17 dicembre 2017

Maria Elena Boschi

La vicenda politica che ha tenuto banco negli ultimi giorni riguarda la ministra (e fedelissima di Renzi) Maria Elena Boschi. Colpevole di...già di cosa è colpevole Maria Elena Boschi? Di aver tentato di salvare Banca Etruria? Oppure suo padre che era nel consiglio di amministrazione?

Banca Etruria come tante banche s'è trovata a gestire una gran quantità di crediti inesigbili, frutto in parte della crisi, che ha fatto fallire le imprese e spinto le banche in taluni casi a prestare soldi a chi era di fatto insolvente nella speranza che riuscisse a uscire dalle difficoltà, e in parte di una gestione non sempre prudente, che spiega prestiti azzardati poi diventati perdite.

Ora, chi ha sbagliato a dar credito è giusto che paghi perdendo il lavoro, subendo multe, inchieste penali, provvedimenti delle autorità di vigilanza, ecc. Naturalmente dopo aver raccolto le prove di errori gravi o comportamenti illeciti commessi da Tizio, Caio o Sempronio.

Ma, detto questo, resta anzi restava prima del fallimento di Etruria la domanda: che fare di una banca che ha prestato soldi, ha accumulato perdite ingenti che nessuno voleva coprire con un aumento di capitale perchè avrebbe significato pagare molto per una banca che valeva poco?

In passato le banche in crisi sono state spesso assorbite da banche più grandi senza eccessivi scandali. Quanti sanno che due grandi banche storiche del sud (il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia) sono state assorbite da gruppi che oggi si chiamano Intesa San Paolo e Unicredit perchè erano messe come se non peggio di Banca Etruria? Chi saprebbe indicare il nome di un politico travolto da qualche scandalo legato alle crisi di quelle banche?

La cessione di una banca in crisi salva posti di lavoro, evitano problemi ai correntisti e ai clienti, soprattutto le imprese che hanno bisogno quotidianamente dei servizi e dei prestiti della banca. Magari si riescono pure a salvare gli azionisti, limitandone le perdite.

Dunque cosa avrebbe fatto di male Maria Elena Boschi se avesse chiesto a Ghizzoni di Unicredit di acquisire Banca Etruria? Se fosse successo o se Etruria fosse stata comprata da un'altra banca abbastanza grande, i possessori di  obbligazionisti di Banca Etruria non avrebbero subito fortissime perdite. Possiamo rimproverare la Boschi di aver provato a salvare la banca, ammesso che l'abbia fatto?

Un eventuale salvataggio può non piacere a chi immagina guai per i nemici e scenari positivi per gli amici, come se si potesse far fallire una banca salvando correntisti, obbligazionisti e gettando nel fango i dirigenti scomodi.

Nella realtà questo non si può fare, non si può scindere la sorte di qualcuno da quella di altri. O si salva la banca o si subiscono le conseguenze del crack. 

Qualcuno potrebbe dire che la colpa del ministro Boschi è di essersi interessata alle sorti di Banca Etruria.  Non l'avrebbe dovuto fare, magari in virtù del fatto che il padre aveva avuto un ruolo in quella banca.

Bene, ma qual è l'alternativa? Forse una politica che di fronte alle crisi si gira dall'altra parte per paura delle critiche?

Chi invoca oggi le dimissioni della Boschi cosa farà un domani al governo? Sorriderà di fronte a risparmiatori traditi o a lavoratori licenziati pensando di aver salvato se stesso dalle critiche?

10 dicembre 2017

I conti mentali

Avete mai comprato o conoscete qualcuno che abbia comprato uno smartphone o un frigorifero a rate pur disponendo sul conto corrente di una somma maggiore di quella necessaria all'acquisto?

Di solito gli economisti pensano che sia un errore ricorrre a un prestito se si dispone di una somma sufficiente a acquistare qualcosa perchè al prezzo del bene si aggiungono altri oneri (interessi, costi per una pratica di finanziamento), evitabili pagando al momento dell'acquisto anzichè a rate.

Eppure una spiegazione c'è, ed è stata scoperta da alcuni economisti che hanno lavorato insieme agli psicologi. Si tratta dei conti mentali.

Un tempo era abitudine in molte famiglie suddividere lo stipendio, ricevuto in contanti, in alcune parti che inserivano in diverse buste (o altri contenitori). C'era la busta con la somma per pagare l'affitto, quella per comprare generi alimentari, quella per le bollette e così via.

Era un modo semplice per tenere sotto controllo le spese, evitando di trovarsi senza soldi per l'affitto o per pagare la luce.

Da un altro punto di vista si conoscono le debolezze umane, si sa che molte persone quando hanno le tasche piene di soldi cedono al desiderio di spenderli, acquistano il superfluo e dimenticano il necessario. Invece infilando i soldi in una busta si frenano le tentazioni e si ricorda la spesa necessaria, indicata sulla busta.

Un economista storcerebbe il naso, ma gli individui sono molto meno razionali di quel che si pensa e il metodo delle buste era molto diffuso. Cosa succede in epoca di conti correnti, carte di credito e denato dematerializzato?

Tutto funziona come un tempo. Non si usano le buste (per questo i conti sono mentali) ma si pongono limiti alle spese divise per categoria, anche se il rischio di commettere errori o illudersi son maggiori, come sa bene chi usa le carte di pagamento o di credito. Per questo motivo si ricorre ai prestiti anche se costano e se si dispone della somma necessaria per l'acquisto.

Immaginate che una famiglia abbia 5 mila euro sul conto corrente e che ritenga necessario tenere questa somma sul conto per varie ragioni (per esempio per affrontare spese impreviste o per pagare spese già programmate). Perchè ricorre al credito per l'acquisto di un computer del costo di qualche centinaio di euro?

L'economista direbbe: preleva i soldi dal tuo conto e poi risparmia finchè il saldo del conto torna a 5.000 euro. Invece le persone ragionano come se i 5.000 euro di risparmi appartenessero a un conto corrente diverso da quello su usato normalmente e si potesse usare soltanto in talune circostante. Per cui si preferisce pagare a rate e non usare i 5000 euro. Per la durata del prestito il bilancio famigliare ha una spesa in più, la spesa delle rate, e ciò spinge a spendere di meno per altre voci.

Ci si obbliga in altri termini a risparmiare. Non si pensa: "per i prossimi mesi rinuncio a...e recupero la somma spesa" perchè si sa in questo modo è più facile che il risultato non sia raggiunto. Le tentazioni sono tante e sappiamo di non riuscire sempre a sconfiggerle. Potremmo rinviare i risparmi o non riuscire a realizzarli.

Invece si continua a fare la vita di sempre, con una spesa in più, la rata da pagare, e la consapevolezza che alla fine del mese devono tornare i conti.

I conti mentali spiegano quindi comportamenti all'apparenza irrazionali. Di fronte al rischio di non riuscire a raggiungere gli obiettivi desiderati ci si costringe a farlo, e si paga pure per farlo perchè come sa bene chi fa i conti, alla fine pagare a rate costa di più.

19 novembre 2017

Carige, rispunta Fiorani

L'aumento di capitale della Cassa di Risparmio di Genova (Carige) sta creando un pò di apprensione nel mondo bancario italiano, dove spunta una vecchia conoscenza delle cronache economiche e giudiziarie: Giampiero Fiorani, un tempo amministratore della Popolare di Lodi.

Ma andiamo per ordine. Dopo 10 anni di crisi Carige ha bisogno di un nuovo aumento di capitale, colpa dei soliti non performing loans (npl), prestiti che comportano forti perdite per la banca. I principali azionisti son la famiglia Malacalza che possiede oltre il 17% del capitale, Volpi che ha più del 6%, Spinelli e la coop Liguria accreditati di un 1-2% a testa.

Chi sono costoro? I Malacalza sono imprenditori liguri che hanno deciso di investire in Carige. Negli ultimi 2-3 hanno comprato molte azioni spendendo oltre 200 milioni, gran parte dei quali provenienti dalla vendita di quasi il 7% di Pirelli. Volpi è un imprenditore molto ricco (il patrimonio supera i 3 miliardi) e discusso che ha scelto come braccio destro Fiorani, l'ex amministratore della Banca Popolare di Lodi,  protagonista di scalate bancarie finchè è stato fermato dalla magistratura (e dal carcere). Infine Spinelli -famoso per essere stato il proprietario del Genoa calcio- opera nella logistica e nei trasporti.

Malacalza, Spinelli, Volpi e gli altri azionisti che speravano di conquistare il controllo di Carige attraverso l'investimento di somme accettabili si sono trovati a fare i conti con un nuovo aumento di capitale, necessario e imposto dalla BCE allo scopo di ridurre drasticamente i npl e garantire un futuro meno incerto alla banca.

Speravano in un investimento redditizio e si son trovati a gestire una perdita certa. Così le banche (Deutsche Bank, Credit Suisse e Barclays) chiamate - come succede in questi casi - a garantire il successo dell'aumento di capitale creando un consorzio che garantisce l'acquisto delle azioni inoptate cioè non acquistate, hanno posto condizioni precise alla banca e agli azionisti.


Alla banca è stata imposta una iperdiluizione del capitale: per ogni azione posseduta, la banca emette 60 nuove azioni. Scelta che rappresenta un monito per gli azionisti: se non sottoscrivete l'aumento di capitale, la vostra quota perderà quasi tutto il suo valore.

Agli azionisti più importanti è stato invece chiesto di non diminuire ma anzi aumentare la propria quota nella banca. Solo venerdì Malacalza e soci hanno accettato, dopo che il consorzio di banche a garanzia dell'aumento ha minacciato di ritirarsi. Il loro impegno è in ogni caso subordinato alle autorizzazioni delle autorità di vigilanza che potrebbero avere qualcosa da ridire a Volpi e al suo braccio destro Fiorani.

Insomma Carige appare messa davvero male, una specie di MPS che tuttavia ottiene ancora la fiducia di qualche azionista speranzoso almeno di portarsi a casa i soldi investiti. Sempre che la presenza di personaggi poco raccomandabili non complichi un aumento di capitale non scontato.


30 ottobre 2017

IVA: aumento scampato?

Anche quest'anno la preparazione del bilancio dello Stato per il 2018 crea qualche preoccupazione per l'IVA. Il governo annuncia che non aumenterà, ma i giornali spiegano che l'aumento è solo rinviato al 2019.

Cosa succede veramente?

In realtà è tutto abbastanza semplice. Proviamo a spiegarlo.

Qualche anno fa di fronte a conti pubblici traballanti, un governo (se non sbaglio il governo Berlusconi con Tremonti ministro dell'economia) rassicurò i partner europei introducendo le cosiddette clausole di salvaguardia. Lo Stato si impegna di fatto a alzare alcune aliquote (relative all'IVA ma anche alle accise sui carburanti) nel caso di necessità. E' un pò come se lo Stato dicesse: se i conti non tornano, mi impegno a far pagare più soldi ai cittadini italiani.

In realtà però lo Stato non scrive una norma del tipo "se succede che ...allora..." ma stabilisce che a partire da una certa data le aliquote aumenteranno. Poi controlla i conti e se sono a posto, ovvero se il deficit è nei limiti previsti, decide che gli aumenti previsti non ci saranno. E lo fa in modo semplice: cambiando la data del previsto aumento delle aliquote. In questo modo le clausole di salvaguardia restano attive, come l'obbligo di vigilare sui conti pubblici e gli impegni verso l'Europa.

Qualche giornalista alla ricerca dello scoop o male informato può così annunciare che l'IVA aumenterà dal 2019, che la paura di una stangata di imposte è solo rinviata. Un allarme insensato: se si tengono sotto controllo le spese e l'economia cresce e con essa le entrate fiscali, l'aumento dell'IVA è destinato a restare sulla carta.

21 ottobre 2017

Renzi contro Visco

Ho ricevuto diversi messaggi di amici che mi chiedevano un parere a proposito della mozione del PD contro il governatore della Banca d'Italia Visco.

E' evidente che la questione è politica: il governo è stato attaccato ripetutamente sulla vicenda Banca Etruria, forse perch+ ha sottovalutato gli effetti mediatici delle possibili proteste strumentalizzate dal partito di Grillo, e in vista della prossima campagna elettorale Renzi vuol convincere gli elettori che le responsabilità sono altrove.

Detto questo cerchiamo di ragionare sulla vicenda. Banca Etruria e altre banche hanno prestato miliardi di euro a clienti che non li hanno restituiti nei tempi previsti, trovandosi a subire consistenti perdite a causa della necessità di svalutare crediti.

Di fronte all'impossibilità di effettuare aumenti di capitale per ripianare le perdite, governo e Banca d'Italia hanno scelto la strada della liquidazione coatta amministrativa: i crediti "problematici" sono stati ceduti incassando poco più del 30% del loro valore nominale (ovvero della somma che le banche in teoria avrebbero dovuto incassare), le perdite son state coperte con l'azzeramento del valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate, secondo le regole europee. Infine le banche sgravate dai crediti problematici son state vendute.

Si poteva fare diversamente?

Forse sì, ma ci sono alcuni problemi.

Il primo problema è nelle regole: le regole europee impongono il sacrificio delle obbligazioni subordinate.

Il secondo sono i soldi. La banca finita in amministrazione avrebbe potuto gestire da sola i crediti problematici? Si, incassando più del 30%, quindi trovando soldi con cui pagare almeno in parte gli obbligazionisti.

Però la gestione dei crediti problematici richiede tempo, probabilmente anni e comporta alla fine delle perdite che qualcuno deve coprire o almeno garantire.

La scelta esplicita di non usare soldi dei contribuenti ha impedito a Banca Etruria di tenersi i crediti o di cederli a chi avesse comprato Banca Etruria: l'acquirente avrebbe chiesto garanzie, come successo nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, e anche in molti casi di cessione di banche negli USA tra il 2007 e il 2009.


A questo si aggiunge lo scarso interesse per l'acquisto di Banca Etruria e le altre banche. Questo perchè le banche hanno troppi sportelli e quindi chi vuol vendere i suoi deve accontentarsi di incassare pochi soldi e perchè la crisi di Etruria e della altre banche ha spinto moltissimi correntisti a spostare i propri soldi su altre banche.

Ciò ha reso Etruria e le altre banche meno interessanti per eventuali acquirenti: da tempo stavano perdendo clienti e quindi capacità di produrre profitti.

In questo contesto la Banca d'Italia doveva essere molto prudente. Se avesse lanciato un allarme avrebbe favorito la fuga dei capitali dalle banche, rendendole meno interessanti per eventuali acquirenti.

La soluzione decisa due anni fa di liquidare le banche sacrificando le obbligazioni subordinate perchè rischiose e perchè così volevano le regole, s'è trasformata in un problema politico perchè qualcuno ha sottovalutato la questione proprio come successo con Lehman Brothers. S'è preferito una soluzione immediata rispetto a una che avrebbe richiesto anni, s'è scelto di applicare le regole sottovalutando le proteste -cavalcate dall'opposizione. di chi da un giorno all'altro s'è trovato a perdere i risparmi senza (magari) capire il perchè.

18 ottobre 2017

I debiti che inguaiano Chiara Appendino

Ieri la sindaca di Torino, Chiara Appendino, ha reso noto di aver ricevuto un avviso di garanzia per falso a proposito di un debito della città.

Ho sentito e letto di tutto, soprattutto osservazioni poco sensate - economicamente parlando- ragion per cui è bene fare chiarezza.

La vicenda nasce da un diritto non esercitato: il comune di Torino ha dato a una società (Ream) partecipata dalla Fondazione CRT (una fondazione bancaria nata per gestire il patrimonio della Cassa di Risparmio di Torino poi confluita in Unicredit) il diritto di prelazione su un'area (chiamata ex Westinghouse) che il Comune era intenzionato a vendere. La società Ream ottenendo il diritto ha versato 5 milioni di euro a titolo di anticipo sul prezzo futuro della vendita.

In caso di acquisto avrebbe pagato il prezzo pattuito versando la somma al netto dei 5 milioni già sborsati, ma ha deciso di non esercitare il diritto, e l'area è stata aggiudicata a altri per una somma vicina ai 20 milioni.

A quel punto, il Comune di Torino avrebbe dovuto restituire 5 milioni a Ream, ma ha deciso -visto il legame di Ream con la Fondazione CRT in cui il Comune ha un ruolo importante attraverso i suoi rappresentanti- di rinviare il pagamento, iniziando una trattativa a questo fine con la Fondazione.

Al momento di compilare il bilancio 2017, il direttore finanziario del Comune voleva inserire il debito verso Ream tra i debiti da restituire nel corso del 2017, ma ha subito pressioni -e alla fine è stato spostato- per inserire il debito tra quelli da pagare non nel 2017 ma negli anni successivi. La giustificazione addotta è che -come la Sindaca avrebbe scritto via email- era in corso una trattativa per rinviare il pagamento.

Rinvio che ha un motivo: presentare un bilancio 2017 migliore, con meno esborsi previsti per il 2017.

Fin qui i fatti. C'è chi ha provato a scaricare la responsabilità sulla giunta precedente, colpevole di aver creato il debito, quasi si trattasse d iun dbito dovuto a un eccesso di spesa. Non è ovviamente così: il Comune avrebbe potuto aspettare a incassare i soldi della vendita dell'area (20 milioni circa) ma ha preferito cedere un diritto (presumibilmente concesso pagando) e incassare subito un anticipo di 5 milioni. Non ha fatto un debito per comprare qualcosa o pagare gli stipendi per cui la polemica sul debito non ha proprio senso.

Su cosa si basa la contestazione della Procura? C'è stato un esposto presentato da due consiglieri comunali e dai revisori dei conti del Comune che hanno mostrato alla giunta la loro contrarietà e sostengono che il debito era da inserire nel bilancio come debito da pagare entro 12 mesi.

C'è un questione di interpretazione di principi contabili in cui non mi addentro, ma un'anomalia pare evidente: non ha senso dire -come hanno fatto gli inquisiti- che il debito ha una scadenza oltre i 12 mesi perchè è in corso una trattativa. Il principio della prudente gestione impone di non far finta che si sia già raggiunto un accordo per il rinvio del pagamento. E in mancanza di un accordo certo, la scadenza del debito dev'essere quella originaria.


29 settembre 2017

Ryanair

Tempo fa una persona di idee ultraliberiste mi spiegò che i piloti di Alitalia -veri colpevoli a suo dire della crisi della compagnia aerea- in fin dei conti non erano altro che autisti ben pagati e che il mondo del lavoro ideale era quello libero da vincoli: regole e stipendi avrebbero dovuto derivare dalla libera contrattazione del singolo lavoratore con chi gli offriva il posto.

Sembrava, col senno di poi, il piano industriale di Ryanair che oggi si trova a tagliare un gran numero di voli a causa della fuga dei suoi piloti. Per anni la compagnia irlandese le ha provate tutte pur di conquistare clienti. Per tenere i prezzi Ryanair non solo ha cercato di risparmiare sui costi del personale, tagliando gli stipendi e i benefits oppure adottando i contratti più convenienti, a volte fingendo che i lavoratori risiedessero in paesi che fanno pagare meno imposte e contributi, ma ha anche messo sotto pressione gli aeroporti di mezza Europa, chiedendo contributi pubblici e sconti sulle tasse aeroportuali.

Ebbene il sistema Ryanair pare vacillare perchè i piloti della compagnia irlandese non sono lavoratori qualsiasi e neppure -come sosteneva l'ultraliberista- autisti impegnati a guidare un bus con le ali. Hanno un capitale prezioso, ore e ore di studio teorico e di pratica su aerei e simulatori.

Così in centianaia hanno abbandonato la compagnia irlandese preferendo altre compagnie più generose e abbandonando i metodi sgraditi della dirigenza Ryanair, attenta a usare il proprio potere per comprimere diritti e quindi costi dei lavoratori.

Il mercato non funziona come sperano i liberisti, non genera facilmente un prezzo di equilibrio tra domanda e offerta. I lavoratori di Ryanair che hanno subito le condizioni capestro dell'azienda, l'hanno abbandonata senza rimorsi appena possibile, anzi forse hanno alimentato la fuga, segnalando a altre compagnie i nomi dei loro colleghi migliori.

E Ryanair non è scesa a più miti consigli, almeno per ora. Ha offerto più soldi in cambio della rinuncia alla ferie e ha fatto scelte sospette: scommetto che il taglio dei voli da e per Trapani si può spiegare con i ritardi delle amministrazioni locali nell'erogazione di contributi pubblici. Qualcosa del genere è successo a Reggio Calabria con i voli Alitalia.

Gli aeroporti senza voli e presumibilmente non saranno rimpiazzati, come invece teorizzano gli amanti del libero mercato. I mercati sono imperfetti e si piegano al più forte, al più spregiudicato: lo sanno i piloti Ryanair e adesso pure i clienti della compagnia aerea.

13 settembre 2017

Fuga dalla moneta sovrana

Nel meraviglioso mondo delle bufale economiche c'è chi fantastica sulla riserva frazionaria, immaginando che possa addirittura salire al 100% (senza chiedersi cosa presterebbero, in tal caso, le banche) e chi pensa che i paesi europei che non usano l'euro siano più fortunati perchè hanno una moneta sovrana.

Ebbene c'è un caso che dimostra che entrambe le idee sono non solo bufale, ma hanno poco senso nel mondo reale, quello che sta al di là della tastiera del computer.

Il caso è quello di Nordea, una banca scandinava nata dall'aggregazione di diverse banche, come successo da noi con Unicredit e Intesa San Paolo.

Nordea è una banca con sede in Svezia che sta per trasferirsi in Finlandia, spaventata dai requisiti patrimoniali richiesti dalla banca centrale svedese. Per affrontare i pericoli connessi allo svolgimento dell'attività bancaria, una strada è quella di chiedere migliori requisiti patrimoniali, cosa che comporta una riduzione dei prestiti rischiosi (e remunerativi) e un aumento del capitale destinato a coprire eventuali perdite.

La banca centrale potrebbe anche affrontare una crisi bancaria in altro modo, ma in una economia relativamente piccola come quella svedese (se paragonata all'area dei paesi che usano l'euro), è più difficile trovare una banca che possa assorbire la banca in crisi ed è più complesso per la banca centrale interviene creano moneta senza influenzare pesantemente anche il cambio, con effetti negativi sui tassi.

La BCE invece ha margini di intervento maggiore perchè l'economia dell'area euro è molto più grande dell'economia svedese e può permettersi di essere meno esigente con le banche dcon sede nei paesi dell'euro.

Di qui la scelta di Nordea che preferisce spostarsi in un paese dell'area euro nonostante non abbia una moneta sovrana. Una scelta che ci dice quanto siano folli certe tesi: se si imponesse una riserva frazionaria senza senso le banche si sposterebbero dove la riserva non c'è, incuranti della sovranità monetaria che impone più vincoli delle libertà che offre.

31 agosto 2017

I finlandesi che non amano Trump

Il Varma mutual pension insurance che gestisce 45 miliardi di euro di contributi pensionistici finlandesi ha deciso di vendere azioni e titoli di stato statunitensi attualmente posseduti.

La ragione ufficiale è che Trump appare come un presidente estraneo alla tradizione democratica del paese, al punto da considerare gli USA un paese senza un presidente.

Ci sono dei buoni motivi economici per diffidare dell'economia americana e del suo presidente?

La risposta è sì, Trump potrebbe fare alcune scelte pessime per gli investitori.

Le tensioni con la Corea del Nord non possono rassicurare gli investitori perchè guerra vuol dire spesa pubblica e quindi una forte emissione di titoli di stato da parte di un paese con un debito pubblico già elevato.

Nella stessa direzione va il progetto di Trump di tagliare le imposte: se avvenisse, sarebbe certo un aumento del deficit e quindi del debito pubblico.

C'è poi l'idea di Trump di proteggere con dazi le merci americane, idea contro la quale si sono pronunciati nei giorni scorsi Mario Draghi e la numero uno della FED Yanet Yellen.

Tra qualche mese - e veniamo al quarto punto - Trump deve decidere se confermare proprio la Yellen alla FED. Potrebbe predìferirgli un economista gradito, che sostenga le idee dell'amministrazione in tema di protezionismo e imposte, e non reagisca alzando i tassi in caso di deficit e debito eccessivi.

E qui la mente va agli anni '80, quando Reagan scelse un forte taglio alle imposte che fece impennare il debito pubblico, suscitando la reazione della FED guidata da Paul Volcker, che alzò i tassi costringendo l'amministrazione Reagan a cercare di ridurre il deficit.

Un capo della FED amico di Trump potrebbe invece spingere la banca centrale a tenere i tassi bassi per non aumentare la spesa pubblica per interessi.

 Ne conseguirebbe un calo del valore del dollaro rispetto alle altre monete, e questo, insieme alla prospettiva di una economia americana indebolita da guerra e protezionismo, spiega perchè i finlandesi preferiscono stare alla larga da bond e azioni "made in USA".

17 agosto 2017

Fiat China Auto ?

Le voci di un possibile acquisto di gran parte di FCA da parte di un gruppo automobilistico cinese, ha fatto balzare il titolo di quasi il 10% in una sola seduta.

Exor, società in mano alla famiglia Agnelli, è proprietaria di poco meno del 30% delle azioni e controlla oltre il 40% dei diritti di voto di FCA. Perchè dovrebbe vendere?

Sappiamo tre cose su FCA e il mercato dell'auto: che da tempo Marchionne sta cercando un accordo con un grande produttore allo scopo di garantire un futuro sereno a FCA. Lui vorrebbe fondersi con General Motors che però non prende in considerazione le proposte del gruppo italo-americano. Sappiamo poi che Marchionne lascerà tra poco più di un anno e che il futuro dell'auto deve fare i conti con molte incognite, come i nuovi produttori cinesi e il futuro senza gli inquinanti motori a benzina e diesel.

Le novità tecnologiche potrebbero quindi creare molte difficoltà a FCA o richiederebbero in ogni caso enormi investimenti che potrebbe affrontare meglio un gruppo di grandi dimensioni. Di qui la necessità di trovare accordi con altri produttori ma anche l'incentivo a vendere.

Meglio incassare una rilevante somma oggi che incerti guadagni in futuro: potrebbe essere questo il ragionamento di John Elkann che presiede Exor, società che si è molto indebitata per comprare Partner RE, gigante delle assicurazioni. Vendere una parte rilevante significherebbe ridurre i debiti, ma anche abbandonare per sempre quell'auto da sempre associata agli eredi del fondatore della dinastia Agnelli. I cinesi da parte loro sono incentivati a spendere molti soldi per avere marchi famosi e un know-how che non possiedono.

Tuttavia esistono anche diverse buone ragioni per non vendere. Per mantenere inalterato il prestigio e il potere, ma anche perchè FCA ha capacità, conoscenze, una importante rete di vendita nel paese con l'economia più grande del mondo: tutti fattori che rendono attraente FCA in vista di possibili operazioni con altre case automobilitistiche.

Infine, l'eventuale vendita di FCA dovrebbe avere il beneplacito di Trump che presumibilmente sarebbe contrario, preferendo piuttosto una fusione tra FCA e GM. Le voci su una vendita potrebbero perciò servire a spingere Trump a fare pressione su GM perchè prenda in considerazione le proposte di Marchionne.

24 giugno 2017

Intesa San Paolo e le banche venete

La notizia della settimana, in campo bancario, è la possibile acquisizione di Veneto Banca e della Banca Popolare di Vicenza da parte della maggiore banca italiana e la contemporanea creazione di una bad bank. Cerchiamo di capire cosa succede.

Da tempo le due banche venete sono alle prese con ingenti crediti in sofferenza, destinati a generare enormi perdite che ormai nessun azionista indende coprire con nuovi aumenti di capitale.

La crisi conclamata delle due banche inoltre ha spinto i correntisti, specie quelli che rischiano di subire gli effetti del bail-in, a spostare i soldi presso banche più sicure, che si trovano così ad avere crediti nei confronti degli istituti sofferenti, non potendo questi pagare (se no non sarebbero in crisi).

Ora se una banca perde costantemente capitali a favore di altre e la sua crisi si aggrava, a qualcuno vien voglia di invocare il fallimento, che nella forma del bail in colpisce anche obbligazionisti e correntisti. Per le banche creditrici della banca fallita, il fallimento significa subire forti perdite, perchè incasserebbero solo una piccola parte dei loro crediti.

La prima conseguenza è che le banche avrebbero meno soldi da prestare alla clientela, con effetti molto negativi per l'economia. La seconda e peggiore conseguenza è che le banche si rifiuterebbero di lavorare con una banca "sospetta" di un possibile futuro fallimento. In pratica respingerebbero assegni, bonifici e tutte le operazioni compiute dai clienti della banca a rischio e per le quali si creerebbe un credito che potrebbe non essere saldato.

La soluzione della crisi delle banche venete passa quindi dalla vendita delle due banche a Intesa San Paolo, la sola banca disponibile a comprare la rete di vendita, mentre gli ingenti crediti e le relative garanzie resteranno in una bad bank, le cui perdite (le garanzie presumibilmente valgono meno dei crediti concessi) saranno coperte dallo Stato, il solo a poter fornire garanzie all'intero sistema bancario.

13 giugno 2017

Il credito di Amazon

Amazon è una delle grandi imprese americane dell'era internet. Nata per vendere online libri, oggi vende di tutto e si espande nei settori iù diversi.

Una delle ultime iniziativa, come riporta Business Insider, è di tipo finanziario: Amazon vuole finanziare le aziende partner (fornitori e aziende che vendono tramite la piattaforma di Amazon) che possono trovare difficile accedere al credito bancario.

Si tratta di credito a breve termine (non si finanziano gli impianti ma solo le spese correnti per pagare fornitori, lavoratori, imposte) con addebito periodico direttamente sul conto presso Amazon e interessi compresi tra il 6 e il 17%. Inoltre è previsto che se un'impresa non paga, Amazon può venderne le merci presenti presso i propri magazzini e trattenere gli importi incassati.

Perchè Amazon fa tutto questo?

La ragione principale è che Amazon ha un vantaggio rispetto a una banca: conosce bene le aziende con cui lavora. Le conosce meglio di una banca. Sa se una impresa a corto di credito bancario è meno efficiente, ovvero se un'impresa con credito insufficiente è costretta a produrre e vendere meno di quel che potrebbe.

Il finanziamento fa l'interesse di Amazon come acquirente e venditore di prodotti delle aziende finanziate.

Le aziende finanziate da Amazon poi potrebbero trasformarsi in partner migliori, concedendo esclusive a Amazon, rinunciando a canali alternativi di vendita, praticando prezzi migliori a Amazon, controllando maggiormente la qualità dei prodotti destinati a essere venduti dalla piattaforma online americana. Un altro vantaggio per l'azienda di Jeff Bezos ma anche una fonte di potenziali conflitti di interesse.

Infine c'è un ulteriore vantaggio per il colosso americano: col finanziamento delle aziende partner, Amazon incrementerà i propri utili, investendo in maniera assai redditizia i notevoli utili.

07 giugno 2017

Le multe in conto

Tra qualche settimana chi prende una multa e non la paga, si troverà la multa addebitata sul conto corrente, ovvero il fisco preleverà direttamente i soldi dal conto corrente.

Secondo quanto ha chiarito Equitalia, si tratta solo di un "pignoramento presso terzi", previsto da norme del passato, da eseguirsi "solo dopo che il contribuente non ha dato seguito agli atti che gli sono stati notificati (cartella di pagamento, solleciti di pagamento, avvisi di intimazione), né provvedendo al loro pagamento, neanche in forma rateale, né contestandone il contenuto".

Ovvero ti chiedono ripetutamente di pagare, non lo fai e allora passano al pignoramento del conto corrente (se ce l'hai... ve lo ricordate Letta? non aveva un conto corrente).

Ora pensate al contribuente normale che paga quel che deve e vorrebbe farlo con meno fastidi. Deve per esempio pagare la TARI, la tassa sull'immondizia. Riceve una lettera dal comune, con il modello F24 precompilato. Poi deve portarlo in banca o compilarlo online e pagare.

Ci sono tre passaggi: dal comune al contribuente e da questo alla banca che poi versa i soldi al comune.

Si potrebbe fare molto più velocemente: si potrebbe chiedere al comune di abbebitarlo direttamente sul conto, con il solo obbligo della banca di mandare (per posta o per email) una ricevuta, utile anche per controllare eventuali errori.

Il legislatore è riuscito a creare un fisco che funziona al contrario: l'addebito diretto in conto invece di essere la norma, cosa che semplificherebbe la vita a molti cittadini, è l'eccezione prevista per chi non fa il suo dovere.

18 maggio 2017

08 maggio 2017

Alitalia

Cerchiamo di fare il punto sulla situazione di Alitalia. Quello che si sa è che la società ha perso molti soldi, che i soci hanno deciso di gettare la spugna, che la compagnia aerea è stata commissariata e che i commissari vogliono provare a vendere tutta Alitalia.

Chi se la comprerà dovrà cercare di mettere in piedi un'Alitalia che funzioni e questo pone due grandi problemi.

Il primo è relativo a costi e personale. Quando una società subisce forti perdite la prima cosa da fare è tagliare i costi. E' una scelta poco piacevole perchè significa licenziare personale, tagliare stipendi e far subire la stessa sorte ai dipendenti delle società fornitrici, ma è necessaria perché è il modo più semplice e veloce per ridurre le perdite.

Per far salire i ricavi invece servono decisioni azzeccate e di solito serve tempo. Quindi per ridurre il “rosso” la strada dei tagli dei costi è obbligata. Non è tuttavia facile e non è stato facile in passato: la politica preme per difendere gli interessi dei dipendenti Alitalia e per mantenere in vita alcuni aeroporti e i relativi voli, anche se questi comportano forti perdite per chi li effettua.

Il secondo problema è quello dell'hub. Molte compagnie aeree compensano le perdite registrate dai voli interni con i guadagni dei voli intercontinentali. Hanno bisogno di riempire gli aerei in partenza per altri continenti e lo fanno con collegamenti col proprio aeroporto principale. Per capirci: da Nizza un francese vola a Parigi e qui si imbarca per Pechino. Il volo Nizza-Parigi si riempe di passeggeri, ovvero in parte di persone che resteranno a Parigi e in parte di persone che poi andranno altrove.

Ora mentre paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda hanno un solo grande aeroporto che -per così dire- raccoglie e poi distribuisce i passeggeri verso molte destinazioni, consentendo alle compagnie di bandiera di riempire gli aerei e guadagnare con i voli sulle lunghe distanze, in Italia un aeroporto simile non c'è o, meglio, ce ne sono due.

Uno è Malpensa, grande aeroporto del nord, la parte più ricca del paese e quindi più interessante per una compagnia aerea. Malpensa tuttavia ha vari difetti: è troppo vicino a molte importanti città del nord perchè ci sia un volo per Malpensa, ed è troppo periferico rispetto a Milano perchè gli abitanti del nord lo considerino il loro aeroporto di riferimento.

L'altro è Roma Fiumicino, a cui si arriva in volo da tutta Italia o quasi.

Mettiamoci nei panni di un abitante di Torino (o di altre importanti e ricche città del nord) che debba andare a New York. Ha tre possibilità.

La prima è prendere un volo per Fiumicino e imbarcarsi per New York con un volo Alitalia; la seconda è volare a Parigi, a Francoforte, Amsterdam o Londra e quindi prendere la coincidenza per NY con un volo non Alitalia; la terza è andare a Malpensa in auto o bus e imbarcarsi per NY con un volo Alitalia.

Sappiamo che Alitalia ha una pessima fama quanto a efficienza e puntualità (e lo stesso vale per i treni italiani e altri mezzi di trasporto) e siamo certi che poche persone vogliono rischiare di perdere un volo per colpa di un contrattempo in autostrada o per un treno che ritarda.

Tutto ciò suggerisce che i potenziali clienti di Alitalia possono preferire andare dalla propria città in una capitale europea per imbarcarsi su un volo intercontinentale, e che non cambieranno idea facilmente, perchè Malpensa non può risolvere i tempi brevi i problemi di collegamento con le principali città del nord Italia e Fiumicino è attraente come aeroporto internazionale, solo per i clienti del centro e sud Italia.
Se le difficoltà di Alitalia sono tante e i problemi di difficile soluzioni, che futuro potrebbe avere? Io penso che potrebbe essere acquistata da una compagnia più grande, che dopo averla ristrutturata con effetti negativi pesanti per personale, imprese fornitrici e aeroporti italiani, la userebbe per portare i clienti italiani verso il proprio aeroporto principale, e per organizzare voli low cost in Europa, provando a fare concorrenza ai vari Ryanair, Vueling, ecc.

14 aprile 2017

Milan

Berlusconi ha venduto il Milan, 31 anni dopo averlo rilevato dal tribunale fallimentare di Milano. Ma chi lo compra?

La decisione di vendere stata presa molto tempo fa. Una banca ha cercato un potenziale compratore e ha faticato non poco a trovare qualcuno interessato al Milan perchè da anni chiude i bilanci con forti perdite (70-90 milioni l'anno, che i figli di Berlusconi preferiscono incassare e non spendere per coprire le perdite di una squadra di calcio, per quanto prestigiosa).

Anche se una società che perde soldi non attira compratori, in un primo momento si sono presentati in due, un tailandese e un cinese, pare entrambi mediatori, che si dicevano pronti a trovare i futuri proprietari del club. Il tailandese è poi sparito, mentre il cinese Li mette insieme alcuni potenziali investitori, creando una società, la Sino Europe Sport, che poche settimane fa si defila, lasciando solo Li.

Li rischia di perdere l'enorme caparra versata a Fininvest ma i soldi per comprare il Milan: 300 milioni prestati a un interesse del 11% da un fondo speculativo americano Elliot (famoso per non aver accettato un accordo sul debito argentino, costringendo il governo del paese sudamericano a restituire per intero la somma dovuta) che si prenderà il Milan tra 18 mesi se il prestito non verrà restituito.

Insomma, nessuno finora ha davvero cercato di comprare il Milan, Li pare un intermediario che compra per poi rivendere la società, proprio come ha fatto Thohir con l'Inter, ma deve fare i conti con lo scarso interesse per una società che richiede altri soldi (per coprire le perdite che aumenteranno se si cercherà di rafforzare la squadra con nuovi giocatori e per restituire il prestito a Elliott.

Cosa succederà nei prossimi mesi?

Possiamo pensare a alcune ipotesi.
La prima è che Li trova investitori e quindi capitali, magari anche quotando in borsa il Milan.
La seconda è il fondo Elliot che diventa proprietario del Milan e lo cede dopo aver messo a posto i conti o averli fatti sistemare dall'attuale dirigenza, con forti tagli alle spese e quindi con cessioni di giocatori.
La terza è il ritorno della famiglia Berlusconi, che per qualcuno sarebbe il vero proprietario di almeno una parte dei soldi versati da Li. Soldi -secondo questa ipotesi- detenuti in conti esteri e fatti rientrare con uno stratagemma. A Li e ai nuovi manager spetterebbe il compito di rimettere in sesto i conti del Milan, imponendo sacrifici che contrastano con l'immagine di Berlusconi generoso mecenate del calcio.

La partita forse è appena cominciata.


11 aprile 2017

La corona ceca

L'articolo con cui ieri Repubblica ha raccontato la decisione della banca centrale della Repubblica Ceca è un bell'esempio di come si possano commettere errori banali forse per poca conoscenza dell'argomento.

La notizia è questa : la banca centrale della Repubblica Ceca ha deciso di "sganciare" la propria moneta, la corona, dall'euro, lasciandola fluttuare liberamente. Il sottotitolo spiega che "Il paese dell'est ha scelto di non mantenere il cambio fisso della corona con l'euro ... perché rischiava di prosciugare le proprie riserve". 

Ora, una banca centrale detiene riserve in valute diverse dalla propria, in questo caso in dollari, euro, yen, franchi svizzeri, ecc. Perchè si dovrebbero prosciugare?

Perchè si teme una svalutazione della corona ceca. In tal caso chi ha corone le converte per esempio in euro al cambio di 1 euro ogni 27 corone, poi aspetta che la corona si svaluti, arrivando supponiamo a 30 corone per 1 euro e ricompra le corone. Aveva 27 corone, ha ottenuto in cambio 1 euro e adesso ha 30 corone.

Se è diffusa la sensazione che la corona si svaluterà, tutti correranno a vendere corone, la banca centrale deve dare euro in cambio delle corone e prima o poi le riserve in euro finiranno o almeno diventeranno insufficienti, spingendo la banca centrale a consentire la libera fluttuazione della corona.

Tutto questo è ciò che ho pensato leggendo il titolo e le prime righe. In più l'articolo fa riferimento all'inflazione, al 2,5%. Anche questo dato spingeva a pensare a una svalutazione della corona ceca, che avrebbe come effetto negativo un probabile aumento dell'inflazione. E sarebbe inoltre una notizia negativa per il resto d'Europa perchè la Repubblica Ceca è un fornitore di prodotti industriali a basso prezzo - perchè la manodopera costa meno - e una svalutzione della moneta non potrebbe che aumentare la competitività ceca.

Senonchè l'articolo poi dice l'esatto contrario. Spiega che la moneta della Repubblica Ceca si sta rivalutando e che alcuni fondi speculativi hanno scommesso sulla rivalutazione, investendo 65 miliardi in tale direzione. Poi paragona la decisione della banca centrale a quella della banca centrale svizzera che decise di rinunciare al cambio fisso mantenuto per anni nei confronti dell'euro, anche in questo caso commettendo qualche imprecisione: la decisione degli svizzeri portò a una rivalutazione del franco con conseguenti difficoltà per le imprese esportatrici e per i consumi in Svizzera.

Il giornalista di Repubblica si concentra invece sulla perdita di valore dell'euro come se un euro debole fosse meno attraente per la maggior parte dei paesi critici dell'area euro. Paesi che in realtà lamentano un euro troppo forte.

Insomma un articolo esemplare, in negativo, scritto male e con poca conoscenza della materia.

05 aprile 2017

La causa di CARIGE

La banca Cassa di Risparmio di Genova (CARIGE) ha deciso di fare causa ad alcuni amministratori della banca, in particolare l'ex amministratore delegato e l'ex presidente, per una serie di scelte che avrebbero potuto portare alla vendita di CARIGE al fondo Apollo.

CARIGE come molte banche italiane ha subito una forte crisi per scelte errate degli amministratori e per una crisi che ha reso inesigibili una massa consistente di crediti. Tuttavia i problemi oggetto della causa nascono dall'IVASS, l'istituto per la vigilanza sulle assicurazioni.

La banca possedeva infatti due assicurazioni, che, come tutte, investono una parte consistente dei premi, in vista di future prestazioni a favore degli assicurati. L'IVASS avverte le assicurazioni di CARIGE che è diminuito il valore degli immobili nei quali le assicurazioni hanno investito e pertanto devono procedere a un aumento di capitale di oltre 90 milioni.

Al tempo stesso la Banca d'Italia sollecita CARIGE a rimettere a posto il bilancio. Chiede non solo la svalutazione dei crediti deteriorati, con conseguente aumento di capitale, ma anche la cessione delle assicurazioni che stanno gravando in modo molto negativo sul bilancio della banca.

Inizia quindi una trattativa con tre possibili acquirenti che termina con la vendita delle assicurazioni al fondo speculativo Apollo, benchè altre offerte sembrassero più convenienti.

Le assicurazioni, una volta vendute, scelgono di chiudere i propri conti correnti presso CARIGE, che vede di conseguenza dimezzarsi in pochi mesi la propria liquidità: in pochi mesi 400 milioni fuoriescono da CARIGE.

Il valore in borsa del titolo ne risente. Il titolo crolla a poche decine di centesimi e a quel punto Apollo si offre di comprare i crediti deteriorati pagandoli meno del 20% del loro valore nominale, in linea con quanto successo con i crediti di Banca Etruria e delle altre banche poste in liquidazione a fine 2015.

Se la cessione dei crediti si fosse realizzata, CARIGE avrebbe subito forti perdite, che Apollo era disposta a coprire sottoscrivendo un aumento di capitale riservato che avrebbe fatto di Apollo il primo azionista con oltre il 50% delle azioni della banca.

In cambio del salvataggio Apollo chiedeva inoltre che non si applicasse la norma sull'offerta pubblica di acquisto obbligatoria per chi supera determinate soglie nell'azionariato di una società quotata.

In pratica Apollo, fondo speculativo, ha -a dire degli avvocati di CARIGE- innescato una crisi nella banca che poi ha provato a risolvere comprando la banca e i suoi crediti a prezzi stracciati. Il tutto con la complicità di alcuni amministratori, ai quali banca CARIGE chiede oggi i danni.

26 marzo 2017

Brexit - Auto

Cosa succederà con la Brexit, che per ora non c'è stata e inizierà concretamente tra un paio di anni?

La risposta è che nessuno lo sa, perchè tutto dipende dalle trattative tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea su un gran numero di questioni.

Qualche indizio però è offerto dal settore atomobilistico.

In GB si producono automobili e lasciando perdere i casi di auto di nicchia, si tratta di impianti di proprietà di case automobilistiche straniera: ci sono impianti di case giapponesi come Toyota e Nissan, e di marchi britannici proprietà di stranieri come Vauxall di Opel, ora passata ai francesi di Peugeot e Mini, posseduta da BMW.

Il primo problema è dunque che i marchi stranieri potrebbero non avere buoni motivi per mantenere in GB produzioni diventate meno convenienti. Se la produzione dovesse diminuire, gli impianti causerebbero perdite, stimolando le case automobilistiche a trasferire le linee produttive in altri paesi.

Tante ragioni potrebbero spingere BMW o i giapponesi a chiudere gli impianti britannici.

I componenti montati sulle auto arrivano per oltre il 40% dall'estero, quindi potrebbero essere soggetti a dazi da parte della Gran Bretagna uscita dall'Unione Europea. Le auto prodotte in GB invece potrebbero essere soggette a dazi dell'Unione Europea, che importa l'80% circa della produzione di auto britannica.

L'UE potrebbe anche imporre dazi regolamentari, chiedendo che le automobili britanniche soddisfino taluni requisiti per poter circolare in Europa. Ultimo elemento il cambio: cosa accadrà al rapporto euro/sterlina nei prossimi anni? Se la sterlina di svalutasse ulteriormente, i componenti delle auto acquistati all'estero diventerebbero più cari mentre diminuirebbe il prezzo delle auto prodotte in GB, stimolando ancora di più l'UE a porre vincoli contro le importazioni di auto britanniche.

Ma chi può valutare con ragionevole certezza cosa succederà e quali saranno gli effetti sui prezzi delle auto made in GB?

Tutto ciò disegna un insieme di incertezze che peseranno sulle fabbriche di automobili e stanno già mettendo a rischio gli investimenti, tanto che il governo di Teresa May ha promesso a Nissan di compensare con soldi pubblici eventuali perdite derivanti da un investimento in corso e causate dalla Brexit.

19 marzo 2017

Pomigliano, FCA

Quado, nel gennaio del 2014, scrissi questo articolo http://www.econoliberal.it/2014/01/addio-punto.html, mi pareva chiaro che il futuro di Fiat in Italia era quello di costruire "automobili che possono offrire un maggior guadagno, un pò come fanno i produttori tedeschi".

Creare maggior valore era una strada obbligata per far vivere gli stabilimenti italiani, sopportando un costo del lavoro "occidentale" e i costi delle inefficienze del sistema economico italiano.

Però qualcosa non tornava: se Fiat puntava su auto che creano più valore, perchè ha deciso di produrre la Panda a Pomigliano d'Arco?

C'erano ragioni contingenti: la necessità di usare lo stabilimento di Pomigliano e la probabile indisponibilità dello stabilimento polacco di Tychy, impegnato in altre produzioni, tra cui la KA di Ford.


A tre anni di distanza è arrivata la notizia che la produzione della Panda tornerà, tra 2-3 anni, in Polonia. Lo stabilimento di Pomigliano d'Arco produrrà automobili più complesse, seguendo i cambiamenti oramai chiari da anni, che porta nell'est europeo le utilitarie su cui le case automobilistiche guadagnano poco, specie se la concorrenza costringe a abbassare i prezzi.

E' in atto un vero e proprio mutamento genetico di Fiat, diventata FCA. Non c'è stata solo l'acquisizione di Chrysler, cosa che permette la produzione in Italia di Jeep ma anche di Alfa Romeo e Maserati da esportare negli USA.

C'è la scelta di portare in Italia le auto di livello maggiore e la (quasi) rinuncia a produrre utilitarie. Certo ci sono la Panda, la 500, la Lancia Ypsilon, ma sono tutte auto costruite in Polonia. Manca per ora un progetto per sostituire la Grande Punto.

La Fiat che produceva auto per tutti a basso prezzo potrebbe sparire per sempre.


08 marzo 2017

Bitcoin

Avete mai sentito parlare di Bitcoin? Si tratta di una  moneta elettronica, creata nel 2009 non si sa da chi, probabilmente un informatico molto esperto. In pochi anni la moneta ha avuto un grande successo e il suo valore rispetto alle monete vere, l'euro o il dollari, è salito alle stelle.

Perchè e a chi serve Bitcoin?

I Bitcoin sono emessi in quantità limitate. E' un pò come se i suoi creatori fossero sostenitori di qualche teoria monetaria conservatrice. Sapendo che il valore sale se la moneta scarseggia si sono assicurati un buon guadagno se -come probabile- possiedono molti Bitcoin o se ottengono un guadagno legato all'uso degli stessi.

Per far salire il valore dei Bitcoin occorre una forte domanda.


I Bitcoin fanno gola a molti perchè permettono di trasferire denaro fuori dai canali tradizionali, senza il coinvolgimento di banche e altre istituzioni controllate dalle banche centrali, allo scopo di evadere le imposte e di trasferire capitali senza le necessarie autorizzazioni.

Ls conseguenza è che sta aumentando l'attenzione delle banche centrali verso il fenomeno, con inviti alle banche a vigilare e segnalare le operazioni sospette, ben sapendo cosa possono nascondere.

Il valore pare dipendere anche dalla speculazione: il valore della moneta elettronica varia molto e questo spinge gli acquisti di chi spera di rivendere i bitcoin a un prezzo maggiore.

Oltre alle opportunità per speculatori, evasori e esportatori di capitali, i Bitcoin offrono anche rischi. Non è una moneta, non ha regole, può essere messa fuori legge e forse potrebbe anche sparire, vittima di chi l'ha creata e la gestisce, o essere sostituita da una moneta simile ma più sicura.

01 marzo 2017

Ronald Trump

Donald J. Trump ha parlato per la prima volta al Congresso assumendo toni moderati per la prima volta dall'elezione, e ha spiegato i suoi propositi.

Colpiscono i 1000 miliardi di opere pubbliche, l'aumento della spesa militare e la promessa di un forte calo delle imposte. Tre punti di un programma che ricorda, almeno per quanto riguarda spesa militare e imposte, le scelte di Ronald Reagan, che fece salire il debito perchè -come spiega il Sole 24 Ore- con Reagan "diminuivano solo le tasse, non le spese".

Analogo effetto sul debito avrà la scelta di Trump di finanziare un enorme piano di opere pubbliche. Gli USA da decenni spendono poco per costruire, rinnovare e migliorare strade, porti, aeroporti, ferrovie, ecc.

Già in passato l'idea di investire molto in infrastrutture "tradizionali" era stata proposta, ma in un contesto diverso: come modo di affrontare la crisi e la disoccupazione salita a ritmi velocissimi tra il 2008 e il 2010.

Oggi invece lo scenario è differente. Gli USA non hanno elevati tassi di disoccupazione, non c'è una recessione in corso. Le opere pubbliche faranno bene all'economia americana, creeranno posti di lavoro tra gli elettori di Trump ma faranno pure aumentare inflazione e debito pubblico, spinto, quest'ultimo pure dalla scelta di diminuire le imposte.

Negli anni 80 la FED guidata da Paul Volcker reagì con aumenti dei tassi all'aumento del debito pubblico provocato dai tagli alle imposte e aumenti della spesa soprattutto militare di Reagan. Succederà lo stesso nell'era Trump?


12 febbraio 2017

Dove sono gli sprechi?

Piccola riflessione. I conti pubblici 2016 si chiudono con un deficit del 2,2% del PIL. Gli accordi europei prevedevano un deficit al 2%, quindi serve una correzione dei conti di 3,4 miliardi, lo 0,2% del PIL.

E' ragionevole che i partiti di governo, che hanno votato le leggi di bilancio, difendano le loro scelte, a cominciare da Renzi che invita Gentiloni a trattare con l'Unione Europea prima di cercare di incassare i 3,4 miliardi con aumenti di imposte e tagli alla spesa.

Non è invece comprensibile la scelta dei partiti di opposizione, spesso impegnati a denunciare gli sprechi e le scelte sbagliate del governo. Di fronte alla richiesta di correzione dei conti, le opposizioni dovrebbero indicare facilmente un modo per recuperare almeno qualche centinaio di milioni tagliando sprechi o facendo scelte diverse di spesa, rendendosi credibili verso i propri elettori che verso le autorità europee.

Invece assistiamo al triste spettacolo di un ministro dell'economia che va in Parlamento a riferire e trova banchi vuoti, mentre il si prepara una campagna elettorale fatta di promesse costose (pensiamo ai 17 miliardi del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle), promesse tanto più credibili quanto più si induce l'opinione pubblica a ignorare le richieste UE.

07 febbraio 2017

I vantaggi comparati

Per cercare di capire quali conseguenze potrebbe avere la decisione di Trump di rinnegare accordi di libero scambio firmati in passato dagli USA, come il NAFTA, che regola gli scambi tra Canada, Messico e USA, può essere utile la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo.

Ricardo, economista britannico vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento, ha elaborato una teoria tanto semplice quanto suggestiva, capace di convincere che è meglio tenere aperti i confini, almeno allo scambio di merci.

Supponiamo ci siano due paesi, USA e Messico, e che entrambi i paesi producano due beni, uno industriale e uno agricolo.

E' quasi intuitivo pensare che se il Messico produce il bene agricolo a costi inferiori di quelli dello stesso bene prodotto negli USA e se il costo del bene industriale prodotto negli USA è inferiore al costo dello stesso bene in Messico, il Messico si specializzerà nella produzione del bene agricolo e gli USA nella produzione del bene industriale e poi si scambieranno i due beni.

La teoria di Ricardo si basa su una ipotesi più forte. Si domanda: cosa succede se entrambi i beni costano meno in Messico?

La risposta istintiva è che i due beni sono prodotti nel paese con costi inferiori, ma Ricardo obietta che, poichè le risorse (lavoro, capitali) sono limitate, può convenire a un paese specializzarsi in una produzione (anche se lo stesso prodotto nell'altro paese costa meno) e comprare l'altro.

Gli USA per esempio possono trovare conveniente specializzarsi nella produzione del solo bene industriale e il Messico nella produzione del solo bene agricolo perché si usano meglio le risorse. I confini aperti permettono ai singoli paesi di disporre di una quantità di entrambi i prodotti maggiore rispetto al caso in cui USA e Messico producessero entrambi i beni (agricolo e industriale) senza scambiarseli.


25 gennaio 2017

Intesa Sanparolo Generali ?

Perchè Intesa Sanpaolo aspira a diventare il prossimo proprietario di Generali, uno dei maggiori gruppi legati assicurativi europei?

Vediamo chi sono i protagonisti.

Il primo è Intesa Sanpaolo è una grande banca italiana senza problemi di bilancio.

Il secondo Generali, grande e ricca assicurazione che però ha un problemino: le azioni della società triestina sono distribuite tra molti azionisti, alcuni non legati al mondo assicurativo o bancario, come Del Vecchio, proprietario di Luxottica, che ha diversificato gli investimenti entrando in importanti società con interessi in tutto il mondo.

Il terzo è Mediobanca, che è uno dei principali azionisti in Generali, di cui possiede un 13% del capitale e vorrebbe scendere, proprio come il quarto protagonista, Unicredit, che ha bisogno di soldi, in vista in un imminente aumento di capitali, ed è disposta a cedere la sua quota in Generali.

Nei mesi scorsi Unicredit ha ceduto a una società francese Pioneer, grande società di gestione di fondi di investimento. Mossa necessaria che però ha indebolito la capacità delle imprese italiane di gestire il risparmio, parte del quale finanzia il debito pubblico italiano.

Con l'acquisto di Generali a opera di Intesa Sanpaolo ci sarebbero vantaggi per molti.

Per Unicredit e altri eventuali azionisti che incasserebbero denari in questo momento preziosi (non a caso le voci di una scalata a Generali ha fatto salire alle stelle il valore delle azioni di Unicredit).

Per l'italianità di Generali che potrebbe rischiare di finire in mani straniere, con la possibilità che alcune parti del gruppo siano cedute a assicurazioni straniere, rinunciando di fatto a operare in mercati importanti, come quello francese.

Per Intesa San Paolo, che creerebbe un gruppo ancora più grande e solito perchè Generali gestisce un patrimonio molto grande, frutto dell'investimento dei risparmi dei propri clienti.

E infine per lo Stato italiano, perchè una banca e una assicurazione italiane che investono i soldi dei loro clienti acquistando decine di miliardi riduce il rischio i pericoli per uno stato con un elevato debito pubblico. Se Generali finisse in mani straniere, sarebbe lecito il sospetto che dietro un aumento dello spread ci possa essere una scelta politica di un governo "amico".

Di fronte alla possibile scalata di Intesa Sanpaolo, Generali ha risposto facendosi prestare il 3,3% delle azioni di Intesa Sanpaolo. Questo impedisce a Intesa Sanpaolo di diventare un azionista importante di Generali acquistandone il 10-15% delle azioni, perchè le norme pongono limiti al diritto di voto in caso di partecipazioni incrociate.

Intesa Sanpaolo ha quindi due soluzioni: lanciare un'offerta pubblica di acquisto, comprando il 60% di Generali, sborsando circa 14-15 miliardi. L'altra è controllare Generali attraverso Mediobanca, che controlla il 13% di Generali.

In questo secondo caso, l'italianità del sistema bancario-finanziario italiano si rafforzerebbe perchè da sempre Mediobanca ha forti legami con banche e aziende francesi.

16 gennaio 2017

Trump e i lavoratori

Venerdì termina il secondo mandato di Barack Obama, che lascia al suo successore un'America in salute, molto migliore di quella ereditata da George W.Bush: il paese cresce, i conti pubblici sono in ordine e  la disoccupazione è in calo dal 2010. come testimonia il grafico che segue.


Se l'America s'è ripresa e ha continuato a creare posti di lavoro, è anche vero che i redditi degli americani sono cresciuti poco o nulla. S'è aggiunto lavoro mal pagato e questo spiega la cavalcata vincente di Trump, spinto da una forte retorica anti-sistema che ha avuto successo soprattutto nell'America tradizionale, quella degli operai che risentono della concorrenza straniera.

Riusciranno gli operai americani a star meglio durante la presidenza Trump?

Se Trump riuscirà a portare avanti i suoi progetti, riportando in patria qualche produzione, qualche beneficio ci sarà. Il basso tasso di disoccupazione aiuterà a ottenere contratti migliori.

Questa pare la sola ragione per credere in un miglioramento, mentre altri elementi fanno pensare il contrario, a cominciare dal fatto che la maggioranza parlamentare è e resta in mano ai repubblicani, da sempre ostili a fissare salari minimi o vincoli alla libertà delle parti di fissare i salari.

Poi ci sono le scelte di Trump: al ministero del lavoro collocherà un dirigente proveniente da una catena di fast food, mentre altri posti di peso nell'amministrazione spetteranno a uomini provenienti dal mondo dell'alta finanza ovvero persone pronte a pagare male il lavoro pur di massimizzare i profitti, come fa Trump in molte delle sue imprese.

Infine c'è l'Obamacare, che i repubblicani vogliono abolire e sostituire, col rischio per i lavoratori di trovarsi a sopportare spese più alte per assicurarsi.


09 gennaio 2017

Il nome degli insolventi MPS

Dopo la scelta del governo di ricapitalizzare il Monte dei Paschi di Siena (MPS) per salvarlo da un possibile fallimento, in molti hanno chiesto di rendere pubblici i nomi dei 100 maggiori clienti insolventi della banca.

Una richiesta a mio parere poco sensata e potenzialmente pericolosa, oltre che vietata dalla legge sulla privacy (non a caso il presidente dell'ABI chiede una deroga alla legge).

L'idea alla base di questa richiesta è che i dirigenti di MPS abbiano prestato soldi agli amici, molti privi digaranzie, e per questo la banca sia arrivata a chiedere i soldi dello Stato.

Non c'è dubbio che questo sia successo, come in molte banche italiane (e non solo), ma sappiamo che la differenza tra MPS e altre banche, costrette a svalutare i crediti e a ricapitalizzare, sono stati alcuni grandi investimenti sbagliati, come quello per acquistare Banca Antonveneta.

Il ricorso ai soldi dello Stato non dipende quindi dai crediti deteriorati e chi chiede di conoscere i nomi spera di trovare nomi che mettano in imbarazzo l'avversario politico o cerca lo scoop giornalistico.

Conoscere i nomi avrebbe conseguenze economiche non positive. In alcuni così si rivelerebbero nomi di imprese fallite. In altri i creditori potrebbero non essere in grado di pagare, pur continuando a fare il loro lavoro. Pensiamo al caso di una impresa che ha fatto un investimento prima della crisi per costruire un nuovo impianto che poi la crisi ha reso inutile. L'azienda s'è indebitata, continua a lavorare ma non può pagare perchè la crisi morde.

Cosa succederebbe a questa impresa (e ai suoi lavoratori) se si scoprisse che è insolvente? Crollerebbe la fiducia di molti clienti e fornitori, con conseguenze molto negative per l'impresa messa alla berlina.

Qualche mese fa MPS ha respinto un'analoga richiesta fatta da Corrado Passera, per conto di un gruppo di società - i cui nomi non sono stati resi noti - interessate a acquistare i crediti deteriorati da MPS. I dati sui crediti deteriorati possono essere usati per speculazioni di diverso tipo ai danni della banca e dei suoi clienti, e quindi MPS li avrebbe forniti solo a condizione di ricevere garanzie sull'uso degli stessi.

E poi perchè si parla solo dei debitori? Perchè non indicare i nomi dei correntisti che magari hanno ottenuto condizioni vantaggiose minacciando in caso contrario di ritirare i propri soldi?

Il lavoro della banca si basa sulla fiducia anche relativa alle informazioni che la banca possiede sui propri clienti e non diffonde se non in base a obblighi di legge, prorpio come succede col medico che conosce le malattie dei pazienti. Se questa fiducia venisse meno per piccoli calcoli elettorali, l'intero sistema bancario subirebbe un grave colpo e molti clienti preferirebbero rivolgersi altrove.

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