Quando sui mass media si discute di un settore economico importante, spesso si sentono dire frasi del tipo: "il fatturato del nostro settore è pari al 2% del PIL".
Un economista di fronte a questa frase inorridisce, perché fatturato e valore aggiunto sono due cose molto diverse.
Un artigiano che prende del legno e produce mobili, che vende incassando 100.000 euro, fattura 100.000 euro. Qual è il valore aggiunto?
Ai 100.000 euro vanno sottratti alcune spese sostenute dall'artigiano, vale a dire le spese per acquistare il legno, per pagare gli strumenti usati, l'affitto del laboratorio artigiano, le vernici, le colle, le viti, ecc.
Quel che resta è il valore aggiunto: l'artigiano ha comprato legno, vernici, colle, ecc spendendo -supponiamo- 40 mila euro e ha aggiunto valore, vendendoli a 100 mila euro. Nel nostro esempio banale il valore aggiunto è 60.000 euro.
Che fine fanno questi ipotetici 60 mila euro?
Pagano gli stipendi, le imposte, gli oneri bancari, un eventuale utile della società, gli investimenti.
Dunque fatturato e valore aggiunto sono due grandezze differenti. Il fatturato indica quanto incassa l'impresa, mentre il valore aggiunto indica quanti soldi retribuiscono il lavoro, il capitale, le imposte e gli utili.
La somma dei valori aggiunti delle imprese è il PIL del settore privato (quello del settore pubblico si calcola in altro modo). Per questo motivo non ha senso la frase iniziale: il fatturato è un valore di solito molto superiore al valore aggiunto e non c'entra col valore aggiunto.
Per dare un'idea, l'ENI fattura in un anno oltre 110 miliardi di euro, ma il valore aggiunto è di soli 20 miliardi. Il fatturato è pari a oltre il 7% del PIL, ma il valore aggiunto è poco più dell'1% del PIL.
E' una differenza importante, perchè significa che poco più dell'1% del PIL (e non il 7%) proviene dall'ENI. Questo è il vero "peso" dell'ENI nell'economia. Rapportare invece il fatturato al PIL non ha senso e serve solo a gonfiare i numeri inutilmente.
29 aprile 2014
27 aprile 2014
Il ritorno di Stark
Ve lo ricorsate Stark, capo economista della BCE e custode dell'ortodossia della Bundesbank all'interno della BCE? Ne avevamo parlato in occasione delle sue dimissioni (vedi qui), in segno di protesta
Stark ha rilasciato un'intervista al Financial Times che Krugman critica pesantemente. Secondo Stark la presenza di un basso livello di inflazione (vicino allo zero) sarebbe positivo perché aumenterebbe i salari in termini reali, spingendo le famiglie a consumare di più.
E' un errore banale, spiega Krugman: sarebbe vero se i salari aumentassero -supponiamo- del 3% sempre, sia che l'inflazione sia del 2,5% sia nel caso in cui l'inflazione sia dello 0,5%. Invece i salari aumentano del 3% se l'inflazione è del 2,5% e dell'1% se l'inflazione è dello 0,5%.
Quindi un tasso di inflazione più basso non garantisce un aumento dei salari reali (aumento pari alla differenza tra l'aumento dei salari nominali e il tasso di inflazione) mentre produce -spiega Krugman- effetti negativi per i debitori. Il debito infatti diminuisce in termini reali per effetto dell'inflazione. Una debitore che sa che l'inflazione erode di meno il suo debito sarà tentato di ridurre i suoi consumi più di quanto li aumentino i creditori.
"Che un ex funzionario monetario di altissimo livello non capisca una cosa del genere lascia veramente sbalorditi" prosegue Krugman, che si stupisce anche perchè Stark aggiunge che non esiste un pericolo di deflazione in Europa e che, se mai ci sarà, la colpa (della deflazione) sarà di chi oggi lancia l'allarme su una possibile deflazione.
Ora vien da chiedersi: perchè Stark nega il rischio di deflazione e spiega che il basso tasso di inflazione è positivo anche se ciò non è vero?
Le possibili risposte sono due.
La prima è che l'ex capo economista della BCE non capisca molto di economia o che abbia imparato teorie contestabili.
La seconda è che Stark, non accettando l'idea che la BCE possa mettere in pratica interventi straordinari per combattere il rischio di deflazione, provi a negare tale rischio, raccontandoci che la bassa inflazione ha solo conseguenze positive.
Stark ha rilasciato un'intervista al Financial Times che Krugman critica pesantemente. Secondo Stark la presenza di un basso livello di inflazione (vicino allo zero) sarebbe positivo perché aumenterebbe i salari in termini reali, spingendo le famiglie a consumare di più.
E' un errore banale, spiega Krugman: sarebbe vero se i salari aumentassero -supponiamo- del 3% sempre, sia che l'inflazione sia del 2,5% sia nel caso in cui l'inflazione sia dello 0,5%. Invece i salari aumentano del 3% se l'inflazione è del 2,5% e dell'1% se l'inflazione è dello 0,5%.
Quindi un tasso di inflazione più basso non garantisce un aumento dei salari reali (aumento pari alla differenza tra l'aumento dei salari nominali e il tasso di inflazione) mentre produce -spiega Krugman- effetti negativi per i debitori. Il debito infatti diminuisce in termini reali per effetto dell'inflazione. Una debitore che sa che l'inflazione erode di meno il suo debito sarà tentato di ridurre i suoi consumi più di quanto li aumentino i creditori.
"Che un ex funzionario monetario di altissimo livello non capisca una cosa del genere lascia veramente sbalorditi" prosegue Krugman, che si stupisce anche perchè Stark aggiunge che non esiste un pericolo di deflazione in Europa e che, se mai ci sarà, la colpa (della deflazione) sarà di chi oggi lancia l'allarme su una possibile deflazione.
Ora vien da chiedersi: perchè Stark nega il rischio di deflazione e spiega che il basso tasso di inflazione è positivo anche se ciò non è vero?
Le possibili risposte sono due.
La prima è che l'ex capo economista della BCE non capisca molto di economia o che abbia imparato teorie contestabili.
La seconda è che Stark, non accettando l'idea che la BCE possa mettere in pratica interventi straordinari per combattere il rischio di deflazione, provi a negare tale rischio, raccontandoci che la bassa inflazione ha solo conseguenze positive.
25 aprile 2014
Ancora lo spread
La prospettiva di una recessione ormai finita, come dicono oggi le agenzie di rating, ha da tempo effetti positivi. Il più evidente è il boom di borsa, il meno evidente ma forse il più importante è il calo dello spread e dei tassi pagati dallo Stato quando emette titoli di Stato.
Lo spread è la differenza tra i rendimenti sui titoli di durata decennali in economie diverse. Nel caso specifico la differenza tra il rendimento dei titoli italiani e quello dei titoli tedeschi. Se lo spread diminuisce di solito significa che anche il rendimento diminuisce e con esso i tassi pagati dallo stato.
La Banca d'Italia pubblica i rendimenti medi dei titoli di stato che non sono i tassi pagati sui titoli emessi, ma i rendimenti ex post: se un titolo paga il 5% ma il suo prezzo scende, perchè la sfiducia verso il debitore spinge chi lo possiede a venderlo, il rendimento effettivo può essere superiore al 5%. E questo comporta che le emissioni successive pagheranno un tasso vicino al tasso di rendimento effettivo, altrimenti gli investitori preferirebbero acquistare un titolo già emesso invece di un titolo di nuova emissione.
Il rendimento medio (rendistato) è salito alle stelle a partire dal luglio del 2011 (come risulta qui): da poco pià del 4% al 5% e poi oltre il 6% a fine 2011, per poi scendere lentamente nel corso del 2012 e nel 2013.
Nel 2013 i rendimenti medi sono stati attorno al 3,35%. Nei primi 3 mesi del 2014 sono al 2,65% (in media): circa lo 0,7% in meno, dato coerente con uno spread sceso da 230-240 a circa 160.
Quanto si risparmia? Dall'inizio dell'anno sono stati emessi titoli per quasi 100 miliardi di euro. Un calo dei tassi dello 0,7% vuol dire 700 milioni in meno in 4 mesi.
Lo spread è la differenza tra i rendimenti sui titoli di durata decennali in economie diverse. Nel caso specifico la differenza tra il rendimento dei titoli italiani e quello dei titoli tedeschi. Se lo spread diminuisce di solito significa che anche il rendimento diminuisce e con esso i tassi pagati dallo stato.
La Banca d'Italia pubblica i rendimenti medi dei titoli di stato che non sono i tassi pagati sui titoli emessi, ma i rendimenti ex post: se un titolo paga il 5% ma il suo prezzo scende, perchè la sfiducia verso il debitore spinge chi lo possiede a venderlo, il rendimento effettivo può essere superiore al 5%. E questo comporta che le emissioni successive pagheranno un tasso vicino al tasso di rendimento effettivo, altrimenti gli investitori preferirebbero acquistare un titolo già emesso invece di un titolo di nuova emissione.
Il rendimento medio (rendistato) è salito alle stelle a partire dal luglio del 2011 (come risulta qui): da poco pià del 4% al 5% e poi oltre il 6% a fine 2011, per poi scendere lentamente nel corso del 2012 e nel 2013.
Nel 2013 i rendimenti medi sono stati attorno al 3,35%. Nei primi 3 mesi del 2014 sono al 2,65% (in media): circa lo 0,7% in meno, dato coerente con uno spread sceso da 230-240 a circa 160.
Quanto si risparmia? Dall'inizio dell'anno sono stati emessi titoli per quasi 100 miliardi di euro. Un calo dei tassi dello 0,7% vuol dire 700 milioni in meno in 4 mesi.
24 aprile 2014
Henry Ford
Henry Ford, il noto fondatore della casa automobilistica che prende il suo nome, è noto per aver parlato male delle banche: "meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario - disse Ford- altrimenti scoppierebbe una rivoluzione".
Ma lui, Henry Ford, lo capiva?
Stando a Kenneth Galbraith, che ne parla a pagina 217 e 218 di Soldi (Mondadori), si direbbe proprio di no.
Nel 1932-33, nel bel mezzo della crisi economica che sconvolse gli USA e l'Europa, si assisteva quasi ogni fiorno alla corsa agli sportelli. I clienti delle banche non fidandosi più della solidità del sistema bancario e della solvibilità delle banche andavano a ritirare i loro soldi. Si formavano code di clienti in attesa di portare a casa un gruzzoletto di contanti, nel timore che le banche fallissero.
Una delle banche in difficoltà era la Union Guardian Trust. Ford e le sue imprese avevano tre conti presso la banca di 7,5 milioni, un altro di 17,5 milioni presso la Guardian Trust Company e circa 25 milioni alla First National Bank of Detroit.
Nel tentativo di salvare la Union Trust si chiede di "subordinare le sue esigenze a un prestito di salvataggio. Era un dovere civico", scrive Galbraith. Ma Ford dice no, ritenendo sbagliato il salvataggio, e che tutto sommato il fallimento non era una cattiva esperienza.
Il giorno dopo il governatore del Michigan chiuse tutte le banche e "tre settimane dopo, quando Roosevel assunse i poteri, erano ancora aperte soltanto le banche del Nordest", continua Galbraith.
Ford riteneva che la gente non capisse il funzionamento di banche e sistema monetario. Ma neanche lui l'aveva capito, convinto che il sistema bancario fosse in contrasto con l'industria al punto da poterne causare la fine.
Ma lui, Henry Ford, lo capiva?
Stando a Kenneth Galbraith, che ne parla a pagina 217 e 218 di Soldi (Mondadori), si direbbe proprio di no.
Nel 1932-33, nel bel mezzo della crisi economica che sconvolse gli USA e l'Europa, si assisteva quasi ogni fiorno alla corsa agli sportelli. I clienti delle banche non fidandosi più della solidità del sistema bancario e della solvibilità delle banche andavano a ritirare i loro soldi. Si formavano code di clienti in attesa di portare a casa un gruzzoletto di contanti, nel timore che le banche fallissero.
Una delle banche in difficoltà era la Union Guardian Trust. Ford e le sue imprese avevano tre conti presso la banca di 7,5 milioni, un altro di 17,5 milioni presso la Guardian Trust Company e circa 25 milioni alla First National Bank of Detroit.
Nel tentativo di salvare la Union Trust si chiede di "subordinare le sue esigenze a un prestito di salvataggio. Era un dovere civico", scrive Galbraith. Ma Ford dice no, ritenendo sbagliato il salvataggio, e che tutto sommato il fallimento non era una cattiva esperienza.
Il giorno dopo il governatore del Michigan chiuse tutte le banche e "tre settimane dopo, quando Roosevel assunse i poteri, erano ancora aperte soltanto le banche del Nordest", continua Galbraith.
Ford riteneva che la gente non capisse il funzionamento di banche e sistema monetario. Ma neanche lui l'aveva capito, convinto che il sistema bancario fosse in contrasto con l'industria al punto da poterne causare la fine.
22 aprile 2014
L'accordo di Unicredit e IntesaSP
Come impostare una politica industriale senza soldi pubblici e con uno Stato piuttosto ostile all'idea di avere una politica industriale?
Un'idea semplice è questa: si prendono le aziende appartenenti a uno stesso settore, si studiano le situazioni di ciascuna e se serve si uniscono le imprese, si realizzano progetti comuni, si integrano le attività, i prodotti, ecc. costruendo imprese capaci di stare meglio sul mercato.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi, penserà qualcuno. Perchè mai un imprenditore dovrebbe cedere la propria azienda o accettare di lavorare con un'altra azienda se non esiste uno specifico incentivo?
La risposta è che se si tratta di imprese in crisi o se hanno debiti eccessivi, chi ne gestisce i debiti può costringere le imprese a mettersi insieme, a unire le forze per uscire prima e meglio dalle difficoltà.
E' quanto stanno facendo le due principali banche italiane, Unicredit e Intesa San Paolo, che hanno deciso insieme di cedere parte dei propri crediti a un'apposita società, partecipata da KKR.
La società acquirente dei crediti finanzierà le imprese allo scopo di farle uscire dalla crisi, probabilmente dopo aver acquistato azioni della società indebitata o dopo aver trasformato i debiti in azioni. Rimesse a posto le imprese, queste (o le azioni) saranno vendute.
E' un'iniziativa interessante e sicuramente limitata, ma è un modo di far politica industriale in un paese che ha rinunciato a farla.
Un'idea semplice è questa: si prendono le aziende appartenenti a uno stesso settore, si studiano le situazioni di ciascuna e se serve si uniscono le imprese, si realizzano progetti comuni, si integrano le attività, i prodotti, ecc. costruendo imprese capaci di stare meglio sul mercato.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi, penserà qualcuno. Perchè mai un imprenditore dovrebbe cedere la propria azienda o accettare di lavorare con un'altra azienda se non esiste uno specifico incentivo?
La risposta è che se si tratta di imprese in crisi o se hanno debiti eccessivi, chi ne gestisce i debiti può costringere le imprese a mettersi insieme, a unire le forze per uscire prima e meglio dalle difficoltà.
E' quanto stanno facendo le due principali banche italiane, Unicredit e Intesa San Paolo, che hanno deciso insieme di cedere parte dei propri crediti a un'apposita società, partecipata da KKR.
La società acquirente dei crediti finanzierà le imprese allo scopo di farle uscire dalla crisi, probabilmente dopo aver acquistato azioni della società indebitata o dopo aver trasformato i debiti in azioni. Rimesse a posto le imprese, queste (o le azioni) saranno vendute.
E' un'iniziativa interessante e sicuramente limitata, ma è un modo di far politica industriale in un paese che ha rinunciato a farla.
17 aprile 2014
La franchigia sulla RC auto a favore di...
Pochi lo sanno, ma quando si stipula la polizza auto si paga una tassa del 10,5% al sistema sanitario. Si chiama contributo SSN, dove SSN sta per sistema sanitario nazionale.
Fino a qualche anno fa al momento di fare la dichiarazione dei redditi si poteva dedurre tale contributo. Ciò significa sottrarre al reddito su cui si calcola l'imposta sul reddito l'ammontare del contributo.
Per esempio chi avesse avuto un reddito di 25.000 euro e avesse pagato 40 euro di contributo sull'assicurazione, avrebbe, per effetto della deduzione, calcolato l'imposta su 24.960 euro, cioè 25 mila meno i 40 euro di contributo SSN, ottenendo uno sconto fiscale pari al 40 euro moltiplicato il 27%, l'aliquota marginale.
Fatti i conti, una decina di euro.
Ebbene, un decreto del 2013 consente la deducibilità ma solo per la parte che eccede i 40 euro, escludendo dalla deduzione chiunque paghi un'assicurazione inferiore a circa 400 euro.
Gli effetti di questo cambiamento sono due: si fa pagare un'imposta, sotto forma di mancato sconto fiscale, a tutti gli automobilisti, e si favoriscono gli automobilisti che pagano un'assicurazione elevata o perchè dispongono di un'auto di grossa cilindrata oppure perchè sono automobilisti poco virtuosi e l'assicurazione chiede loro un premio maggiore.
Essere virtuosi non paga.
Fino a qualche anno fa al momento di fare la dichiarazione dei redditi si poteva dedurre tale contributo. Ciò significa sottrarre al reddito su cui si calcola l'imposta sul reddito l'ammontare del contributo.
Per esempio chi avesse avuto un reddito di 25.000 euro e avesse pagato 40 euro di contributo sull'assicurazione, avrebbe, per effetto della deduzione, calcolato l'imposta su 24.960 euro, cioè 25 mila meno i 40 euro di contributo SSN, ottenendo uno sconto fiscale pari al 40 euro moltiplicato il 27%, l'aliquota marginale.
Fatti i conti, una decina di euro.
Ebbene, un decreto del 2013 consente la deducibilità ma solo per la parte che eccede i 40 euro, escludendo dalla deduzione chiunque paghi un'assicurazione inferiore a circa 400 euro.
Gli effetti di questo cambiamento sono due: si fa pagare un'imposta, sotto forma di mancato sconto fiscale, a tutti gli automobilisti, e si favoriscono gli automobilisti che pagano un'assicurazione elevata o perchè dispongono di un'auto di grossa cilindrata oppure perchè sono automobilisti poco virtuosi e l'assicurazione chiede loro un premio maggiore.
Essere virtuosi non paga.
16 aprile 2014
PIL della Nigeria: +94% in una notte
C'è una vicenda raccontata da The Economist che spiega bene come le statistiche in campo economiche vadano prese con le pinze e, soprattutto, debbano essere valutate per bene.
Un relative al prodotto interno lordo ha fatto salire il PIL della Nigeria del 94%, facendo diventare il paese dell'Africa Occidentale la prima economia del continente, superando anche il Sud Africa.
aggiornamento delle statistiche
Com'è possibile?
Le statistiche sul PIL sono il frutto di una stima che, per essere credibile, ha bisogno di almeno un paio di dati: il peso di ciascun settore nell'economia, che deve essere aggiornato periodicamente, e l'incremento dei prezzi in ciascun settore (e nell'economia in generale).
Questo non è successo in Nigeria. Non hanno aggiornato le statistiche, comportandosi come se la composizione dell'economia fosse rimasta quella di oltre 20 anni fa. In particolare due settori sono stati "dimenticati" dalle statistiche: il settore cinematografico e quello delle telecomunicazioni. Il primo non era preso in considerazione dalle statistiche degli anni '90. Il secondo invece pesava molto poco.
La sottovalutazione dei settori nuovi e dinamici ha depresso per anni il dato del PIL della Nigeria in due modi: direttamente perchè non si prendeva in considerazione il contributo di tali settori al PIL e indirettamente perchè si sopravvalutava l'aumento dei prezzi.
I settori nuovi e dinamici di solito fanno registrare prezzi che salgono meno dei prezzi dei settori tradizionali. Se le statistiche dimenticano di considerare l'esistenza di tali settori, l'effetto è un tasso di inflazione registrato superiore al vero, con conseguente sottovalutazione del dato del PIL.
Per questi motivi in una sola notte il PIL della Nigeria è quasi raddoppiato. Da economia petrolifera, la Nigeria è diventato, secondo le statistiche economiche, un paese molto più ricco e con un'economia più equilibrata. Accanto al petrolio ci sono anche altri settori, finalmente presi in considerazione dalle statistiche.
Un relative al prodotto interno lordo ha fatto salire il PIL della Nigeria del 94%, facendo diventare il paese dell'Africa Occidentale la prima economia del continente, superando anche il Sud Africa.
aggiornamento delle statistiche
Com'è possibile?
Le statistiche sul PIL sono il frutto di una stima che, per essere credibile, ha bisogno di almeno un paio di dati: il peso di ciascun settore nell'economia, che deve essere aggiornato periodicamente, e l'incremento dei prezzi in ciascun settore (e nell'economia in generale).
Questo non è successo in Nigeria. Non hanno aggiornato le statistiche, comportandosi come se la composizione dell'economia fosse rimasta quella di oltre 20 anni fa. In particolare due settori sono stati "dimenticati" dalle statistiche: il settore cinematografico e quello delle telecomunicazioni. Il primo non era preso in considerazione dalle statistiche degli anni '90. Il secondo invece pesava molto poco.
La sottovalutazione dei settori nuovi e dinamici ha depresso per anni il dato del PIL della Nigeria in due modi: direttamente perchè non si prendeva in considerazione il contributo di tali settori al PIL e indirettamente perchè si sopravvalutava l'aumento dei prezzi.
I settori nuovi e dinamici di solito fanno registrare prezzi che salgono meno dei prezzi dei settori tradizionali. Se le statistiche dimenticano di considerare l'esistenza di tali settori, l'effetto è un tasso di inflazione registrato superiore al vero, con conseguente sottovalutazione del dato del PIL.
Per questi motivi in una sola notte il PIL della Nigeria è quasi raddoppiato. Da economia petrolifera, la Nigeria è diventato, secondo le statistiche economiche, un paese molto più ricco e con un'economia più equilibrata. Accanto al petrolio ci sono anche altri settori, finalmente presi in considerazione dalle statistiche.
14 aprile 2014
BCE vs Salvastati, due anni dopo...
Due anni e mezzo fa, nell'autunno del 2011, eravamo alle prese con la crisi del debito pubblico. Lo spread volava alle stelle e qualcuno si diceva certo di un fallimento imminente dell'Italia.
Due anni dopo lo spread è a livelli piuttosto bassi (attorno a 160/170), alle aste dei titoli di stato si collocano BTP e BOT con tassi molto bassi, i più degli ultimi 3-4 anni.
A chi si deve questo cambiamento? In buona parte alla BCE guidata da Draghi, che lentamente ma inesorabilmente ha per così dire copiato la politica monetaria della FED, immettendo moneta nell'economia per ridurre i tassi.
Non poteva succedere diversamente, anche se c'era chi pensava che la soluzione fosse il ricorso a un fondo salva-stati: i paesi europei avrebbero dovuto finanziare un fondo (o più fondi), destinato a prestare centinaia di miliardi di euro ai paesi in difficoltà.
Il fondo salvastati pareva una invenzione di qualche burocrate pigro, preoccupato di ottenere due risultati: primo, tener fuori la BCE da operazioni di salvataggio o da operazioni straordinarie, e, secondo, obbligare gli stati a curarsi da soli le crisi.
Il ricorso ai fondi non era una buona idea (ne avevamo parlato qui: http://www.econoliberal.it/2012/08/lincredibile-giustificazione-contro-gli.html). Si trattava di uno strumento complicato da usare, perchè doveva essere finanziato e accettato dagli stati (ricordiamo le questioni di costituzionalità sollevate in Germania), per poi funzionare come una banca impeganta a acquistare titoli di stato, imponendo magari ai debitori sacrifici.
Invece il grosso del lavoro l'ha fatto la BCE, come suggeriva il buon senso: meglio lasciar agire una banca centrale piuttosto che uno strumento soggetto ai voleri del governi e di leggi nazionali.
Una buona scelta, ma soprattutto una scelta di buon senso: anche le scelte dei tedeschi, che ultimamente hanno dato il via libera alla strategia di Draghi, confermano che tra il ricorso a fondi salvastati e il ricorso alla BCE, la seconda era la soluzione migliore.
Se solo l'avessero capito prima...
Due anni dopo lo spread è a livelli piuttosto bassi (attorno a 160/170), alle aste dei titoli di stato si collocano BTP e BOT con tassi molto bassi, i più degli ultimi 3-4 anni.
A chi si deve questo cambiamento? In buona parte alla BCE guidata da Draghi, che lentamente ma inesorabilmente ha per così dire copiato la politica monetaria della FED, immettendo moneta nell'economia per ridurre i tassi.
Non poteva succedere diversamente, anche se c'era chi pensava che la soluzione fosse il ricorso a un fondo salva-stati: i paesi europei avrebbero dovuto finanziare un fondo (o più fondi), destinato a prestare centinaia di miliardi di euro ai paesi in difficoltà.
Il fondo salvastati pareva una invenzione di qualche burocrate pigro, preoccupato di ottenere due risultati: primo, tener fuori la BCE da operazioni di salvataggio o da operazioni straordinarie, e, secondo, obbligare gli stati a curarsi da soli le crisi.
Il ricorso ai fondi non era una buona idea (ne avevamo parlato qui: http://www.econoliberal.it/2012/08/lincredibile-giustificazione-contro-gli.html). Si trattava di uno strumento complicato da usare, perchè doveva essere finanziato e accettato dagli stati (ricordiamo le questioni di costituzionalità sollevate in Germania), per poi funzionare come una banca impeganta a acquistare titoli di stato, imponendo magari ai debitori sacrifici.
Invece il grosso del lavoro l'ha fatto la BCE, come suggeriva il buon senso: meglio lasciar agire una banca centrale piuttosto che uno strumento soggetto ai voleri del governi e di leggi nazionali.
Una buona scelta, ma soprattutto una scelta di buon senso: anche le scelte dei tedeschi, che ultimamente hanno dato il via libera alla strategia di Draghi, confermano che tra il ricorso a fondi salvastati e il ricorso alla BCE, la seconda era la soluzione migliore.
Se solo l'avessero capito prima...
12 aprile 2014
Federica Guidi
Che fa Federica Guidi al ministero dello Sviluppo Economico?
Pare poco o nulla, almeno stando a certe dichiarazioni. Come questa:
"Un'azienda privata può fare quello che vuole ... Non voglio fare il difensore di nessuno e nemmeno della Fiat ..se pensiamo al percorso che il gruppo ha fatto dagli anni '80 ad oggi è un'altra azienda, gli investimenti sono stati fatti". Piuttosto, a giudizio della Guidi, "occorre creare le condizioni perché qualunque azienda, italiana o straniera, ritrovi un valore aggiunto nell'investire nel nostro Paese". Del resto, ha concluso, "nessuna azienda può essere trattenuta a forza ed obbligata per legge ad investire".
Dichiarazioni che, come ha osservato un esponente della Fiom, spingono a chiedersi perchè esista un ministero dello sviluppo economico.
Se la sola cosa da fare è creare le condizioni economiche perchè le imprese investano, il ministero dello sviluppo si può abolire, perchè inutile. Lo scopo del ministero dovrebbe essere infatti quello di ottenere uno sviluppo più sostenuto sia nel breve che nel lungo periodo, obiettivo per raggiungere il quale gli stati realizzano politiche specifiche, stimolando i settori più dinamici, orientando l'uso delle risorse umane e materiali, distribuendo il carico fiscale o gli aiuti alle imprese in modo da ottenere tassi di crescita maggiori e migliori condizioni perchè in futuro si continui a crescere.
Fiat è libera di andare dove vuole? Certo, ma se si sposta altrove non sarà mica perchè altrove sono più capaci di usare le risorse a disposizione per realizzare le politiche industriali che noi aspettiamo e non arrivano mai?
Pare poco o nulla, almeno stando a certe dichiarazioni. Come questa:
"Un'azienda privata può fare quello che vuole ... Non voglio fare il difensore di nessuno e nemmeno della Fiat ..se pensiamo al percorso che il gruppo ha fatto dagli anni '80 ad oggi è un'altra azienda, gli investimenti sono stati fatti". Piuttosto, a giudizio della Guidi, "occorre creare le condizioni perché qualunque azienda, italiana o straniera, ritrovi un valore aggiunto nell'investire nel nostro Paese". Del resto, ha concluso, "nessuna azienda può essere trattenuta a forza ed obbligata per legge ad investire".
Dichiarazioni che, come ha osservato un esponente della Fiom, spingono a chiedersi perchè esista un ministero dello sviluppo economico.
Se la sola cosa da fare è creare le condizioni economiche perchè le imprese investano, il ministero dello sviluppo si può abolire, perchè inutile. Lo scopo del ministero dovrebbe essere infatti quello di ottenere uno sviluppo più sostenuto sia nel breve che nel lungo periodo, obiettivo per raggiungere il quale gli stati realizzano politiche specifiche, stimolando i settori più dinamici, orientando l'uso delle risorse umane e materiali, distribuendo il carico fiscale o gli aiuti alle imprese in modo da ottenere tassi di crescita maggiori e migliori condizioni perchè in futuro si continui a crescere.
Fiat è libera di andare dove vuole? Certo, ma se si sposta altrove non sarà mica perchè altrove sono più capaci di usare le risorse a disposizione per realizzare le politiche industriali che noi aspettiamo e non arrivano mai?
08 aprile 2014
Ancora sulle quote di Bankitalia
La rivalutazione delle quote di Bankitalia, di cui s'era parlato qui, sta riservando una sorpresa: un aumento delle entrate fiscali di circa 1 miliardo.
La rivalutazione delle quote voluta dal governo Letta garantiva un introito fiscale di 1 miliardo, calcolato moltiplicando il maggior valore delle quote per l'aliquota del 12,5%. Il governo Letta ha scelto di applicare l'aliquota più bassa, il 12,5%, invece del 20%, l'aliquota sulle rendite finanziarie.
Nel frattempo però il governo Renzi ha fatto salire tale aliquota dal 20 al 26% e ha deciso di applicarla alle plusvalenze sulle quote, che così renderanno al governo oltre 2 miliardi di euro.
Un atto coraggioso, che non farà piacere alle banche, ma aiuta e non poco i conti pubblici.
La rivalutazione delle quote voluta dal governo Letta garantiva un introito fiscale di 1 miliardo, calcolato moltiplicando il maggior valore delle quote per l'aliquota del 12,5%. Il governo Letta ha scelto di applicare l'aliquota più bassa, il 12,5%, invece del 20%, l'aliquota sulle rendite finanziarie.
Nel frattempo però il governo Renzi ha fatto salire tale aliquota dal 20 al 26% e ha deciso di applicarla alle plusvalenze sulle quote, che così renderanno al governo oltre 2 miliardi di euro.
Un atto coraggioso, che non farà piacere alle banche, ma aiuta e non poco i conti pubblici.
06 aprile 2014
Mortalità dei bambini in Grecia
Mentre sentivo il live di lefou, venerdì scorso, ho fatto un balzo sulla sedia. Lefou e il suo ospite stavano parlando dell'errore di alcuni giornalisti, secondo i quali la mortalità infantile in Grecia è aumentata per effetto delle misure di austerity, e spiegavano che l'aumento s'è verificato solo per un per un breve periodo. Nel lungo termine invece s'è registrato un miglioramento.
Ora, se si legge l'articolo di Repubblica, si scopre che non sarebbe aumentata solo la mortalità infantile, ma sarebbero peggiorati altri indicatori, come i malati di AIDS a causa delle riduzione della distribuzione da parte della sanità pubblica di siringhe monouso, e sempre a causa delle politiche di austerità.
Quindi, viene da dire, o Lancet e Repubblica sbagliato sempre e si inventano le notizie, come suggerisce questo blog di un ingegnere ultraconservatore, oppure c'è una spiegazione magari banale che non è stata cercata.
I dati riportati da Lancet nella tabella che segue (cliccateci sopra per ingrandirla) suggeriscono una possibile spiegazione allo "strano" fenomeno di tassi di mortalità che salgono ma solo per un breve periodo.
A parte la contestabile scelta di rapportare la mortalità in un certo anno dei bambini con meno di 5 anni con i nati vivi nello stesso anno, è evidente che la crisi ha fatto diminuire in modo consistente le nascite, passate da oltre 118 mila a poco più di 100 mila.
E' interessante notare che la crisi del 2008 ha modificato di poco le nascite nel 2009 (un migliaio in meno) e l'esplosione della crisi del debito in Grecia del 2009 ha fatto scendere le nascite nel 2010 meno di quando sia avvenuto nei due anni successivi.
Interessante e logico perchè serve tempo sia per reagire agli eventi e capire che la crisi non è passeggera, sia per fare un figlio.
Nel 2009 e nel 2010 i cambiamenti sono stati minimi e questo giustifica l'allarme lanciato da Lancet su un aumento della mortalità. Nei due anni successivi invece le nascite diminuiscono del 12.5% e contemporaneamente cala anche la mortalità. Una spiegazione plausibile è questa: se la situazione economica di una famiglia è correlata a fattori che mettono a rischio la gravidanza o la vita del neonato, la crisi economica, spingendo soprattutto i più poveri a rinunciare a avere un figlio, ha causato il calo della mortalità.
Allo stesso modo possono aver agito altri fattori, come il minor numero di immigrati giunti in Grecia o il maggior numero di greci emigrati all'estero.
Insomma se qualche dato o considerazione possono essere sbagliati, resta una realtà greca pesantissima, confermata dai dati Unicef. Sarebbe quasi miracoloso se in un contesto simile qualche dato migliorasse. Più facilmente siamo di fronte a un fenomeno non sconosciuto in economia: quando un contesto economico cambia, le persone cambiano i loro comportamenti.
Ora, se si legge l'articolo di Repubblica, si scopre che non sarebbe aumentata solo la mortalità infantile, ma sarebbero peggiorati altri indicatori, come i malati di AIDS a causa delle riduzione della distribuzione da parte della sanità pubblica di siringhe monouso, e sempre a causa delle politiche di austerità.
Quindi, viene da dire, o Lancet e Repubblica sbagliato sempre e si inventano le notizie, come suggerisce questo blog di un ingegnere ultraconservatore, oppure c'è una spiegazione magari banale che non è stata cercata.
I dati riportati da Lancet nella tabella che segue (cliccateci sopra per ingrandirla) suggeriscono una possibile spiegazione allo "strano" fenomeno di tassi di mortalità che salgono ma solo per un breve periodo.
A parte la contestabile scelta di rapportare la mortalità in un certo anno dei bambini con meno di 5 anni con i nati vivi nello stesso anno, è evidente che la crisi ha fatto diminuire in modo consistente le nascite, passate da oltre 118 mila a poco più di 100 mila.
E' interessante notare che la crisi del 2008 ha modificato di poco le nascite nel 2009 (un migliaio in meno) e l'esplosione della crisi del debito in Grecia del 2009 ha fatto scendere le nascite nel 2010 meno di quando sia avvenuto nei due anni successivi.
Interessante e logico perchè serve tempo sia per reagire agli eventi e capire che la crisi non è passeggera, sia per fare un figlio.
Nel 2009 e nel 2010 i cambiamenti sono stati minimi e questo giustifica l'allarme lanciato da Lancet su un aumento della mortalità. Nei due anni successivi invece le nascite diminuiscono del 12.5% e contemporaneamente cala anche la mortalità. Una spiegazione plausibile è questa: se la situazione economica di una famiglia è correlata a fattori che mettono a rischio la gravidanza o la vita del neonato, la crisi economica, spingendo soprattutto i più poveri a rinunciare a avere un figlio, ha causato il calo della mortalità.
Allo stesso modo possono aver agito altri fattori, come il minor numero di immigrati giunti in Grecia o il maggior numero di greci emigrati all'estero.
Insomma se qualche dato o considerazione possono essere sbagliati, resta una realtà greca pesantissima, confermata dai dati Unicef. Sarebbe quasi miracoloso se in un contesto simile qualche dato migliorasse. Più facilmente siamo di fronte a un fenomeno non sconosciuto in economia: quando un contesto economico cambia, le persone cambiano i loro comportamenti.
04 aprile 2014
Barcellona: l'avevamo detto..
Nei giorni scorsi s'è diffusa la notiza che al Barcellona sarà vietato acquistare giocatori fino all'estate 2015. E' una punizione per aver violato le regole FIFA sul trasferimento di giovani calciatori.
L'avevamo segnalato un anno fa nell'articolo di VxVendemmia che riproponiamo qui:
Uno dei motivi che spesso vengono indicati dell'enorme successo del calcio spagnolo e de "La Roja" la Nazionale guidata dal 2008 da Vicente Del Bosque conquistando un successo dopo l'altro, è il forte investimento sulle giovani promesse e sui settori giovanili in generale.
Uno dei club spagnoli presi a modello per le sue capacità di coltivare talenti è sempre stato senza dubbio il Barcellona. Pochi sanno però dei trucchi economici utilizzati al rispetto dal club spagnolo.
Una sentenza appena raccontata su El Pais adesso rischia di far saltare il metodo di lavoro della società catalana con i giovani.
Infatti pare che approfittando del proprio prestigio il club blaugrana abbia sempre offerto ai genitori dei tesserati minori di 16 anni contratti che blindano i possibili futuri talenti. In pratica pagano alla famiglia gli studi, l'alloggio e gli versano una "compensazione generale per le spese".
Il tutto a cambio della garanzia che la giovane promessa non possa andarsene in un altro club, pena il pagamento di un risarcimento spesso molto elevato.
Concretamente hanno l'effetto di dei veri e propri pre-contratti di lavoro lunghi anche 10 anni firmati dai genitori del minore.
Metodo finora risultato vincente...Finchè la sentenza della Corte di Cassazione di oggi non ha dichiarato nullo un contratto del genere impugnato dal 2007 da un giocatore catalano Raul Baena (oggi 24enne) a cui la società rossoblu richiedeva la bellezza di oltre 3 milioni d'euro per essere passato dal settore giovanile del Barcellona a quello dell'Espanyol infrangendo il contratto firmato anni fa' dai suoi genitori. Il club catalano dovrà rinunciare completamente a qualsiasi tipo di risarcimento accordato e firmato da chi rappresentava Baena quando aveva 13 anni.
Tali contratti secondo la sentenza violano l'interesse superiore del minore (ovvero il fondamentale principio proclamato nell'ordinamento spagnolo dalla Legge di Protezione dei Minori del '96, che anche a me ribadiscono ad ogni singolo esame sui servizi sociali), ed i genitori che li firmano eccedono nella loro rappresentanza legale.
Una brutta notizia per il "Barca": un precedente che rischia di rivoluzionare la sua politica del settore giovanile del club, abituato a blindare le proprie giovani promesse in cambio di aiuti economici ai genitori.
L'avevamo segnalato un anno fa nell'articolo di VxVendemmia che riproponiamo qui:
Uno dei motivi che spesso vengono indicati dell'enorme successo del calcio spagnolo e de "La Roja" la Nazionale guidata dal 2008 da Vicente Del Bosque conquistando un successo dopo l'altro, è il forte investimento sulle giovani promesse e sui settori giovanili in generale.
Uno dei club spagnoli presi a modello per le sue capacità di coltivare talenti è sempre stato senza dubbio il Barcellona. Pochi sanno però dei trucchi economici utilizzati al rispetto dal club spagnolo.
Una sentenza appena raccontata su El Pais adesso rischia di far saltare il metodo di lavoro della società catalana con i giovani.
Infatti pare che approfittando del proprio prestigio il club blaugrana abbia sempre offerto ai genitori dei tesserati minori di 16 anni contratti che blindano i possibili futuri talenti. In pratica pagano alla famiglia gli studi, l'alloggio e gli versano una "compensazione generale per le spese".
Il tutto a cambio della garanzia che la giovane promessa non possa andarsene in un altro club, pena il pagamento di un risarcimento spesso molto elevato.
Concretamente hanno l'effetto di dei veri e propri pre-contratti di lavoro lunghi anche 10 anni firmati dai genitori del minore.
Metodo finora risultato vincente...Finchè la sentenza della Corte di Cassazione di oggi non ha dichiarato nullo un contratto del genere impugnato dal 2007 da un giocatore catalano Raul Baena (oggi 24enne) a cui la società rossoblu richiedeva la bellezza di oltre 3 milioni d'euro per essere passato dal settore giovanile del Barcellona a quello dell'Espanyol infrangendo il contratto firmato anni fa' dai suoi genitori. Il club catalano dovrà rinunciare completamente a qualsiasi tipo di risarcimento accordato e firmato da chi rappresentava Baena quando aveva 13 anni.
Tali contratti secondo la sentenza violano l'interesse superiore del minore (ovvero il fondamentale principio proclamato nell'ordinamento spagnolo dalla Legge di Protezione dei Minori del '96, che anche a me ribadiscono ad ogni singolo esame sui servizi sociali), ed i genitori che li firmano eccedono nella loro rappresentanza legale.
Una brutta notizia per il "Barca": un precedente che rischia di rivoluzionare la sua politica del settore giovanile del club, abituato a blindare le proprie giovani promesse in cambio di aiuti economici ai genitori.
03 aprile 2014
Uscire dall'euro? Cosa successe nel 1992-3
Una tesi che si sente spesso nei surreali dibattiti di queste settimane sull'uscita dall'euro dice più o meno così: nel 1992 la lira uscì dallo SME e non è morto nessuno. Anzi uscire dall'euro è la soluzione, per esempio per Loretta Napoleoni (vedi qui).
Cosa è successo davvero in quel periodo?
Intanto l'uscita della lira dallo SME ha una causa precisa: i pessimi conti pubblici lasciati dal governo uscente (nella primavera '92 ci sono le elezioni e l'ultimo governo Andreotti lascia il posto al primo governo guidato da Giuliano Amato). I pessimi conti sollecitano gli speculatori internazionali a scommettere su una svalutazione della lira, che usce dallo SME quando la Bundesbank, la banca centrale tedesca, abbandona la lira al suo destino, scegliendo di interrompere gli acquisti di lire.
Solo a quel punto arriva la manovra del nuovo governo per rimettere a posto i conti pubblici.
L'uscita della lira dallo SME non ha impedito una manovra molto pesante di aggiustamento dei conti.
Almeno ha fatto crescere l'economia? Non pare proprio: i dati del PIL riportati da Wikipedia mostrano un calo del PIL nel 1993, l'anno successivo l'uscita dallo SME.
Inoltre anche l'andamento dei rendimenti dei BOT (qui i dati), vediamo che l'uscita dall'euro è disastrosa: nell'asta di gennaio del 1992 i tassi scendono sotto il 12% per risalire prima al 18% e poi ridiscendere al 15% a fine anno.
L'uscita della lira dalla SME ha dunque avuto effetti pesanti che ricordano quelli vissuti negli ultimi due anni: perdita di credibilità, aumento dei tassi dei titoli di stato, manovre per riaggiustare i conti pubblici.
Va considerato che gli anni di cui parliamo sono stati anni di forte rallentamento dell'inflazione, con conseguente discesa dei tassi sui titoli di stato, di forte innovazione tecnologica (la rivoluzione di internet era in corso) e di minore variabiità dei mercati.
Abbandonare l'euro sarebbe oggi molto più traumatico. Come allora non permetterebbe di risolvere i problemi economici reali (competitività delle imprese, equilibrio dei conti pubblici, credibilità sui mercati finanziari), anzi probabilmente li aggraverebbe, perchè nel frattempo il mondo della finanza è diventato molto più reattivo. I capitali abbandonerebbero l'Italia con una velocità sconosciuta nel 1992 e la Banca d'Italia si troverebbe a operare in un contesto economico molto più difficile (la crescita è debole anche nel resto d'Europa) e in presenza di colossi (la FED, la BCE) disinteressati alle sorti di un'economia debole.
In conclusione la tesi di Loretta Napoleoni secondo cui l'uscita dallo SME non ebbe effetti negativi è falsa. Ed è anche molto pericolosa, perchè l'economia italiana in un contesto molto più fragile e instabile subirebbe effetti estremamente negativi da un'ipotetica fuoriuscita dall'euro.
Cosa è successo davvero in quel periodo?
Intanto l'uscita della lira dallo SME ha una causa precisa: i pessimi conti pubblici lasciati dal governo uscente (nella primavera '92 ci sono le elezioni e l'ultimo governo Andreotti lascia il posto al primo governo guidato da Giuliano Amato). I pessimi conti sollecitano gli speculatori internazionali a scommettere su una svalutazione della lira, che usce dallo SME quando la Bundesbank, la banca centrale tedesca, abbandona la lira al suo destino, scegliendo di interrompere gli acquisti di lire.
Solo a quel punto arriva la manovra del nuovo governo per rimettere a posto i conti pubblici.
L'uscita della lira dallo SME non ha impedito una manovra molto pesante di aggiustamento dei conti.
Almeno ha fatto crescere l'economia? Non pare proprio: i dati del PIL riportati da Wikipedia mostrano un calo del PIL nel 1993, l'anno successivo l'uscita dallo SME.
Inoltre anche l'andamento dei rendimenti dei BOT (qui i dati), vediamo che l'uscita dall'euro è disastrosa: nell'asta di gennaio del 1992 i tassi scendono sotto il 12% per risalire prima al 18% e poi ridiscendere al 15% a fine anno.
L'uscita della lira dalla SME ha dunque avuto effetti pesanti che ricordano quelli vissuti negli ultimi due anni: perdita di credibilità, aumento dei tassi dei titoli di stato, manovre per riaggiustare i conti pubblici.
Va considerato che gli anni di cui parliamo sono stati anni di forte rallentamento dell'inflazione, con conseguente discesa dei tassi sui titoli di stato, di forte innovazione tecnologica (la rivoluzione di internet era in corso) e di minore variabiità dei mercati.
Abbandonare l'euro sarebbe oggi molto più traumatico. Come allora non permetterebbe di risolvere i problemi economici reali (competitività delle imprese, equilibrio dei conti pubblici, credibilità sui mercati finanziari), anzi probabilmente li aggraverebbe, perchè nel frattempo il mondo della finanza è diventato molto più reattivo. I capitali abbandonerebbero l'Italia con una velocità sconosciuta nel 1992 e la Banca d'Italia si troverebbe a operare in un contesto economico molto più difficile (la crescita è debole anche nel resto d'Europa) e in presenza di colossi (la FED, la BCE) disinteressati alle sorti di un'economia debole.
In conclusione la tesi di Loretta Napoleoni secondo cui l'uscita dallo SME non ebbe effetti negativi è falsa. Ed è anche molto pericolosa, perchè l'economia italiana in un contesto molto più fragile e instabile subirebbe effetti estremamente negativi da un'ipotetica fuoriuscita dall'euro.
01 aprile 2014
Documento della Banca d'Inghilterra - 2
Se il modello dei libri di testo ha dei limiti cosa succede davvero?
Secondo gli studiosi britannici la Banca d'Inghilterra (banca centrale) non decide quanta moneta emettere, o almeno non lo fa in tempi normali.
Fissa invece il tasso di sconto che, a sua volta, influenza diversi tassi applicati da banche e operatori finanziari e dai quali dipende la domanda di moneta. Maggiore è il tasso, minore è la domanda di capitali per consumi e investimenti. Come si sceglie il tasso di sconto? In base a obiettivi economici, primo fra tutti il controllo dell'inflazione.
La banca centrale quindi opera sui tassi lasciando libere le banche di domandare la quantità desiderata di base monetaria alla banca centrale, che la concederà al tasso stabilito senza limiti quantitativi (salvo nel caso del quantittive easing).
Ciò capovolge la prospettiva da cui si guarda il lavoro della banca. L'idea semplificata di una banca centrale che decide quanta moneta immettere è compatibile con l'ipotesi che le banche, quando aumentano i depositi, corrano a prestare tutti i soldi raccolti eccetto la parte trattenuta sotto forma di riserva, moltiplicando per n volte la quantità di base monetaria. Se fosse vero, x euro di base monetaria si trasformerebbero in -supponiamo- n euro di depositi bancari, e non sarebbe possibile aumentare i prestiti se non creando altra base monetria.
In realtà le banche quando raccolgono 100 euro non prestano 100 euro meno la riserva ovverno prestano meno del massimo consentito, preferendo dare soldi a chi ha merito di credito e pagherà il tasso richiesto, restituendo il capitale ricevuto.
Per questo motivo il moltiplicatore -come ho scritto a pagina 9, paragrafo 3.4 del mio documento sul signoraggio- non è un valore fisso, determinato dalla percentuale di riserva obbligatoria, ma è un valore variabile, che dipende dalle scelte delle banche.
In talune circostanze possono aumentare la quantità di capitali prestati e, di conseguenza, possono trovarsi a aver bisogno di riserve, che chiedono alla banca centrale. In quest'ottica non è la base monetaria che innesca il meccanismo di creazione della moneta bancaria, ma prima si crea moneta bancaria e poi la necessità di riserve spinge la banca a chiederle alla banca centrale.
Ricapitolando: gli studiosi della Banca d'Inghilterra per ragioni sconosciute hanno dunque deciso di spiegare che a differenza di quanto scrivono i libri di testo:
1 - le banche creano moneta bancaria;
2 - le banche centrali fissano solo i tassi, e, come corollario, creano base monetaria su richiesta delle banche, che hanno bisogno di riserve.
C'è qualcosa di sconvolgente in tutto ciò? No, che le banche centrali fissino i tassi, lo sanno tutti. E non può che essere così: una banca centrale che fissasse la quantità di base monetaria da creare sarebbe incompatibile con un'economia di mercato.
Si sa anche che le banche creano una particolare moneta, la moneta bancaria (nel mio documento del 2010 si parla di moneta bancaria, pag. 27, paragrafo 13.3).
In conclusione, niente di nuovo. Gli studiosi della Banca d'Inghilterra hanno chiarito alcuni luoghi comuni e offerto una prospettiva diversa da cui guardare il rapporto tra banca centrale e banche commerciali. Tutto qui. Chi cerca misteri inesistenti, forse non ha capito come funzionano le banche.
Secondo gli studiosi britannici la Banca d'Inghilterra (banca centrale) non decide quanta moneta emettere, o almeno non lo fa in tempi normali.
Fissa invece il tasso di sconto che, a sua volta, influenza diversi tassi applicati da banche e operatori finanziari e dai quali dipende la domanda di moneta. Maggiore è il tasso, minore è la domanda di capitali per consumi e investimenti. Come si sceglie il tasso di sconto? In base a obiettivi economici, primo fra tutti il controllo dell'inflazione.
La banca centrale quindi opera sui tassi lasciando libere le banche di domandare la quantità desiderata di base monetaria alla banca centrale, che la concederà al tasso stabilito senza limiti quantitativi (salvo nel caso del quantittive easing).
Ciò capovolge la prospettiva da cui si guarda il lavoro della banca. L'idea semplificata di una banca centrale che decide quanta moneta immettere è compatibile con l'ipotesi che le banche, quando aumentano i depositi, corrano a prestare tutti i soldi raccolti eccetto la parte trattenuta sotto forma di riserva, moltiplicando per n volte la quantità di base monetaria. Se fosse vero, x euro di base monetaria si trasformerebbero in -supponiamo- n euro di depositi bancari, e non sarebbe possibile aumentare i prestiti se non creando altra base monetria.
In realtà le banche quando raccolgono 100 euro non prestano 100 euro meno la riserva ovverno prestano meno del massimo consentito, preferendo dare soldi a chi ha merito di credito e pagherà il tasso richiesto, restituendo il capitale ricevuto.
Per questo motivo il moltiplicatore -come ho scritto a pagina 9, paragrafo 3.4 del mio documento sul signoraggio- non è un valore fisso, determinato dalla percentuale di riserva obbligatoria, ma è un valore variabile, che dipende dalle scelte delle banche.
In talune circostanze possono aumentare la quantità di capitali prestati e, di conseguenza, possono trovarsi a aver bisogno di riserve, che chiedono alla banca centrale. In quest'ottica non è la base monetaria che innesca il meccanismo di creazione della moneta bancaria, ma prima si crea moneta bancaria e poi la necessità di riserve spinge la banca a chiederle alla banca centrale.
Ricapitolando: gli studiosi della Banca d'Inghilterra per ragioni sconosciute hanno dunque deciso di spiegare che a differenza di quanto scrivono i libri di testo:
1 - le banche creano moneta bancaria;
2 - le banche centrali fissano solo i tassi, e, come corollario, creano base monetaria su richiesta delle banche, che hanno bisogno di riserve.
C'è qualcosa di sconvolgente in tutto ciò? No, che le banche centrali fissino i tassi, lo sanno tutti. E non può che essere così: una banca centrale che fissasse la quantità di base monetaria da creare sarebbe incompatibile con un'economia di mercato.
Si sa anche che le banche creano una particolare moneta, la moneta bancaria (nel mio documento del 2010 si parla di moneta bancaria, pag. 27, paragrafo 13.3).
In conclusione, niente di nuovo. Gli studiosi della Banca d'Inghilterra hanno chiarito alcuni luoghi comuni e offerto una prospettiva diversa da cui guardare il rapporto tra banca centrale e banche commerciali. Tutto qui. Chi cerca misteri inesistenti, forse non ha capito come funzionano le banche.
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