29 agosto 2010

Limitare il diritto allo sciopero?


Dopo che Sergio Marchionne al Meeting di Rimini ha invocato nuove relazioni industriali basate sulla fine della contrapposizione tra operai e padroni, Cesare Romiti, ex amministratore delegato e ex presidente Fiat, ha invece spiegato che le contrapposizioni ci sono e ci saranno sempre e che i sindacati si possono battere ma non dividere.
Mentre Marchionne cerca strade nuove, Romiti è fedele ad una logica conflittuale: imprese e lavoratori hanno interessi contrastanti e se uno vince l'altro perde.
La logica del conflitto fa leva sul diritto di sciopero, strumento che i lavoratori usano per far pressione sull'impresa. Si suppone che imprese e lavoratori scelgono le strategie migliori e usano gli strumenti a loro disposizione, tra i quali c'è lo sciopero, da molti considerato un diritto irrinunciabile. Dopo un più o meno aspro conflitto, si mettono d'accordo finché c'è un altro buon motivo per protestare e scioperare.

Ma la logica conflittuale non è la sola possibile. In paesi come la Svezia i lavoratori scioperano raramente senza che questo riduca il ruolo dei sindacati. Anzi, i sindacati svedesi sono forti, hanno molti iscritti, ottengono buoni risultati anche se il diritto di sciopero è limitato dalla legge, consentito solo a certe condizioni.

Lo sciopero infatti è un'arma a doppio taglio. E' uno strumento dei lavoratori che può anche penalizzare l'impresa e i suoi clienti.

Per questo motivo si è introdotto, in Italia, qualche limite al diritto di sciopero. Nei trasporti pubblici, ad esempio, ci sono periodi in cui gli scioperi sono vietati e questo perché in passato si scioperava in estate, con la conseguenza che si allontanavano i turisti stranieri dall'Italia.
Se lo sciopero rende inefficiente l'impresa, facendole perdere clienti e fatturato, non deve stupire che l'impresa reagisca delocalizzando o assumendo lavoratori che non scioperano perché ricattabili. E' un modo per evitare le conseguenze di un uso non sempre corretto del diritto di sciopero (come avevo sottolineato qui).

I sostenitori della logica del conflitto, infatti, spesso dimenticano che l'impresa non è costretta a accettare il conflitto. Può anche può anche evitare il conflitto, come il turista bloccato in aeroporto da uno sciopero improvviso può decidere di cambiare meta.

Il diritto di sciopero perciò mostra limiti evidenti, specie in economie globalizzate che consentono più facilmente che in passato di trasferire le attività produttive in paesi stranieri e in presenza di investimenti di dimensioni elevate. In quest'ultimo caso, che è quello della Fiat, l'elevato costo di ammortamento dell'investimento richiede un forte sfruttamento degli impianti.
Se ciò non è possibile, l'investimento non conviene e non si realizza.
Per questa ragione Fiat chiede ai lavoratori dun impegno lavorativo costante che si scontra con il diritto del singolo di scioperare.

Di fronte al rischio che le imprese non investano, preferendo evitare a priori di puntare sull'Italia, forse conviene pensare a limitare il diritto di sciopero. Non si tratta di negare il diritto ma di scegliere i casi in cui lo sciopero è consentito da quelli in cui è vietatato e impedendo che chiunque, anche il singolo lavoratore o una piccola organizzazione sindacale, possano mettere in difficoltà produzioni complesse e costose e, con essi, i lavoratori.

A ben vedere una riduzione del diritto di sciopero potrebbe essere utile alle organizzazioni sindacali maggiori e anche all'unità dei sindacati.
In occasione del referendum nello stabilimento di Pomigliano, Marchionne ha invocato gli USA, dove Chrysler interagisce con una sola organizzazione sindacale. Da noi invece i sindacati sono molti, spesso piccoli e anarchici e ciò non garantisce affatto migliori risultati per i lavoratori che, come si sa, sono trattati peggio dei loro colleghi francesi o tedeschi o inglesi.

Se si limitasse il diritto di sciopero, concedendolo solo ai sindacati e non ai singoli lavoratori e magari ai sindacati capaci di raccogliere un consenso minimo, si finirebbe anche per favorire l'unità sindacale e si esalterebbe il ruolo dei sindacati più grandi, come la CGIL che il governo cerca invece di colpire.

27 agosto 2010

In arrivo un'altra recessione?

Il numero uno della FED, Ben Bernanke, ha parlato oggi descrivendo scenari non proprio positivi per il futuro dell'economia (vedi qui).

Per Bernanke l'economia americana sta rallentando, e anche se tutto fa pensare che nel 2011 le cose andranno meglio, la FED è pronta a intervenire acquistando grandi quantità di titoli pubblici.

D'altro canto non può fare altro. I tassi sono poco sopra lo zero e non si possono abbassare ancora.

Le parole di Bernanke hanno scosso i mercati ed è lecito chiedersi cosa sta succedendo davvero.

In parte lo spiega lo stesso Bernanke: nell'economia mondiale in due anni è cambiato poco o nulla. Gli squilibri restano intatti. Ci sono economie che spendono troppo e richiedono capitali e capitali pronti a abbandonare gli investimenti rischiosi causando il crollo delle attività economiche beneficiato dal credito. Lo abbiamo visto in modo evidente quando è fallita Lehman Brothers: la massiccia fuga dei capitali dagli investimenti più rischiosi ha messo in ginocchio l'economia mondiale.

Meno dirompente è stata la crisi greca che però ha costretto i governi europei a tagliare i costi e aumentare le imposte, con effetti negativi sul tasso di crescita dell'economia europea.

Il successo del salvataggio greco non vuol dire però che possiamo stare tranquilli.

Anzi, Bernanke ci avverte che i rischi restano elevati. L'economia rallenta e chi gestisce capitali è pronto a vendere tutto per ricomprare a prezzi più bassi. Ogni pretesto è buono e la speculazione è in agguato e disinteressata alle conseguenze.

Cosa succederebbe se, di fronte a un rallentamento dell'economia USA o cinese, si vendessero i titoli di stato USA magari anche al fine di colpire Obama e rilanciare i repubblicani? Le conseguenze sulla ripresa dell'economia sarebbero devastanti, rendendo vani gli sforzi fatti finora per rimettere in moto la macchina economica.

Bernanke teme una recessione che spinga i capitali a fuggire da aziende, banche e titoli di stato americani. Quindi avverte i mercati: siamo pronti a intervenire acquistando grandi quantità di titoli pubblici per contrastare le fughe di capitali che trasformerebbero il rallentamento dell'economia in una pesante recessione.

La speranza è che questo avvertimento sia sufficiente a impedire manovre speculative sui titoli di stato americani e le conseguenze depressive sull'economia americana e per il resto del mondo.

25 agosto 2010

L'ignoranza dei signoraggisti. Un'altra prova


Da un pò sostengo che chi scrive di signoraggio in senso complottista è solo ignorante (vedi qui) e accetta qualsiasi informazione ritenga utile, senza verifiche.

Ed ecco un'altra prova. Mi sono imbattuto in questo video in cui un gruppo di persone che, appena inizia l'incontro, prima confessa la propria mancanza di competenze economiche e poi racconta un pò di banalità sul signoraggio.

Una di queste dice che il gruppo IntesaSanPaolo possiede il 30,33% delle quote della Banca d'Italia. Ma è vero?

Cerchiamo i dati di bilancio di IntesaSanPaolo. L'ultimo rendiconto (vedi qui) dice che la partecipazione nel capitale della Banca d'Italia ammonta al 42,5% (pagina 90 del documento).

E il 30,33% del video da dove salta fuori?

Se andiamo a cercare nel bilancio 2009 (vedi qui) le partecipazioni, scopriamo a pagina 610 che la banca possiede direttamente il 30,35% delle quote di Bankitalia (non il 30,33%) e che il resto è posseduto attraverso altre banche del gruppo, specificate una per una con la relativa quota percentuale.

La partecipazione di IntesaSanPaolo è dunque del 42,5%, come ammette la stessa banca.

I signori del video, che dichiarano candidamente la propria incompetenza, prendono per buona qualsiasi informazione, senza mai controllare le fonti. Se lo facessero si renderebbero conto di divulgare dati falsi o parziali.

21 agosto 2010

La borsa: una misura della crescente incertezza

Un tempo, quando non esisteva internet (e qualche dinosauro brucava nella pianura padana) della borsa si parlava sui giornali o, al massimo, in tv. Un aumento dello 0,5% in un giorno era sottolineato da un titolo che segnalava il forte aumento.

Oggi un'azione può aumentare o diminuire della stessa percentuale in pochi minuti e non stupisce più osservare indici di borsa che aumentano o diminuiscono in una sola seduta del 2-3%.

Almeno questa è la mia sensazione.
Ho provato a cercare conferme, prendendo i dati dell'indice FTSE/MIB sul sito di Yahoo, sezione finanza, dove ci sono i dati di molti anni. Valore di apertura, di chiusura, massimo e minimo per ogni giorno.

Ho scaricato i valori dell'indice dell'ultimo anno (il periodo agosto 2010-agosto 2009 esclude il periodo più caldo della crisi di borsa) e quelli di un anno a cavallo tra il 2003 e il 2004.

Quindi ho calcolato un sia pur approssimativo indicatore di variazione dei dati calcolato come variazione percentuale tra il valore minimo e il valore massimo dell'indice.

Facciamo un esempio: se il massimo in un dato giorno è 20.150 e il minimo è 20.050, l'indicatore calcolato è (20150-20050)/20050 = 0,49%. Significa che se un ipotetico investitore avesse comprato le azioni che compongono l'indice nel momento del minimo giornaliero e le avesse vendute al momento del massimo giornaliero, avrebbe ottenuto un guadagno dello 0,49%.

Ottenute le percentuali giorno per giorno riferite a due periodi (l'ultimo anno, agosto 2010-agosto 2009 e il periodo agosto 2003-agosto 2004), ho calcolato una media, scoprendo che la variazione tra minimo e massimo in 6 anni è più che raddoppiata, passando da poco più dell'1% giornaliero a oltre il 2% giornaliero.

Vuol dire che se un ipotetico investitore in un giorno "medio" investisse una certa somma nel paniere che compone il FTSE, comprando al minimo di giornata e vendendo al massimo, sei anni fa avrebbe guadagnato in media l'1%. Oggi guadagnerebbe il 2%.

La differenza è enorme.

Supponiamo che il nostro ipotetico investitore investa non solo un certo capitale ma anche i profitti via via ottenuti. Con un guadagno dell'1% al giorno, dopo un anno avrebbe moltiplicato quasi per 15 la somma investita. Ma col 2%, dopo un anno avrebbe moltiplicato per più di 200 volte la somma investita!

Le montagne russe, i saliscendi della borsa sono cosa normale, ma oggi, rispetto a sei anni fa, si sale e si scende molto di più.

Come si spiega la maggiore variabilità della borsa?

Sono certamente aumentate la speculazione e l'incertezza: non si investe più per guadagnare a distanza di mesi o anni ma si è pronti a vendere e ricomprare a prezzi più bassi, come testimonia la vicenda della Fondazione CRT (vedi qui) che ottiene i risultati migliori nell'anno più difficile per l'economia.
E' aumentata la mobilità dei capitali: un giorno si investe in Italia, il giorno dopo si vendono le azioni e si spostano i capitali su un'altra borsa alla ricerca di una nuova buona occasione di guadagno. Se si teme che un'azione possa calare, si vende.

E c'entra pure internet: un tempo chi comprava azioni doveva passare attraverso una banca o un operatore specializzato, a cui comunicare gli ordini per telefono. Oggi ci pensano le vendite on-line e in molti acquistano e vendono azioni dal computer dell'ufficio.

Ma la variabilità della borsa aumentata è positiva o negativa per l'economia?

A mio avviso è negativa. Lo abbiamo visto a in occasione del fallimento di Lehman Brothers: mentre qualche ultra-liberista brindava (vedi qui), l'economia reale è uscita a pezzi da un aumento improvviso dell'incertezza e dal crollo dei valori di borsa, mentre la ripresa di fiducia è lento.

Se il rendimento di un'azione diventa più imprevedibile, se aumenta il rischio di subire perdite, chi possiede le azioni si affiderà di meno ai possibili guadagni per finanziare i consumi o per garantire i debiti con cui finanziare gli investimenti.

Una borsa che varia troppo rischia dunque di essere una palla al piede per la ripresa economica, utile solo a offrire buone occasioni di guadagno a chi specula giorno per giorno.

PS Questo Un articolo su Repubblica integra quanto scritto.

16 agosto 2010

Una bottiglia d'acqua, una confezione di biscotti...


Mi è capitato di vedere in tv una trasmissione che si occupava di acqua minerale. Quando è stato il momento di parlare del prezzo, la conduttrice ha chiesto: cosa determina il prezzo il prezzo di una bottiglia d'acqua?

L'interlocutore ha spiegato che il prezzo di una bottiglia d'acqua dipende dal costo di trasporto e dalla pubblicità, sottolinenando la pessima abitudine di vendere acqua imbottigliata a centinaia di km di distanza.

Incuriosito, in un supermercato ho guardato con attenzione i prezzi di tutte le bottiglie, scoprendo che la bottiglia di l'acqua minerale più cara può costare anche tre volte la più conveniente.

Se poi si considerano le altre bevande gassate si scopre che possono costare anche 10 volte una bottiglia di acqua minerale, anche se si tratta dibevande basate sull'acqua minerale. E anche tra le bibite gassate dello stesso tipo la differenza di prezzo può essere notevole: l'aranciata di una marca può costare il doppio di un'altra.

Cosa giustifica una differenza di prezzo così accentuata?

Le scelte del consumatore!

Le imprese sanno che non sono tutti uguali. Alcuni sono disposti a spendere di più e altri di meno per prodotti molto simili e le imprese ne approfittano.

Raccontano negli spot televisivi che una certa acqua fa fare pipì (come se ci fosse un'acqua che produce l'effetto opposto) o che contiene poco sodio allo scopo di alzare il prezzo e attirare i clienti disposti a spendere di più per una bottiglia d'acqua. Le bottiglie destinate a chi vuole spendere di meno invece non finiscono in tv e non hanno etichette con montagne innevate.

Esistono prodotti molto simili ma con prezzi diversi e precise strategie delle imprese per sfruttare i diversi atteggiamenti dei consumatori nei confronti dei prodotti e dei prezzi.

I supermercati offrono spesso biscotti con il marchio del supermercato. Hanno confezioni poco attraenti, ma se si legge l'etichetta si scopre che a produrli sono gli stessi stabilimenti che producono i biscotti delle marche più famose.
La qualità -si presume- è la stessa, il disegno del biscotto e il gusto cambiano, ma di poco. Sembrano la versione "povera" dei biscotti di marca.

Il loro scopo è invogliare una parte dei consumatori a preferire i biscotti di marca, più cari, offrendo al tempo stesso un prodotto più conveniente ai consumatori disposti a spendere di meno. Un pò come avviene con l'acqua che promette di fare pipì.

13 agosto 2010

Perché i signoraggisti non parlano della BRI?

In un precedente post avevo fornito una prova dell'ignoranza di un celebre signoraggista, mr P., che non ha nulla da eccepire di fronte a una definizione di signoraggio che smentisce le sue fantasie sul signoraggio.

Ed ecco un'altra prova: i signoraggisti ignorano la Banca dei Regolamenti Internazionali, con sede nella misteriosa nazione dei formaggi bucherellati e di abbondanti nevicate, la Svizzera, patria di un segreto bancario quasi impenetrabile.

Mr. P. e gli altri signoraggisti cercano le prove delle loro fantasie tra le spiagge assolate delle isole Cayman, ma ignorano che periodicamente i banchieri centrali si riuniscono nella fredda Svizzera, presso la BRI.

La Banca dei Regolamenti Internazionali infatti ha sede a Basilea, è la più antica organizzazione finanziaria internazionale di tipo multilaterale, essendo nata nel 1930, 15 anni prima del Fondo Monetario Internazionale, e ad essa partecipano solo le banche centrali. Ben 49 di cui 32 europee.

Per questo è considerata la banca delle banche centrali.

Ma perché mr P. e i suoi amici signoraggisti non se ne occupano? Forse perchè preferiscono le spiagge delle Cayman ai freddi inverni svizzeri? Forse perchè invidiano ai complottisti le riunioni sul Britannia in mezzo al mare mentre non sono attratti dalla Svizzera dove si spala neve per molti mesi l'anno?

O forse solo perchè non conoscono la Banca dei Regolamenti Internazionali e per questo non hanno mai elaborato una qualche fantasia su una noiosa riunione di banchieri centrali in mezzo alla neve della Svizzera?

05 agosto 2010

La corsa dei fallimenti

La corsa dei fallimenti nel 2010 sembra inarrestabile. Prendo ad esempio il tribunale di Ancona.
Le Marche, si sa, sono la regione "media" su cui si fanno mille indagini di ricerca e anche dal punto di vista dei fallimenti si confermano un ottimo osservatorio della tendenza nazionale.
I fallimenti in tutto il 2009 sono stati 135, nel 2008 furono 94, nel 2007 77. Attualmente, al 4 Agosto sono già 116.
A titolo di confronto ai primi di agosto del 2009 erano solo 62.
Quindi ci si avvia ad un nuovo record, verso quota (chi lo sa?) 200 fallimenti dichiarati.
Da questi numeri sono escluse le due procedure "particolari" in amministrazione straordinaria, tra cui la Merloni elettrodomestici, che meriterebbero un discorso a parte.
Bisogna considerare che dopo la riforma fallimentare sono stati inseriti nella normativa dei limiti quantitativi in rapporto a attivi patrimoniale, ricavi, ecc. che in precedenza non c'erano, in modo da escludere dalla procedura le imprese minori.

Ma a chi giova tutto cio?

Purtroppo la procedura fallimentare ora come, a mio parere, dal punto di vista economico, non serve a nulla.

Con questo non voglio dire che non serva a nulla in generale, ma dal punto di vista del tessuto economico è semplicemente una procedura che spazza via ricchezza, impresa e posti di lavoro.

A parte poche eccezioni (come la Merloni, appunto), nella maggioranza dei casi ci si trova di fronte a non più di 2 o 3 tipologie che spaziano dalla società "scatola vuota" all'imprenditore che ci rimette la casa. Ma in ogni caso le possibilità di salvare l'impresa sono pari allo zero.

E questo non è secondario, in quanto se da una parte è vero che si eliminano aziende "bollite", dall'altra è vero che comunque queste aziende producevano ricchezza e posti di lavoro.
Che cosa rimarrà dopo la grande pulizia dell'impennata delle procedure fallimentari?

Sicuramente una quantità di procedure che intaseranno i tribunali per i prossimi 20 anni. Ma anche dei buchi e degli strappi enormi nel tessuto economico, perché gli imprenditori (specie quelli piccoli) difficilmente potranno rientrare nel mondo del lavoro: se le imprese chiudono non assumono e loro in prima persona non possono ricominciare finché non sono riabilitati (di fatto, anche se giuridicamente non è proprio vero...).
Questi imprenditori come sopravviveranno? E come sopravviveranno le loro famiglie?

01 agosto 2010

Tagli alla cultura: arriva un fallimento?


Da anni il sistema politico s'è inventato un nuovo metodo per gestire teatri e musei. Si creano fondazioni e gli si offre una certa autonomia gestionale, trasformandoli di fatto in imprese che vendono un servizio al pubblico.

Dovrebbero avere i conti in ordine e raccogliere capitali dai privati, interessati a farsi pubblicità tra un concerto di Mozart e l'altro.

Dovrebbero, ma non succede o almeno non succede in misura sufficiente a garantire alle fondazioni di vivere con i soldi raccolti "sul mercato". In pochi investono nei teatri o nei musei e ancor meno donano capitali.

I teatri, i musei ma anche le università vivono dunque di soldi pubblici, che sono sempre meno per la palese volontà specie del governo di destra di intervenire sui conti pubblici attraverso tagli.

I biglietti, le tasse universitarie, le sponsorizzazioni coprono solo una parte dei costi e non si può immaginare che in futuro le cose siano destinate a cambiare. Se non interviene la mano pubblica, i conti non tornano.

Così sta succedendo che il teatro Carlo Felice di Genova è in una situazione difficilissima, praticamente sull'orlo del fallimento (vedi qui). I soldi non bastano e si pensa di chiudere per un anno, mettendo in cassa integrazione i dipendenti.

E' l'ultima puntata di una crisi, quella del teatro genovese, che perdura da anni ma anche il simbolo del fallimento di un modelo e un campanello di allarme di quel che potrebbe succedere nei prossimi anni ad altri teatri, università e musei se la politica dei tagli continuerà.

E' assurdo che un ente di fatto pubblico metta in cassa integrazione i dipendenti per risparmiare sui costi. La fondazione risparmia ma lo stato paga la cassa integrazione, anticipata dalla Regione.

Ma soprattutto è il fallimento di un progetto, consistente nel rendere autonome istituzioni che vivono solo se ottengono soldi pubblici, nella speranza che possano incassarne di meno e ottenere di più dal settore privato: ormai è chiaro che ciò non accade.

Quel che sta succedendo a Genova, infine, fa presagire tempi non felici per settori strategici come l'università e la cultura. Cosa succederà se continueranno i tagli? Vedremo le università o i musei chiusi per fallimento?

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