Dopo che Sergio Marchionne al Meeting di Rimini ha invocato nuove relazioni industriali basate sulla fine della contrapposizione tra operai e padroni, Cesare Romiti, ex amministratore delegato e ex presidente Fiat, ha invece spiegato che le contrapposizioni ci sono e ci saranno sempre e che i sindacati si possono battere ma non dividere.
Mentre Marchionne cerca strade nuove, Romiti è fedele ad una logica conflittuale: imprese e lavoratori hanno interessi contrastanti e se uno vince l'altro perde.
La logica del conflitto fa leva sul diritto di sciopero, strumento che i lavoratori usano per far pressione sull'impresa. Si suppone che imprese e lavoratori scelgono le strategie migliori e usano gli strumenti a loro disposizione, tra i quali c'è lo sciopero, da molti considerato un diritto irrinunciabile. Dopo un più o meno aspro conflitto, si mettono d'accordo finché c'è un altro buon motivo per protestare e scioperare.
Ma la logica conflittuale non è la sola possibile. In paesi come la Svezia i lavoratori scioperano raramente senza che questo riduca il ruolo dei sindacati. Anzi, i sindacati svedesi sono forti, hanno molti iscritti, ottengono buoni risultati anche se il diritto di sciopero è limitato dalla legge, consentito solo a certe condizioni.
Lo sciopero infatti è un'arma a doppio taglio. E' uno strumento dei lavoratori che può anche penalizzare l'impresa e i suoi clienti.
Per questo motivo si è introdotto, in Italia, qualche limite al diritto di sciopero. Nei trasporti pubblici, ad esempio, ci sono periodi in cui gli scioperi sono vietati e questo perché in passato si scioperava in estate, con la conseguenza che si allontanavano i turisti stranieri dall'Italia.
Se lo sciopero rende inefficiente l'impresa, facendole perdere clienti e fatturato, non deve stupire che l'impresa reagisca delocalizzando o assumendo lavoratori che non scioperano perché ricattabili. E' un modo per evitare le conseguenze di un uso non sempre corretto del diritto di sciopero (come avevo sottolineato qui).
I sostenitori della logica del conflitto, infatti, spesso dimenticano che l'impresa non è costretta a accettare il conflitto. Può anche può anche evitare il conflitto, come il turista bloccato in aeroporto da uno sciopero improvviso può decidere di cambiare meta.
Il diritto di sciopero perciò mostra limiti evidenti, specie in economie globalizzate che consentono più facilmente che in passato di trasferire le attività produttive in paesi stranieri e in presenza di investimenti di dimensioni elevate. In quest'ultimo caso, che è quello della Fiat, l'elevato costo di ammortamento dell'investimento richiede un forte sfruttamento degli impianti.
Se ciò non è possibile, l'investimento non conviene e non si realizza.
Per questa ragione Fiat chiede ai lavoratori dun impegno lavorativo costante che si scontra con il diritto del singolo di scioperare.
Di fronte al rischio che le imprese non investano, preferendo evitare a priori di puntare sull'Italia, forse conviene pensare a limitare il diritto di sciopero. Non si tratta di negare il diritto ma di scegliere i casi in cui lo sciopero è consentito da quelli in cui è vietatato e impedendo che chiunque, anche il singolo lavoratore o una piccola organizzazione sindacale, possano mettere in difficoltà produzioni complesse e costose e, con essi, i lavoratori.
A ben vedere una riduzione del diritto di sciopero potrebbe essere utile alle organizzazioni sindacali maggiori e anche all'unità dei sindacati.
In occasione del referendum nello stabilimento di Pomigliano, Marchionne ha invocato gli USA, dove Chrysler interagisce con una sola organizzazione sindacale. Da noi invece i sindacati sono molti, spesso piccoli e anarchici e ciò non garantisce affatto migliori risultati per i lavoratori che, come si sa, sono trattati peggio dei loro colleghi francesi o tedeschi o inglesi.
Se si limitasse il diritto di sciopero, concedendolo solo ai sindacati e non ai singoli lavoratori e magari ai sindacati capaci di raccogliere un consenso minimo, si finirebbe anche per favorire l'unità sindacale e si esalterebbe il ruolo dei sindacati più grandi, come la CGIL che il governo cerca invece di colpire.