla chiusura degli impianti meno efficienti, ma i tedeschi non ne volevano sapere, perchè i costruttori tedeschi risentivano meno del calo della domanda e magari speravano di trarre beneficio dalla crisi, a spese dei concorrenti.
La soluzione che proponeva Giannino allora ha dell'incredibile: vendere Alfa Romeo e trasformare l'Italia in un paese che attrae impianti automobilistici, come aveva fatto la Thatcher 30 anni prima.
L'idea di vendere l'Alfa Romeo, secondo Giannino, avrebbe portato i tedeschi a produrre in Italia. Sarebbe successo?
Mettiamoci nei panni di Volkswagen. Comprano un marchio prestigioso in un momento pessimo per il mercato dell'auto. Oltre a versare molti soldi a Fiat per il marchio, avrebbero speso centinaia di milioni per comprare e riadattare un impianto in Italia, gestendo -in aggiunta- i rapporti con fornitori (quelli di Alfa) spesso diversi e in concorrenza con quelli di Volkswagen?
Io penso di no: Volkswagen avrebbe preso il marchio, avrebbe prodotto le auto in Germania del tutto identiche a quelle tedesche fatta eccezione per marchio, forma della carrozzeria e allestimenti, il tutto senza aggiungere o cambiare i fornitori.
D'altra parte se c'è un eccesso di capacità produttiva e una domanda debole, perchè mai un produttore, in questo caso Volkswagen, avrebbe dovuto acquisire un impianto in Italia? Meglio sfruttare gli impianti esistenti.
Ciò rende ancora più improbabile l'altra idea di Giannino: trasformare l'Italia in un paese di produttori stranieri, sul modello inglese.
Un'ultima considerazione riguarda l'idea stessa di vendere Alfa Romeo: un'impresa vende un marchio prestigioso solo se ha un impellente bisogno di soldi o se sa di non poterlo sfruttare. Non era certamente il caso di Fiat con Alfa Romeo. Lo stesso Giannino spiega che l'acquisizione di Chrysler è stata possibile grazie a Marchionne: perchè mai il manager italo-canadese avrebbe dovuto rinunciare all'idea di rilanciare l'Alfa e anche Fiat rinunciando al marchio e ad almeno uno stabilimento, visto cosa era stato capace di fare con Chrysler?
Tre anni fa ha scritto questo articolo http://www.leoniblog.it/2012/03/16/perche-vendere-alfa-a-vw-sarebbe-buona-cosa/ che non lascia dubbi sulla sua competenza.
All'inizio dell'articolo Giannino spiega che se fosse al governo (allora c'era il governo Monti) lui solliceterebbe la Fiat a cedere l'Alfa Romeo alla Volkswagen, incassando -pare di capire- soldi utili a ridurre i debiti e non certo a rilanciare l'attività industriale, visto che, come spiega in seguito, c'è un eccesso di capacità produttiva in Europa.
Il problema era noto: col calo della domanda innescata dalla crisi le aziende automobilistiche europee si sono trovate a fare i conti con un eccesso di capacità produttiva. Potevano produrre molte più auto di quelle richieste. Alcuni produttori volevano un piano europeo di incentivo alla chiusura degli impianti meno efficienti, ma i tedeschi non ne volevano sapere, perchè i costruttori tedeschi risentivano meno del calo della domanda e magari speravano di trarre beneficio dalla crisi, a spese dei concorrenti.
La soluzione che proponeva Giannino allora ha dell'incredibile: vendere Alfa Romeo e trasformare l'Italia in un paese che attrae impianti automobilistici, come aveva fatto la Thatcher 30 anni prima.
L'idea di vendere l'Alfa Romeo, secondo Giannino, avrebbe portato i tedeschi a produrre in Italia. Sarebbe successo?
Mettiamoci nei panni di Volkswagen. Comprano un marchio prestigioso in un momento pessimo per il mercato dell'auto. Oltre a versare molti soldi a Fiat per il marchio, avrebbero speso centinaia di milioni per comprare e riadattare un impianto in Italia, gestendo -in aggiunta- i rapporti con fornitori (quelli di Alfa) spesso diversi e in concorrenza con quelli di Volkswagen?
Io penso di no: Volkswagen avrebbe preso il marchio, avrebbe prodotto le auto in Germania del tutto identiche a quelle tedesche fatta eccezione per marchio, forma della carrozzeria e allestimenti, il tutto senza aggiungere o cambiare i fornitori.
D'altra parte se c'è un eccesso di capacità produttiva e una domanda debole, perchè mai un produttore, in questo caso Volkswagen, avrebbe dovuto acquisire un impianto in Italia? Meglio sfruttare gli impianti esistenti.
Ciò rende ancora più improbabile l'altra idea di Giannino: trasformare l'Italia in un paese di produttori stranieri, sul modello inglese.
Un'ultima considerazione riguarda l'idea stessa di vendere Alfa Romeo: un'impresa vende un marchio prestigioso solo se ha un impellente bisogno di soldi o se sa di non poterlo sfruttare. Non era certamente il caso di Fiat con Alfa Romeo. Lo stesso Giannino spiega che l'acquisizione di Chrysler è stata possibile grazie a Marchionne: perchè mai il manager italo-canadese avrebbe dovuto rinunciare all'idea di rilanciare l'Alfa e anche Fiat rinunciando al marchio e ad almeno uno stabilimento, visto cosa era stato capace di fare con Chrysler?
27 marzo 2015
Landini
Abituato a parlare di Jobs Act in termini ideologici, non sa che gli sgravi fiscali sono operativi da gennaio http://video.corriere.it/landini-la7-gaffe-jobs-act/33b443c8-d497-11e4-831f-650093316b0e
26 marzo 2015
La Chiesa e Luca Toni
In Italia la Chiesa cattolica si finanzia con l'8 per mille, a cui si aggiunge il 5 per mille versato da molti contribuenti a associazioni religiose (uno dei principali beneficiari è Radio Maria), i soldi che finiscono nelle tasche dei religiosi che forniscono una serie di altri servizi allo Stato (dall'insegnamento della religione al lavoro dei cappellani) e i contributi per le chiese.
In Germania funziona in modo diverso. Ogni contribuente dichiara se è fedele di una chiesa e in questo caso paga un'imposta sul reddito che finisce alla sua chiesa. Se si dichiara ateo non paga nulla ma non può usufruire dei servizi della sua chiesa.
Luca Toni qualche anno fa è andato a giocare nel Bayern Monaco. La società calcistica bavarese o il suo commercialista hanno dimenticato di versare alla Chiesa cattolica l'imposta e così è finito in tribunale: la Chiesa gli ha fatto causa.
Le chiese sono considerate come fornitrici di servizi, che il cittadino paga, acquisendo il diritto a riceverne i servizi. Se non ti interessano i servizi di una chiesa, non paghi.
Sarebbe bello che anche in Italia funzionasse così. E sarebbe curioso scoprire quanti pagherebbero, a quanti la Chiesa farebbe causa o rifiuterebbe di fornire i propri servizi perchè non hanno pagato l'imposta.
In Germania funziona in modo diverso. Ogni contribuente dichiara se è fedele di una chiesa e in questo caso paga un'imposta sul reddito che finisce alla sua chiesa. Se si dichiara ateo non paga nulla ma non può usufruire dei servizi della sua chiesa.
Luca Toni qualche anno fa è andato a giocare nel Bayern Monaco. La società calcistica bavarese o il suo commercialista hanno dimenticato di versare alla Chiesa cattolica l'imposta e così è finito in tribunale: la Chiesa gli ha fatto causa.
Le chiese sono considerate come fornitrici di servizi, che il cittadino paga, acquisendo il diritto a riceverne i servizi. Se non ti interessano i servizi di una chiesa, non paghi.
Sarebbe bello che anche in Italia funzionasse così. E sarebbe curioso scoprire quanti pagherebbero, a quanti la Chiesa farebbe causa o rifiuterebbe di fornire i propri servizi perchè non hanno pagato l'imposta.
23 marzo 2015
Pirelli
Come giudicare la cessione della Pirelli a un gruppo chimico cinese?
Tronchetti Provera, manager italiano per qualche tempo marito di Cecilia Pirelli, si sa che ha saputo fare molto bene in Pirelli (e meno bene in Telecom), facendo della famosa impresa milanese una multinazionale.
La sua carriera inizia nel 1992. Fallisce la scalata di Pirelli nei confronti di Continental e Leopoldo Pirelli getta la spugna, aprendo l'era di Tronchetti Provera, che rianima un'impresa piccola e debole, facendola diventare una multinazionale il cui fatturato dipende solo in minima parte (circa il 6%) dal mercato italiano.
Leopoldo Pirelli provando a comprare Continental, sa bene che il futuro di Pirelli si gioca sui grandi numeri. Per essere competitivi occorre produrre milioni di pneumatici e per questo punta ad acquisire il gigante tedesco.
La Pirelli di Tronchetti Provera ha puntato sui prodotti a più alto valore aggiunto, capendo che i prodotti più tradizionali avrebbero subito la concorrenza dei paesi emergenti, ma non ha dimenticato il vecchio desiderio di Leopoldo Pirelli di dare un futuro più solido all'impresa.
Solo non l'ha fatto acquistando o alleandosi con un colosso del settore come Yokohama o Hankook. Un'alleanza del genere avrebbe creato problemi a Pirelli, come la decisione di chiudere le fabbriche più piccole. Tronchetti Provera ha invece scelto di allearsi con un'azienda chimica cinese che pare interessata a integrare le proprie attività di produzione di pneumatici destinati a camion e macchinari e quelli per auto di basso prezzo.
In altre parole ai cinesi interessa un marchio famoso e la tecnologia di chi ha un secolo e mezzo di esperienza alle spalle per sviluppare i prodotti in Asia e dovunque Pirelli venda prodotti destinati alle auto meno care.
A parte restano invece gli pneumatici e gli altri prodotti a maggior valore aggiunto. Probabilente su quelli si concentrerà la Pirelli di Tronchetti, che punta a riportare in borsa l'azienda milanese tra qualche anno dopo che avrà modificato le proprie attività.
Tutto ciò e la clausola che impedisce di spostare la sede e il centro di ricerca senza disporre del 90% del capitale fa pensare che la Pirelli "cinese" resterà uguale a quella odierna, in Italia, e magari sarà più forte, più concentrata sui prodotti a alto valore aggiunto, i soli che è possibile produrre in Europa,
.
Tronchetti Provera, manager italiano per qualche tempo marito di Cecilia Pirelli, si sa che ha saputo fare molto bene in Pirelli (e meno bene in Telecom), facendo della famosa impresa milanese una multinazionale.
La sua carriera inizia nel 1992. Fallisce la scalata di Pirelli nei confronti di Continental e Leopoldo Pirelli getta la spugna, aprendo l'era di Tronchetti Provera, che rianima un'impresa piccola e debole, facendola diventare una multinazionale il cui fatturato dipende solo in minima parte (circa il 6%) dal mercato italiano.
Leopoldo Pirelli provando a comprare Continental, sa bene che il futuro di Pirelli si gioca sui grandi numeri. Per essere competitivi occorre produrre milioni di pneumatici e per questo punta ad acquisire il gigante tedesco.
La Pirelli di Tronchetti Provera ha puntato sui prodotti a più alto valore aggiunto, capendo che i prodotti più tradizionali avrebbero subito la concorrenza dei paesi emergenti, ma non ha dimenticato il vecchio desiderio di Leopoldo Pirelli di dare un futuro più solido all'impresa.
Solo non l'ha fatto acquistando o alleandosi con un colosso del settore come Yokohama o Hankook. Un'alleanza del genere avrebbe creato problemi a Pirelli, come la decisione di chiudere le fabbriche più piccole. Tronchetti Provera ha invece scelto di allearsi con un'azienda chimica cinese che pare interessata a integrare le proprie attività di produzione di pneumatici destinati a camion e macchinari e quelli per auto di basso prezzo.
In altre parole ai cinesi interessa un marchio famoso e la tecnologia di chi ha un secolo e mezzo di esperienza alle spalle per sviluppare i prodotti in Asia e dovunque Pirelli venda prodotti destinati alle auto meno care.
A parte restano invece gli pneumatici e gli altri prodotti a maggior valore aggiunto. Probabilente su quelli si concentrerà la Pirelli di Tronchetti, che punta a riportare in borsa l'azienda milanese tra qualche anno dopo che avrà modificato le proprie attività.
Tutto ciò e la clausola che impedisce di spostare la sede e il centro di ricerca senza disporre del 90% del capitale fa pensare che la Pirelli "cinese" resterà uguale a quella odierna, in Italia, e magari sarà più forte, più concentrata sui prodotti a alto valore aggiunto, i soli che è possibile produrre in Europa,
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20 marzo 2015
Svezia e Danimarca: è vera sovranità monetaria?
Chi ama discutere di banche centrali anche se conosce poco l'argomento, a volte si accorge di un'anomalia: tra i "soci" della Banca Centrale Europea ci sono anche diverse banche centrali di paesi fuori dall'euro, come risulta da questo elenco: https://www.ecb.europa.eu/ecb/orga/capital/html/index.it.html.
Ma forse non tutti sanno che ci sono monete, come la Corona danese e la Corona svedese, legate all'euro. Il loro valore rispetto all'euro può variare, ma entro limiti prestabiliti.
Non esiste in altri termini un tasso fisso tra l'euro e, per esempio, la corona danese, ma un tasso di riferimento e la possibilità che il cambio vari in più o in meno di una percentuale fissa, di solito il 2,5%.
Due le conseguenze.
La prima è che le monete collegate all'euro non possono svalutarsi liberamente. La sovranità monetaria di cui dispongono Svezia e Danimarca non è assoluta. Le loro monete si svaluta o rivaluta verso il dollaro proprio come l'euro, con buona pace di chi invoca la sovranità monetaria come panacea di tutti i mali.
La seconda è che tali monete sono sottoposte a pressioni, proprio come il franco svizzero che ha abbandonato il cambio fisso dopo aver tentato di gestire con il cambio minimo il flusso di capitali verso la confederazione.
Svezia e Danimarca potrebbero prima o poi trovarsi a rivalutare le proprie monete, come è successo al franco svizzero. In tal caso, sovranità non vorrà dire possibilità di svalutare, ma obbligo di rivalutare, anche in questo caso con buona pace di chi straparla di sovranità monetaria.
Ma forse non tutti sanno che ci sono monete, come la Corona danese e la Corona svedese, legate all'euro. Il loro valore rispetto all'euro può variare, ma entro limiti prestabiliti.
Non esiste in altri termini un tasso fisso tra l'euro e, per esempio, la corona danese, ma un tasso di riferimento e la possibilità che il cambio vari in più o in meno di una percentuale fissa, di solito il 2,5%.
Due le conseguenze.
La prima è che le monete collegate all'euro non possono svalutarsi liberamente. La sovranità monetaria di cui dispongono Svezia e Danimarca non è assoluta. Le loro monete si svaluta o rivaluta verso il dollaro proprio come l'euro, con buona pace di chi invoca la sovranità monetaria come panacea di tutti i mali.
La seconda è che tali monete sono sottoposte a pressioni, proprio come il franco svizzero che ha abbandonato il cambio fisso dopo aver tentato di gestire con il cambio minimo il flusso di capitali verso la confederazione.
Svezia e Danimarca potrebbero prima o poi trovarsi a rivalutare le proprie monete, come è successo al franco svizzero. In tal caso, sovranità non vorrà dire possibilità di svalutare, ma obbligo di rivalutare, anche in questo caso con buona pace di chi straparla di sovranità monetaria.
16 marzo 2015
Jobs act e sindacati
Dopo il jobs act, che tra le critiche ha cambiato il mondo del lavoro, rendendolo più flessibile, cioè dando alle imprese maggiore possibilità di licenziare pagando un'indennità, potrebbe arrivare una legge sui sindacati, che punterebbe a semplificare il rapporto tra imprese e chi tutela i lavoratori.
Una legge sulla rappresentanza sindacale in Italia non s'è mai fatta, nonostante il dettato costituzionale. L'articolo 39 impone ai sindacati statuti democratici e riconoscendo loro la possibilità di firmare "contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce", attribuendo a ogni sindacato un peso proporzionale a quello degli iscritti.
La necessità di "pesare" i sindacati e l'efficacia obbligatoria del contratto non sono mai piaciuti al sindacato stesso e legislatore, che ha evitato di legiferare in materia. Ora il governo starebbe pensando di intervenire sulla questione, creando anche una sorta di quorum: i sindacati che non lo superassero verrebbero esclusi dalle trattative con le imprese.
Ora, se mettiamo insieme il jobs act e questa eventuale legge sui sindacati, cosa otteniamo?
I lavoratori avranno più interesse a iscriversi a un sindacato per far valere i propri diritti, più deboli con il jobs act. Al tempo stesso si scoraggiano i comportamenti opportunistici sia dei sindacati che dei lavoratori, in particolare la proliferazione di sigle sindacali.
Succederà? Lo vedremo. Vedremo se l'Italia diventerà un paese in cui imprese e lavoratori puntano al sodo o se si continuerà a non rispettare la Costituzione e se i furbi (lavoratori, sindacalisti e imprese) continueranno a agire impuniti.
Una legge sulla rappresentanza sindacale in Italia non s'è mai fatta, nonostante il dettato costituzionale. L'articolo 39 impone ai sindacati statuti democratici e riconoscendo loro la possibilità di firmare "contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce", attribuendo a ogni sindacato un peso proporzionale a quello degli iscritti.
La necessità di "pesare" i sindacati e l'efficacia obbligatoria del contratto non sono mai piaciuti al sindacato stesso e legislatore, che ha evitato di legiferare in materia. Ora il governo starebbe pensando di intervenire sulla questione, creando anche una sorta di quorum: i sindacati che non lo superassero verrebbero esclusi dalle trattative con le imprese.
Ora, se mettiamo insieme il jobs act e questa eventuale legge sui sindacati, cosa otteniamo?
I lavoratori avranno più interesse a iscriversi a un sindacato per far valere i propri diritti, più deboli con il jobs act. Al tempo stesso si scoraggiano i comportamenti opportunistici sia dei sindacati che dei lavoratori, in particolare la proliferazione di sigle sindacali.
Succederà? Lo vedremo. Vedremo se l'Italia diventerà un paese in cui imprese e lavoratori puntano al sodo o se si continuerà a non rispettare la Costituzione e se i furbi (lavoratori, sindacalisti e imprese) continueranno a agire impuniti.
11 marzo 2015
Right to work ?
Qualche giorno fa il repubblicano Scott Walker, governatore del Wisconsin, ha firmato la legge detta Right to work.
Si tratta di una norma che rende illegali gli accordi tra sindacati e imprese in base ai quali le imprese assumono lavoratori che si impegnano a prendere la tessera sindacale e a pagare la quota associativa.
Perchè right to work? Perchè per i politici repubblicani tale accordo violerebbe il diritto di un lavoratore di farsi assumere senza essere iscritto al sindacato.
Si tratta di un vero diritto? In teoria sì, ognuno dovrebbe potersi iscrivere o non iscriversi quando e come gli pare. Di fatto si tratta di un modo per colpire i sindacati.
Se si difende il diritto di un soggetto, perchè limitare quello di un'impresa che ritenga opportuno fare un accordo con i sindacati, qualunque esso sia?
Si dirà: il singolo lavoratore sarebbe ricattato dal sindacato, che gli pone l'alternativa tra iscriversi e pagare o restare disoccupato. Ma se si difende il singolo che rischia di essere debole contro l'organizzazione (sindacale), lo stesso vale per il lavoratore che si trova a trattare con l'impresa senza un sindacato a difenderlo.
Già perchè questo è l'obiettivo del governatore repubblicano, che ha precedentemente abolito la contrattazione collettiva per i lavoratori pubblici.
Insomma lo scopo è ridurre i diritti di lavoratori e sindacati. Non a caso le disposizioni del Wisconsin sono le stesse di stati come Alabama o Georgia, non proprio famosi per il rispetto dei diritti dei più deboli.
Si tratta di una norma che rende illegali gli accordi tra sindacati e imprese in base ai quali le imprese assumono lavoratori che si impegnano a prendere la tessera sindacale e a pagare la quota associativa.
Perchè right to work? Perchè per i politici repubblicani tale accordo violerebbe il diritto di un lavoratore di farsi assumere senza essere iscritto al sindacato.
Si tratta di un vero diritto? In teoria sì, ognuno dovrebbe potersi iscrivere o non iscriversi quando e come gli pare. Di fatto si tratta di un modo per colpire i sindacati.
Se si difende il diritto di un soggetto, perchè limitare quello di un'impresa che ritenga opportuno fare un accordo con i sindacati, qualunque esso sia?
Si dirà: il singolo lavoratore sarebbe ricattato dal sindacato, che gli pone l'alternativa tra iscriversi e pagare o restare disoccupato. Ma se si difende il singolo che rischia di essere debole contro l'organizzazione (sindacale), lo stesso vale per il lavoratore che si trova a trattare con l'impresa senza un sindacato a difenderlo.
Già perchè questo è l'obiettivo del governatore repubblicano, che ha precedentemente abolito la contrattazione collettiva per i lavoratori pubblici.
Insomma lo scopo è ridurre i diritti di lavoratori e sindacati. Non a caso le disposizioni del Wisconsin sono le stesse di stati come Alabama o Georgia, non proprio famosi per il rispetto dei diritti dei più deboli.
08 marzo 2015
Lo schema del telegiornale la7
L'incredibile schemino del telegiornale della 7: secondo il ridicolo giornalista perchè il quantitative easing funzioni serve l'anello di congiunzione tra BCE e Banca d'Italia: l'Istituto Poligrafico Zecca dello Stato.
Per creare moneta servirebbe stamparla.
Avranno mai sentito parlare di conti bancari?
Per chi volesse sentire un gran numero di sciocchezze, eccovi il link: http://tg.la7.it/economia/piano-draghi-al-via-1140-miliardi-entro-il-2016-per-far-ripartire-leurozona-08-03-2015-92273
Per creare moneta servirebbe stamparla.
Avranno mai sentito parlare di conti bancari?
Per chi volesse sentire un gran numero di sciocchezze, eccovi il link: http://tg.la7.it/economia/piano-draghi-al-via-1140-miliardi-entro-il-2016-per-far-ripartire-leurozona-08-03-2015-92273
06 marzo 2015
Fuori dall'euro? Un suicidio
Abbiamo imparato nelle scorse settimane che le incertezze sul futuro economico di uno Stato spinge i suoi cittadini a portare all'estero i propri capitali. E' successo in Grecia: il rischio di un ritorno alla dracma e le trattative con l'UE hanno fatto fuggire diversi miliardi di euro dalle banche greche verso le banche di paesi più sicuri.
La fuga dei capitali dalle banche determina la necessità di finanziare le banche, altrimenti insolventi.
Normalmente la banca raccoglie capitali e ne presta una parte. Il resto diventa una riserva destinata a soddisfare i clienti che ritirano i propri soldi. Se questi superano le riserve disponibili, la banca rischia il fallimento, a meno che qualcuno gli faccia un prestito.
Un'altra banca può offrire capitali alla banca che rischia di essere insolvente, o può comprarla. Se però il rischio di insolvenza non riguarda una sola banca ma un intero sistema bancario, come nel caso della Grecia, è difficile che una banca sia salvata da un'altra banca. Servono capitali pubblici.
Ora immaginiamo che l'Italia decida di tornare alla lira. Siamo certi che ciò provocherebbe una fuga di capitali di enormi proporzioni per evitare la svalutazione della lira, desiderata da chi propone l'idea del ritorno.
Le banche italiane si troverebbero in difficoltà perchè molti risparmiatori preferirebbero portare i loro soldi all'estero, lontano da una lira destinata a svalutarsi. Due sarebbero le conseguenze: la necessità di un intervento pubblico per dare alle banche somme enormi, così da impedirne il fallimento e una stretta del credito praticata da un sistema bancario in grave difficoltà.
I vantaggi della svalutazione sarebbe dunque compensati da una forte stretta del credito, da un'inevitabile (perchè la lira si svaluterebbe) risalita dei tassi di interesse e dalla necessità di finanziare le banche a causa della fuga di capitali.
Chi finanzierebbe le banche? Lo Stato, forse, se può finanziarsi. Oppure, come nel caso greco, sarebbero istituzioni internazionali a dare alle banche i soldi. Alle loro condizioni, naturalmente. Quindi imponendo condizioni severe per garantirsi la restituzione dei soldi.
In conclusione uscire dall'euro sarebbe un suicidio e non solo per lo Stato, che oggi si gode tassi di interesse molto bassi anche grazie all'euro.
La fuga dei capitali dalle banche determina la necessità di finanziare le banche, altrimenti insolventi.
Normalmente la banca raccoglie capitali e ne presta una parte. Il resto diventa una riserva destinata a soddisfare i clienti che ritirano i propri soldi. Se questi superano le riserve disponibili, la banca rischia il fallimento, a meno che qualcuno gli faccia un prestito.
Un'altra banca può offrire capitali alla banca che rischia di essere insolvente, o può comprarla. Se però il rischio di insolvenza non riguarda una sola banca ma un intero sistema bancario, come nel caso della Grecia, è difficile che una banca sia salvata da un'altra banca. Servono capitali pubblici.
Ora immaginiamo che l'Italia decida di tornare alla lira. Siamo certi che ciò provocherebbe una fuga di capitali di enormi proporzioni per evitare la svalutazione della lira, desiderata da chi propone l'idea del ritorno.
Le banche italiane si troverebbero in difficoltà perchè molti risparmiatori preferirebbero portare i loro soldi all'estero, lontano da una lira destinata a svalutarsi. Due sarebbero le conseguenze: la necessità di un intervento pubblico per dare alle banche somme enormi, così da impedirne il fallimento e una stretta del credito praticata da un sistema bancario in grave difficoltà.
I vantaggi della svalutazione sarebbe dunque compensati da una forte stretta del credito, da un'inevitabile (perchè la lira si svaluterebbe) risalita dei tassi di interesse e dalla necessità di finanziare le banche a causa della fuga di capitali.
Chi finanzierebbe le banche? Lo Stato, forse, se può finanziarsi. Oppure, come nel caso greco, sarebbero istituzioni internazionali a dare alle banche i soldi. Alle loro condizioni, naturalmente. Quindi imponendo condizioni severe per garantirsi la restituzione dei soldi.
In conclusione uscire dall'euro sarebbe un suicidio e non solo per lo Stato, che oggi si gode tassi di interesse molto bassi anche grazie all'euro.
04 marzo 2015
Le isole del tesoro
Nei giorni scorsi il ministro Padoan ha firmato ter accordi con Svizzera, Lichtestein e Principato di Monaco che faranno cadere il segreto bancario sui conti di italiani presso questi paesi.
I tre (quasi ex) paradisi fiscali sono solo alcuni dei tanti paesi in cui una parte consistente dell'economia dipende dalla gestione di fondi provenienti dall'estero, a cui si garantiscono condizioni assai favorevoli in termini di segretezza, fiscalità, regole giuridiche.
A chi volesse saperne di più consiglio questo libro: Le isole del tesoro, che racconta molti segreti dei paradisi fiscali, dove si muovono capitali frutto di attività poco legali nel disinteresse di alcuni stati, USA e Gran Bretagna su tutti, o meglio nell'interesse dei paesi che con la gestione dei capitali provenienti da mezzo mondo creano ricchezza e posti di lavoro ben pagati.
I tre (quasi ex) paradisi fiscali sono solo alcuni dei tanti paesi in cui una parte consistente dell'economia dipende dalla gestione di fondi provenienti dall'estero, a cui si garantiscono condizioni assai favorevoli in termini di segretezza, fiscalità, regole giuridiche.
A chi volesse saperne di più consiglio questo libro: Le isole del tesoro, che racconta molti segreti dei paradisi fiscali, dove si muovono capitali frutto di attività poco legali nel disinteresse di alcuni stati, USA e Gran Bretagna su tutti, o meglio nell'interesse dei paesi che con la gestione dei capitali provenienti da mezzo mondo creano ricchezza e posti di lavoro ben pagati.
01 marzo 2015
La scuola sconvolta dalla crisi
Interessante intervista della preside del liceo D'Azeglio di Torino, il liceo classico più famoso, quello in cui hanno studiato molti famosi intellettuali torinesi, come Norberto Bobbio o Cesare Pavese.
Al liceo D'Azeglio si iscrivono ormai solo i figli di ex alunni, mancano i figli di chi non ha frequentato il liceo classico, e l'interesse delle famiglie che si informano negli open day del liceo sembra orientato a dare ai figli un'educazione capace di portarli poi a studiare all'estero.
E' un effetto -forse- della crisi. Le famiglie vogliono che i figli abbiano conoscenze utili subito, sono preoccupate per il futuro lavorativo, vogliono che i figli vadano a studiare all'estero. Non interessa un percorso di studi in cui l'obiettivo principale è acquisire una conoscenza da usare in un percorso universitario o semplicemente qualità che si possono usare sempre. Le famiglie vogliono qualcosa di spendibile subito in ambito lavorativo.
Così sono solo gli ex alunni, cioè di chi ha vissuto l'esperienza del liceo classico, a volere i figli nella stessa scuola. Chi non ha un passato al liceo è più restio a spingere i figli a frequentarli. E questo vale per tutti, spiega la preside. Un tempo si credeva nella cultura e anche i figli degli operai frequentavano il liceo classico. Ora non più.
La crisi ha certamente una colpa in tutto ciò: può spiegare il volere che i figli abbiano più opportunità lavorative, il desiderio di farli studiare all'estero ma anche la rinuncia a migliorare con la cultura il proprio livello sociale.
La crisi ha reso tutti meno ambiziosi, ha fermato l'economia ma anche la società.
Al liceo D'Azeglio si iscrivono ormai solo i figli di ex alunni, mancano i figli di chi non ha frequentato il liceo classico, e l'interesse delle famiglie che si informano negli open day del liceo sembra orientato a dare ai figli un'educazione capace di portarli poi a studiare all'estero.
E' un effetto -forse- della crisi. Le famiglie vogliono che i figli abbiano conoscenze utili subito, sono preoccupate per il futuro lavorativo, vogliono che i figli vadano a studiare all'estero. Non interessa un percorso di studi in cui l'obiettivo principale è acquisire una conoscenza da usare in un percorso universitario o semplicemente qualità che si possono usare sempre. Le famiglie vogliono qualcosa di spendibile subito in ambito lavorativo.
Così sono solo gli ex alunni, cioè di chi ha vissuto l'esperienza del liceo classico, a volere i figli nella stessa scuola. Chi non ha un passato al liceo è più restio a spingere i figli a frequentarli. E questo vale per tutti, spiega la preside. Un tempo si credeva nella cultura e anche i figli degli operai frequentavano il liceo classico. Ora non più.
La crisi ha certamente una colpa in tutto ciò: può spiegare il volere che i figli abbiano più opportunità lavorative, il desiderio di farli studiare all'estero ma anche la rinuncia a migliorare con la cultura il proprio livello sociale.
La crisi ha reso tutti meno ambiziosi, ha fermato l'economia ma anche la società.
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