Tra i tanti modi in cui si sprecano soldi pubblici, ce n'è qualcuno che lascia poche tracce perché avviene con il favore di parte dell'opinione pubblica, convinta di spendere i soldi per realizzare un'idea innovativa.
E' il caso del bike sharing a Genova. Chi conosce Genova sa che tra le grandi città del nord è forse quella col traffico peggiore. C'è il più grande centro storico in Europa fatto di piccole vie che risalgono spesso al medio evo, ci sono zone densamente popolate con un'infinità di edifici costruiti nelle poche zone pianeggianti e c'è una parte non piccola della città costruita sulle colline che dominano la Genova.
Poche strade salite, discese, piste ciclabili inesistenti in un città con vie spesso troppo strette per il traffico automobilistico. Insomma un ambiente poco favorevole per la bicicletta, adatta invece alle città pianeggianti, alle strade larghe e dritte.
Ciò nonostante quattro anni fa si sono spesi 220 mila euro del ministero dell'ambiente per il bike sharing. Nel 2012 le biciclette affittate hanno reso alla società che li gestisce (e gestisce anche i parcheggi) 1147,50 euro. Una miseria, sintomo di un fallimento.
Chissà quanti flop simili esistono in giro per l'Italia, situazioni in cui si segue una moda o un'idea magari interessante e innovativa, che però nessuno studia prima di spendere i soldi, per capire se l'idea avrà un pubblico destinato a usufruire del servizio offerto, vale a dire, per tradurre il tutto in termini economici, per capire se esiste una domanda da soddisfare.
29 aprile 2013
27 aprile 2013
MMT secondo Carlei e LeFou
Ieri sera live sulla MMT da parte di LeFou e Vittorio Carlei
Per chi se lo fosse perso, ecco il video
Per chi se lo fosse perso, ecco il video
26 aprile 2013
Alleanza Mediterranea e Tasse Catalane
La Spagna, primo fra tutti El Pais, saluta favorevolmente la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica Italiana, sia per l'alta stima di cui il Capo dello Stato gode all'estero, ma anche per la prospettiva della formazione di un nuovo governo e la partenza della nuova legislatura in Italia.
Ma perché gli spagnoli sono tanto interessati al governo italiano?
Perchè le politiche di rigore durissimo sostenute da Rajoy ed appoggiate in sede europea hanno miseramente fallito, ed il governo stesso se ne è reso conto amaramente, ed ora, spiega El Pais, gli spagnoli cercano disperatamente alleati in Europa per far fronte comune contro i sostenitori dell'asuterity, ovvero più o meno quello che proponeva la sinistra spagnola in campagna elettorale l'anno scorso.
La situazione è complicata: Il PIL spagnolo sta cadendo il triplo rispetto alle previsioni dell'esecutivo, il deficit paradossalmente nonostante i tagli brutali della spesa pubblica attuati dalla destra è rimasto sui livelli del governo di Zapatero, il debito pubblico pare raggiungere presto "livelli italiani", la disoccupazione aumenta ogni giorno senza che i benefici millantati della riforma del lavoro ultra-liberista si manifestino, la pressione fiscale invece di ridursi grazie ai tagli di spesa come prometteva in campagna elettorale Rajoy è aumentata vertiginosamente, gli scandali travolgono il partito di governo e la Famiglia Reale (da sempre popolarmente associata molto al centro-destra), le manifestazioni di dissenso spesso contornate da tafferugli sono all'ordine del giorno.
Persino a livello demografico la Spagna che si era configurata come uno dei Paesi con maggior attrazione di immigrati, registra negli ultimi due anni un saldo migratorio negativo tale da provocare nel 2013 per la prima volta da svariati decenni una riduzione della popolazione, (soprattutto se ne stanno andando stranieri che hanno perso il lavoro e rinunciano a cercar fortuna in Spagna, ma anche molti giovani spagnoli senza prospettive).
In questo contesto Rajoy s'accinge in queste ore a varare nuovi tagli, ma sta insistendo con forza per un braccio di ferro con l'Unione Europea per introdurre politiche di crescita e di sostegno all'occupazione. Insomma non può permettersi ulteriore calo di consensi.
E qualcosa dall'UE sembra stia già ottenendo (secondo l'articolo linkato sopra, si tratterebbe di un leggero rilassamento della soglia richiesta da Bruxelles al deficit spagnolo e della concessione di due anni anziché uno per raggiungerla).
Secondo El Pais, pare che il vento in Europa stia finalmente cambiando, che la linea del rigore stia vacillando, che si notano già le prime aperture in più sedi istituzionali europee ed internazionali, e per questo dalla Spagna chiedono all'Italia: "fate un governo, qualsiasi esso sia, ma venite presto con noi a lottare contro l'austerità, ora è il momento!".
Ce la faremo?
Intanto la Catalogna tira fuori dal cilindro una misura interessante: si tassano duramente le seconde case (e ovviamente anche terze, quarte eccetera) che rimangono sfitte, per ottenere due potenziali benefici: riscuotere qualche soldo in più e/o spingere i proprietari delle case a darle in affitto, magari anche abbassandone il prezzo.
Servirà a qualcosa?
24 aprile 2013
Buontempo
E' morto a 67 anni Teodoro Buontempo, detto er pecora, esponente della destra (neo)fascista romana.
Ce lo ricorderemo, forse, per aver parlato di signoraggio in Parlamento. Qualcuno forse dirà che è stato vittima del signoraggio. Per me l'Italia senza personaggi come Buontempo è, semplicemente, meno stupida.
Ce lo ricorderemo, forse, per aver parlato di signoraggio in Parlamento. Qualcuno forse dirà che è stato vittima del signoraggio. Per me l'Italia senza personaggi come Buontempo è, semplicemente, meno stupida.
23 aprile 2013
La coreografia sponsorizzata
Domenica sera nei minuti precedenti Juventus-Milan i tifosi allo stadio hanno sventolato le solite bandierine messe a disposizione dalla squadra di casa dando vita alla coreografia che vedete nella foto (potete ingrandirla cliccandoci sopra).
Una coreografia e una scritta strane. Invece del solito inneggiare alla squadra, si vedeva un arcobaleno e sullo sfondo una bandiera bianconera.
Sopra la scritta un pò misteriosa "sei anche tu parte dell'arcobaleno".
Il calcio c'entrava davvero poco. Insieme alla bandierina, i tifosi hanno trovato un avviso che diceva più o meno: potresti entrare a far parte di uno spot della Telecom, che in questi giorni sta mandando in onda in tv pubblicità che mostrano un arcobaleno formato da persone che cantano e ballano.
Insomma il tifoso non solo paga il biglietto, ma si trova pure a lavorare, volente o meno, per conto della società che cede i diritti d'immagine a Telecom perché ne faccia uno spot televisivo.
Si potrebbe obiettare che non c'è niente di strano: in fin dei conti le immagini dei tifosi rientrano tra quelle trasmesse e comprate dalle tv che finanziano il calcio. Ma non era forse mai successo che i tifosi creassero una coreografia capace di diventare uno spot televisivo. E' lecito? E' moralmente accettabile?
Speriamo almeno che i soldi incassati siano molti e servano a rafforzare la squadra...
Una coreografia e una scritta strane. Invece del solito inneggiare alla squadra, si vedeva un arcobaleno e sullo sfondo una bandiera bianconera.
Sopra la scritta un pò misteriosa "sei anche tu parte dell'arcobaleno".
Il calcio c'entrava davvero poco. Insieme alla bandierina, i tifosi hanno trovato un avviso che diceva più o meno: potresti entrare a far parte di uno spot della Telecom, che in questi giorni sta mandando in onda in tv pubblicità che mostrano un arcobaleno formato da persone che cantano e ballano.
Insomma il tifoso non solo paga il biglietto, ma si trova pure a lavorare, volente o meno, per conto della società che cede i diritti d'immagine a Telecom perché ne faccia uno spot televisivo.
Si potrebbe obiettare che non c'è niente di strano: in fin dei conti le immagini dei tifosi rientrano tra quelle trasmesse e comprate dalle tv che finanziano il calcio. Ma non era forse mai successo che i tifosi creassero una coreografia capace di diventare uno spot televisivo. E' lecito? E' moralmente accettabile?
Speriamo almeno che i soldi incassati siano molti e servano a rafforzare la squadra...
22 aprile 2013
Lo spread e Beppe Grillo
Due mesi fa l'incertezza uscita dalle urne aveva portato a un rialzo, costoso per le casse pubbliche, dello spread. Ne avevo scritto qui.
La rielezione di Napolitano con la (quasi) certezza di un governo senza il Movimento 5 Stelle sta producendo l'effetto opposto: borse in risalita (quasi 4% tra venerdì e oggi) e spread che in questo momento si attesta a 283, come prima delle elezioni.
Ai mercati non interessano le sparate di Grillo, le promesse di ricette miracolose. Interessa qualcosa di concreto e subito: meglio un Napolitano oggi che un governo di giovani di dubbia qualità domani.
20 aprile 2013
Comprare Bankitalia?
Chi ha letto qualcosa sul tema del signoraggio sa che i signoraggisti accusano Bankitalia di essere una società privata, in quanto le quote che ne rappresentano il capitale sono in mano a banche ormai private.
Non torno sull'argomento, rimandando gli interessati a questo pdf sul tema del capitale della Banca, ma invece mi domando: si potrebbero far acquistare allo stato la proprietà di Bankitalia?
Sì, se ci sono i soldi. Gli azionisti non hanno alcun potere e lo Stato potrebbe obbligarli a vendere le loro quote, fissando il prezzo.
Quanto vale Bankitalia? Una cifra tra 1,6 e 22,2 miliardi di euro.
Il bilancio dice oltre 22 miliardi, calcolati considerando il valore di capitale e riserve. 1,6 miliardi invece considerando il flusso dei profitti versati agli azionisti.
In mezzo c'è la valutazione data da BNL nel 1994. La banca, allora proprietà dello stato, valutò ciascuna quota l'equivalente di 13.800 euro che, tenuto conto della rivalutazione per l'inflazione, significa che Bankitalia varrebbe oltre 6,3 miliardi di euro.
La vendita delle quote da parte degli attuali detentori e l'acquisto da parte dello stato era stata prevista negli scorsi anni. Non s'è mai realizzata, anche perchè dove si sarebbero trovati i soldi?
Alberto Quadrio Curzio con Fulvio Coltorti sul Sole 24 Ore ipotizza un piano che chiama Bankoro. La Banca d'Italia dovrebbe trasferire il proprio oro ad un'entità controllata. Le riserve da rivalutazione auree a quel punto sarebbero assoggettate ad Ires. , aliquota del 27,5%).
Con i quasi 20 miliardi incassati, lo Stato dovrebbe ricapitalizzare la Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe acquistare le quote della Banca d'Italia in mano alle banche.
In tal modo le banche italiane incasserebbero un bel tesoretto, 19-20 miliardi da usare per ricapitalizzarsi e quindi concedere prestiti.
E' un'ipotesi, una strada che indica una necessità. Strada difficile peraltro da percorrere perchè sono tanti gli ostacoli giuridici.
Non torno sull'argomento, rimandando gli interessati a questo pdf sul tema del capitale della Banca, ma invece mi domando: si potrebbero far acquistare allo stato la proprietà di Bankitalia?
Sì, se ci sono i soldi. Gli azionisti non hanno alcun potere e lo Stato potrebbe obbligarli a vendere le loro quote, fissando il prezzo.
Quanto vale Bankitalia? Una cifra tra 1,6 e 22,2 miliardi di euro.
Il bilancio dice oltre 22 miliardi, calcolati considerando il valore di capitale e riserve. 1,6 miliardi invece considerando il flusso dei profitti versati agli azionisti.
In mezzo c'è la valutazione data da BNL nel 1994. La banca, allora proprietà dello stato, valutò ciascuna quota l'equivalente di 13.800 euro che, tenuto conto della rivalutazione per l'inflazione, significa che Bankitalia varrebbe oltre 6,3 miliardi di euro.
La vendita delle quote da parte degli attuali detentori e l'acquisto da parte dello stato era stata prevista negli scorsi anni. Non s'è mai realizzata, anche perchè dove si sarebbero trovati i soldi?
Alberto Quadrio Curzio con Fulvio Coltorti sul Sole 24 Ore ipotizza un piano che chiama Bankoro. La Banca d'Italia dovrebbe trasferire il proprio oro ad un'entità controllata. Le riserve da rivalutazione auree a quel punto sarebbero assoggettate ad Ires. , aliquota del 27,5%).
Con i quasi 20 miliardi incassati, lo Stato dovrebbe ricapitalizzare la Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe acquistare le quote della Banca d'Italia in mano alle banche.
In tal modo le banche italiane incasserebbero un bel tesoretto, 19-20 miliardi da usare per ricapitalizzarsi e quindi concedere prestiti.
E' un'ipotesi, una strada che indica una necessità. Strada difficile peraltro da percorrere perchè sono tanti gli ostacoli giuridici.
17 aprile 2013
San Raffaele e la miopia della democrazia
L'Ospedale San Raffaele è un importante ospedale privato milanese che da tempo fa i conti con un eccesso di debiti, eredità della gestione del fondatore, don Verzè.
Nell'estate 2011 si sono scoperti gli ingenti debiti e l'ospedale, per il tramite del tribunale fallimentare, è stato comprato da Rotelli, imprenditore sanitario proprietario di numerose cliniche.
Per rimettere in sesto i conti dell'ospedale, la nuova proprietà ha deciso di tagliare i costi, proponendo ai sindacati tagli agli stipendi in cambio del mantenimento dei posti di lavoro. I sindacati hanno accettato, ma il 55% dei lavoratori, chiamati a votare un referendum ha bocciato la proposta.
Così a distanza di quasi tre mesi, sono scattati i primi licenziamenti, con tanto di proteste e tafferugli.
La democrazia, mescolata a una buona dose di egoismo o forse di voglia di illudersi che i problemi si risolvano come per miracolo, sta portando al licenziamento di 2-300 persone, alcune delle quali spiegano oggi che hanno votato contro l'accordo tra proprietà e sindacati e si dicono convinte di aver fatto la scelta giusta.
Nell'estate 2011 si sono scoperti gli ingenti debiti e l'ospedale, per il tramite del tribunale fallimentare, è stato comprato da Rotelli, imprenditore sanitario proprietario di numerose cliniche.
Per rimettere in sesto i conti dell'ospedale, la nuova proprietà ha deciso di tagliare i costi, proponendo ai sindacati tagli agli stipendi in cambio del mantenimento dei posti di lavoro. I sindacati hanno accettato, ma il 55% dei lavoratori, chiamati a votare un referendum ha bocciato la proposta.
Così a distanza di quasi tre mesi, sono scattati i primi licenziamenti, con tanto di proteste e tafferugli.
La democrazia, mescolata a una buona dose di egoismo o forse di voglia di illudersi che i problemi si risolvano come per miracolo, sta portando al licenziamento di 2-300 persone, alcune delle quali spiegano oggi che hanno votato contro l'accordo tra proprietà e sindacati e si dicono convinte di aver fatto la scelta giusta.
15 aprile 2013
Essere indietro senza saperlo
Dal 1° gennaio 2013 in Danimarca è vietato installare nei nuovi edifici caldaie che usino combustibili fossili come i derivati del petrolio o il metano: devono usare solo sistemi rinnovabili come le pompe di calore o il combustibile prodotto da biomasse.
L'obiettivo, a dire il vero molto ambizioso, è di trasformare entro il 2050 la Danimarca in un paese indipendente dai combustibili fossili, iniziando da subito con gli edifici nuovi. Col passare del tempo anche i nuovi edifici dovranno adattarsi alle nuove regole.
La scelta danese promette di fare un gran bene all'economia. Perché costringendo i danesi a adottare tecnologie differenti, vale a dire creando una domanda, costringerà i produttori danesi a adottare le tecnologie più avanzate in tema di risparmio energetico e fonti rinnovabili.
Quando altri paesi adotteranno gli stessi standard, i loro produttori dovranno recuperare il ritardo tecnologico, pagheranno per usare brevetti altrui, soccomberanno di fronte a prodotti più competitivi.
Insomma, siamo indietro e non lo sappiamo. Non abbiamo coraggio, difendiamo l'esistente e non ci accorgiamo che altri spingono le loro auto a imboccare la corsia di sorpasso.
Attenzione: non stanno comodi dietro una scrivania a discutere di merito, aspettandosi che i migliori prevalgano in un sistema in cui ciascuno fa quel che vuole. No, li obbligano a dare il meglio di sé modificando la domanda e quindi l'offerta.
L'obiettivo, a dire il vero molto ambizioso, è di trasformare entro il 2050 la Danimarca in un paese indipendente dai combustibili fossili, iniziando da subito con gli edifici nuovi. Col passare del tempo anche i nuovi edifici dovranno adattarsi alle nuove regole.
La scelta danese promette di fare un gran bene all'economia. Perché costringendo i danesi a adottare tecnologie differenti, vale a dire creando una domanda, costringerà i produttori danesi a adottare le tecnologie più avanzate in tema di risparmio energetico e fonti rinnovabili.
Quando altri paesi adotteranno gli stessi standard, i loro produttori dovranno recuperare il ritardo tecnologico, pagheranno per usare brevetti altrui, soccomberanno di fronte a prodotti più competitivi.
Insomma, siamo indietro e non lo sappiamo. Non abbiamo coraggio, difendiamo l'esistente e non ci accorgiamo che altri spingono le loro auto a imboccare la corsia di sorpasso.
Attenzione: non stanno comodi dietro una scrivania a discutere di merito, aspettandosi che i migliori prevalgano in un sistema in cui ciascuno fa quel che vuole. No, li obbligano a dare il meglio di sé modificando la domanda e quindi l'offerta.
13 aprile 2013
Ancora sulla Thatcher
Ecco l'opinione su sbilanciamoci.info di Claudio Gnesutta, professore di Economia alla Sapienza di Roma:
Come noto, gli anni Settanta sono contrassegnati,
anche nel Regno Unito, da profonde tensioni economiche e sociali. Il
modello economico che fino ad allora aveva garantito la diffusione del
benessere in ampi strati della popolazione, è messo in discussione dal
quadro competitivo internazionale che richiede una ristrutturazione
industriale costosa sul piano sociale in un contesto di forte incertezza
generata dalle tensioni inflazionistiche dovute alla crisi petrolifera e
a quella del dollaro con conseguenti svalutazioni competitive, crescita
dei deficit pubblici e cadute dei redditi reali.
Con la vittoria del partito Conservatore nel 1979, il governo dalla sig.ra Thatcher porta un radicale mutamento nella strategia di politica economica, un Right Approach di netta contrapposizione con la politica keynesiana del passato. Il suo riferimento sono le posizioni del monetarismo e della nuova macroeconomia classica che, almeno inizialmente, tenta di applicarle incondizionatamente alla realtà, conquistando con una proposta netta e apparentemente innovativa ampi strati di cittadini che non si ritrovano nell’incerta risposta laburista alla crisi.
La rivoluzione politica della Thatcher (e del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan) modifica profondamente l’orientamento di politica economica in quanto assume come propria linea di fondo il “disimpegno”, ovvero l’arretramento del governo da aree d’intervento e di responsabilità economica che le precedenti amministrazioni avevano occupato. L’obiettivo immediato è il controllo dell’inflazione tramite politiche monetariste che, con un impatto rapido, riportano sotto controllo l’aumento dei prezzi, senza alcun riguardo alla creazione di disoccupazione che ne deriva. L’obiettivo a più lungo periodo è invece di “restituire la salute alla vita economica e sociale” con “un equo bilancio dei diritti e dei doveri delle unioni sindacali”, in modo da ripristinare gli incentivi a coloro che “tanto duramente” lavorano e che quindi garantiscono la creazione di nuovi posti di lavoro e sostengono la crescita economia.
È l’avvio della politica dal lato dell’offerta: rimozione delle restrizioni all’espansione degli affari; controllo delle spese governative per ridurre l’onere sull’economia; struttura fiscale caratterizzata da una più bassa tassazione per favorire le remunerazioni delle imprese e delle capacità professionali; privatizzazione delle industrie nazionalizzate; abolizione delle restrizioni sul sistema bancario, sulla finanza internazionale; e infine liberalizzazione del mercato del lavoro (l’Employment Act del 1980 diretto a limitare drasticamente lo spazio dell’attività sindacale è il primo atto dell’amministrazione Thatcher).
L’abbandono della funzione di regolatore diretto e indiretto dell’economia da parte dello Stato risulta particolarmente incidente, non solo per le liberalizzazioni e deregolamentazioni interne in campo industriale, ma soprattutto per le relazioni finanziarie internazionali. Sono scelte che trasformano la struttura produttiva del paese; alla deindustrializzazione corrisponde una rapida espansione dell’industria dei servizi in particolare delle attività legate alla finanza nazionale ed internazionale: la City è il modello e il suo principale beneficiario.
Gli effetti di questo “disimpegno” si manifestano da subito sulla distribuzione del reddito e sulla disoccupazione, ma non impensierisce il governo poiché si ritiene sia giustificata dalla necessità di stimolare l’imprenditorialità e la ristrutturazione dell'apparato produttivo, e delle connesse relazioni sociali, nella ricerca di una maggiore “efficienza” produttiva che non si ritiene raggiungibile senza una severa “disciplina” interna: la reintegrazione degli incentivi economici è più importante dell’uguaglianza. L’obiettivo è una società di hard-worker indotti a diventare wealth-owner – proprietari di casa sostenuti da un mercato dei mutui liberalizzato e assicurati nei confronti del futuro da contratti finanziari privati – per costituire in prospettiva il solido supporto alla visione e alla politica conservatrice della società.
Viene proposta e accettata la visione di una società fondata sul superamento delle istituzioni del welfare e del potere di contrattazione sindacale e quindi su un sistema di relazioni sociali che trovano nell’interesse del capitale privato la condizione di progresso per tutti. La concezione del ruolo del settore pubblico che orienta Margaret Thatcher è ben riassunta dalla sua affermazione che “There is no such thing as society”: “non esiste una cosa come la società. C'è solo l'individuo e la sua famiglia” nella convinzione che l’unica realtà istituzionale in grado di garantire il progresso civile sia quella fondata su strutture di mercato.
Il progetto Thatcher non è quindi solo un nuovo orientamento di politica economica, ma rappresenta anche una nuova proposta di aggregazione sociale intorno a un nuovo modo di sviluppo. Costruire una società più flessibile implica dover restringere i costi pubblici a una più ristretta cerchia di popolazione. Si assiste quindi a un lungo processo di riforma dello stato sociale (sanità e istruzione in primis) con l’obiettivo di sostituire la logica sociale con quella di mercato riportando a livello individuale il rapporto tra prestazioni e contributi e, per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione, condizionarli a politiche di welfare to work per evitare nei beneficiari atteggiamenti di scarsa disponibilità nella ricerca di nuovo impiego. Una politica sociale che spiega la deriva verso una società più diseguale, un lavoro più precario, una povertà più diffusa in presenza di una crescita dei redditi e dei consumi particolarmente veloce per coloro che operano nella finanza o comunque nelle posizioni economiche più elevate.
La visione risulta vincente (non solo nel Regno Unito) in quanto diventa “senso comune” che le forze di mercato sono un elemento “naturale” della vita quotidiana e i suoi esiti non sono quindi suscettibili né di riflessione critica né di considerazioni morali, etiche e politiche. Non vi è pertanto alcuna alternativa possibile a un capitalismo di mercato: l’“economia” viene rimossa dalla sfera della contestazione politico-ideologica. È l’affermazione forte che “There Is No Alternative”, che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla “fine della storia”.
Ma è proprio questa visione escatologica che non ha tenuto. L’ipertrofia del settore finanziario, la speculazione finanziaria, la crisi produttiva occupazionale, le forti disuguaglianze, la precarietà di larghi strati sociali segnalano tutti che questa visione politica genera instabilità e insicurezza. Nell’accettazione di questa prospettiva ha giocato indubbiamente anche l’“acquiescenza” della classe politica, sia di centro-destra che di centro-sinistra, anglosassone, europea e latinoamericana per aver introiettato i “valori” di questa “nuova-vecchia” visione del mondo, almeno fin quando non è risultato evidente il suo fallimento. La pressione per la sua accettazione non è stata solo culturale, se si ha presente la politica estera degli Stati Uniti nei confronti dei paesi più renitenti ad accettarla (i drammi dell’America Latina dell’ultimo quarto del secolo scorso lo testimoniano) e il ruolo svolto dalle istituzioni internazionali (in particolare Fondo monetario e Banca mondiale) nell’imporla, quale unica soluzione alle difficoltà economiche. Essa ha investito in una progressione crescente i paesi meno sviluppati, l’area asiatica e ora l’Europa, dove una reiterata politica di offerta nella forma di politica di austerità sta accentuando l’instabilità economica e sociale prodotta da quei mercati finanziari anglosassoni che tanto si sono avvantaggiati delle politiche di deregolamentazione benevolmente avviate in epoca thatcheriana.
L’eredità della Thatcher sta tutta nella pericolosa instabilità economica e sociale che stiamo vivendo, a fronte della quale i suoi nipotini ancora al governo non sembrano disporre di idee e strumenti per una soluzione. Non rimane che augurarci come Keynes: che quanto prima i nostri statisti siano capaci di abbandonare un “libro della saggezza (che) si basa su teorie vere un tempo, in tutto o in parte, ma che diventano di giorno in giorno meno vere”.
Con la vittoria del partito Conservatore nel 1979, il governo dalla sig.ra Thatcher porta un radicale mutamento nella strategia di politica economica, un Right Approach di netta contrapposizione con la politica keynesiana del passato. Il suo riferimento sono le posizioni del monetarismo e della nuova macroeconomia classica che, almeno inizialmente, tenta di applicarle incondizionatamente alla realtà, conquistando con una proposta netta e apparentemente innovativa ampi strati di cittadini che non si ritrovano nell’incerta risposta laburista alla crisi.
La rivoluzione politica della Thatcher (e del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan) modifica profondamente l’orientamento di politica economica in quanto assume come propria linea di fondo il “disimpegno”, ovvero l’arretramento del governo da aree d’intervento e di responsabilità economica che le precedenti amministrazioni avevano occupato. L’obiettivo immediato è il controllo dell’inflazione tramite politiche monetariste che, con un impatto rapido, riportano sotto controllo l’aumento dei prezzi, senza alcun riguardo alla creazione di disoccupazione che ne deriva. L’obiettivo a più lungo periodo è invece di “restituire la salute alla vita economica e sociale” con “un equo bilancio dei diritti e dei doveri delle unioni sindacali”, in modo da ripristinare gli incentivi a coloro che “tanto duramente” lavorano e che quindi garantiscono la creazione di nuovi posti di lavoro e sostengono la crescita economia.
È l’avvio della politica dal lato dell’offerta: rimozione delle restrizioni all’espansione degli affari; controllo delle spese governative per ridurre l’onere sull’economia; struttura fiscale caratterizzata da una più bassa tassazione per favorire le remunerazioni delle imprese e delle capacità professionali; privatizzazione delle industrie nazionalizzate; abolizione delle restrizioni sul sistema bancario, sulla finanza internazionale; e infine liberalizzazione del mercato del lavoro (l’Employment Act del 1980 diretto a limitare drasticamente lo spazio dell’attività sindacale è il primo atto dell’amministrazione Thatcher).
L’abbandono della funzione di regolatore diretto e indiretto dell’economia da parte dello Stato risulta particolarmente incidente, non solo per le liberalizzazioni e deregolamentazioni interne in campo industriale, ma soprattutto per le relazioni finanziarie internazionali. Sono scelte che trasformano la struttura produttiva del paese; alla deindustrializzazione corrisponde una rapida espansione dell’industria dei servizi in particolare delle attività legate alla finanza nazionale ed internazionale: la City è il modello e il suo principale beneficiario.
Gli effetti di questo “disimpegno” si manifestano da subito sulla distribuzione del reddito e sulla disoccupazione, ma non impensierisce il governo poiché si ritiene sia giustificata dalla necessità di stimolare l’imprenditorialità e la ristrutturazione dell'apparato produttivo, e delle connesse relazioni sociali, nella ricerca di una maggiore “efficienza” produttiva che non si ritiene raggiungibile senza una severa “disciplina” interna: la reintegrazione degli incentivi economici è più importante dell’uguaglianza. L’obiettivo è una società di hard-worker indotti a diventare wealth-owner – proprietari di casa sostenuti da un mercato dei mutui liberalizzato e assicurati nei confronti del futuro da contratti finanziari privati – per costituire in prospettiva il solido supporto alla visione e alla politica conservatrice della società.
Viene proposta e accettata la visione di una società fondata sul superamento delle istituzioni del welfare e del potere di contrattazione sindacale e quindi su un sistema di relazioni sociali che trovano nell’interesse del capitale privato la condizione di progresso per tutti. La concezione del ruolo del settore pubblico che orienta Margaret Thatcher è ben riassunta dalla sua affermazione che “There is no such thing as society”: “non esiste una cosa come la società. C'è solo l'individuo e la sua famiglia” nella convinzione che l’unica realtà istituzionale in grado di garantire il progresso civile sia quella fondata su strutture di mercato.
Il progetto Thatcher non è quindi solo un nuovo orientamento di politica economica, ma rappresenta anche una nuova proposta di aggregazione sociale intorno a un nuovo modo di sviluppo. Costruire una società più flessibile implica dover restringere i costi pubblici a una più ristretta cerchia di popolazione. Si assiste quindi a un lungo processo di riforma dello stato sociale (sanità e istruzione in primis) con l’obiettivo di sostituire la logica sociale con quella di mercato riportando a livello individuale il rapporto tra prestazioni e contributi e, per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione, condizionarli a politiche di welfare to work per evitare nei beneficiari atteggiamenti di scarsa disponibilità nella ricerca di nuovo impiego. Una politica sociale che spiega la deriva verso una società più diseguale, un lavoro più precario, una povertà più diffusa in presenza di una crescita dei redditi e dei consumi particolarmente veloce per coloro che operano nella finanza o comunque nelle posizioni economiche più elevate.
La visione risulta vincente (non solo nel Regno Unito) in quanto diventa “senso comune” che le forze di mercato sono un elemento “naturale” della vita quotidiana e i suoi esiti non sono quindi suscettibili né di riflessione critica né di considerazioni morali, etiche e politiche. Non vi è pertanto alcuna alternativa possibile a un capitalismo di mercato: l’“economia” viene rimossa dalla sfera della contestazione politico-ideologica. È l’affermazione forte che “There Is No Alternative”, che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla “fine della storia”.
Ma è proprio questa visione escatologica che non ha tenuto. L’ipertrofia del settore finanziario, la speculazione finanziaria, la crisi produttiva occupazionale, le forti disuguaglianze, la precarietà di larghi strati sociali segnalano tutti che questa visione politica genera instabilità e insicurezza. Nell’accettazione di questa prospettiva ha giocato indubbiamente anche l’“acquiescenza” della classe politica, sia di centro-destra che di centro-sinistra, anglosassone, europea e latinoamericana per aver introiettato i “valori” di questa “nuova-vecchia” visione del mondo, almeno fin quando non è risultato evidente il suo fallimento. La pressione per la sua accettazione non è stata solo culturale, se si ha presente la politica estera degli Stati Uniti nei confronti dei paesi più renitenti ad accettarla (i drammi dell’America Latina dell’ultimo quarto del secolo scorso lo testimoniano) e il ruolo svolto dalle istituzioni internazionali (in particolare Fondo monetario e Banca mondiale) nell’imporla, quale unica soluzione alle difficoltà economiche. Essa ha investito in una progressione crescente i paesi meno sviluppati, l’area asiatica e ora l’Europa, dove una reiterata politica di offerta nella forma di politica di austerità sta accentuando l’instabilità economica e sociale prodotta da quei mercati finanziari anglosassoni che tanto si sono avvantaggiati delle politiche di deregolamentazione benevolmente avviate in epoca thatcheriana.
L’eredità della Thatcher sta tutta nella pericolosa instabilità economica e sociale che stiamo vivendo, a fronte della quale i suoi nipotini ancora al governo non sembrano disporre di idee e strumenti per una soluzione. Non rimane che augurarci come Keynes: che quanto prima i nostri statisti siano capaci di abbandonare un “libro della saggezza (che) si basa su teorie vere un tempo, in tutto o in parte, ma che diventano di giorno in giorno meno vere”.
11 aprile 2013
Lo spread che scende nella tempesta
Nonostante dall'economia reale giungano notizie negative, lo spread sta scendendo.
Oggi è variato tra 295 e 301, valori sorprendenti se rapportati a una situazione economica difficile. Come si spiega?
Il "merito" è dell'euro. Giappone e Stati Uniti stanno inondando i mercati con i loro yen e dollari. Ce ne sono tanti in circolazione e per questo motivo si svalutano rispetto all'euro.
E' conveniente acquistare titoli in euro perchè l'euro si rivaluterà. Così lo spread diminuisce, anche se le condizioni economiche non sono proprio positive.
Oggi è variato tra 295 e 301, valori sorprendenti se rapportati a una situazione economica difficile. Come si spiega?
Il "merito" è dell'euro. Giappone e Stati Uniti stanno inondando i mercati con i loro yen e dollari. Ce ne sono tanti in circolazione e per questo motivo si svalutano rispetto all'euro.
E' conveniente acquistare titoli in euro perchè l'euro si rivaluterà. Così lo spread diminuisce, anche se le condizioni economiche non sono proprio positive.
10 aprile 2013
Un effetto collaterale di una società diseguale
Se chiedete a un liberista come dovrebbe funzionare l'università, vi risponderà che deve essere privata e meritocratica, con borse di studio destinate a chi ottiene buoni risultati ma non si può permettere di pagare i costi elevati di un'università interamente finanziata dagli studenti.
Ma funziona una scuola meritocratica?
Forse non come vorremmo. Ce lo spiega una ricerca OCSE (vedi qui) che mette in dubbio la capacità degli insegnanti di trattare allo stesso tutti gli studenti.
L'OCSE ha analizzato i risultati dei test a cui si sottopongono gli studenti e li ha confrontati con i voti ottenuti dagli stessi studenti, scoprendo che gli insegnati sono più generosi con le studentesse e con chi appartiene ai ceti alti.
Dunque se applicassimo la regola cara ai liberisti, chi appartiene a classi meno agiate sarebbe svantaggiato due volte: perchè meno abbiente e perchè gli insegnanti italiani sono più generosi verso il figlio dei cittadini più abbienti.
08 aprile 2013
Margaret Thatcher
E' morta Margaret Thatcher, lady di ferro, leader della destra conservatrice, nazionalista e antieuropeista britannica.
A lei si devono non solo molti morti e sofferenze di ogni genere, ma anche il liberismo estremo e la finanziarizzazione dell'economia che tanti danni ha provocato negli ultimi anni, come ci ricorda Romano Prodi intervistato da Repubblica (vedi qui).
Mrs Thatcher si pentì di essere entrata in politica per gli effetti negativi della politica sulla sua vita famigliare. Chissà se si sarà pentita pure delle sue scelte, per gli effetti che hanno avuto su milioni (a essere ottimisti) di persone nel mondo....
06 aprile 2013
Costo del lavoro e disuguaglianza
E' opinione diffusa che in Italia imposte e costo del lavoro siano troppo elevati, e che ciò causi una minore crescita del PIL italiano perchè i nostri prodotti sarebbero meno competitivi.
Un primo dubbio su questa visione nasce da una considerazione banale: gran parte dei è destinato al mercato interno e solo una parte della produzione va all'estero, dove risente della competitività dei paesi stranieri.
Inoltre negli ultimi anni sono state le imprese esportatrici a far registrare i risultati migliori, anche se le imprese italiane sono (o, meglio, sarebbero) meno competitive a causa di maggiori imposte e di un maggior costo del lavoro.
Ma cosa dicono i dati?
Secondo l'istituto di statistica tedesco Destatis (vedi qui) l'Italia non è poi messa tanto male quanto a costo del lavoro, che risulta inferiore a quello di quasi tutti i paesi "ricchi" d'Europa (l'anomalia del Regno Unito si spiega con il cambio euro/sterlina).
Il nostro costo del lavoro medio è inferiore a quello dei paesi dell'Europa settentrionale dove si pagano aliquote d'imposta molto elevate.
La Svezia in particolare, è il paese con le imposte e il costo del lavoro tra i più elevati...ma non per questo è un paese povero o in declino.
Questo perchè producono beni da paese "ricco", cioè beni a alto valore aggiunto, al contrario dell'Italia che così si trova a fare i conti con la concorrenza dei paesi dell'est Europa perchè produce beni che valgono di meno.
Inoltre viene il sospetto (o forse qualcosa in più di un sospetto) che il livello del benessere di un paese dipenda dalla distribuzione delle risorse. Ingrandite e guardate questa immagine: dove il costo del lavoro è più alto, in Europa, le disuguaglianze sono più basse.
Dove si pagano più imposte e queste sono usate per ridurre le disuguaglianze, sia attraverso una redistribuzione del reddito sia tramite l'offerta di servizi che aumentano il "capitale umano", come l'istruzione, l'economia funziona meglio, è più competitiva, ha una domanda più elevata e stabile.
Un primo dubbio su questa visione nasce da una considerazione banale: gran parte dei è destinato al mercato interno e solo una parte della produzione va all'estero, dove risente della competitività dei paesi stranieri.
Inoltre negli ultimi anni sono state le imprese esportatrici a far registrare i risultati migliori, anche se le imprese italiane sono (o, meglio, sarebbero) meno competitive a causa di maggiori imposte e di un maggior costo del lavoro.
Ma cosa dicono i dati?
Secondo l'istituto di statistica tedesco Destatis (vedi qui) l'Italia non è poi messa tanto male quanto a costo del lavoro, che risulta inferiore a quello di quasi tutti i paesi "ricchi" d'Europa (l'anomalia del Regno Unito si spiega con il cambio euro/sterlina).
Il nostro costo del lavoro medio è inferiore a quello dei paesi dell'Europa settentrionale dove si pagano aliquote d'imposta molto elevate.
La Svezia in particolare, è il paese con le imposte e il costo del lavoro tra i più elevati...ma non per questo è un paese povero o in declino.
Questo perchè producono beni da paese "ricco", cioè beni a alto valore aggiunto, al contrario dell'Italia che così si trova a fare i conti con la concorrenza dei paesi dell'est Europa perchè produce beni che valgono di meno.
Inoltre viene il sospetto (o forse qualcosa in più di un sospetto) che il livello del benessere di un paese dipenda dalla distribuzione delle risorse. Ingrandite e guardate questa immagine: dove il costo del lavoro è più alto, in Europa, le disuguaglianze sono più basse.
Dove si pagano più imposte e queste sono usate per ridurre le disuguaglianze, sia attraverso una redistribuzione del reddito sia tramite l'offerta di servizi che aumentano il "capitale umano", come l'istruzione, l'economia funziona meglio, è più competitiva, ha una domanda più elevata e stabile.
04 aprile 2013
"Borbonopoli"
Continuano gli scandali che uno dopo l'altro toccano più o meno direttamente la "Casa Real" che, in un momento di perdita generale di fiducia del popolo nelle istituzioni, rischiano di creare quasi una certa crisi di legittimità della monarchia spagnola, a tal punto che l'attuale Re Juan Carlos I de Borbòn, ininterrottamente Capo dello Stato spagnolo dal lontano 1975, secondo alcune indiscrezioni starebbe pensando di abdicare.
Significativo il commento del noto repubblicano Juan Lopez de Uralde (leader di Equo, i Verdi spagnoli, che qui sono ancora in Parlamento), che nell'intervista si strofina le mani ed invoca l'arrivo ormai prossimo della "data di scadenza della monarchia", e dell'avvicinarsi della sua tanto desiderata III° Repubblica.
In realtà, seppur sia verosimile che il consenso popolare verso la famiglia reale, (da sempre stata al centro di molte polemiche), sia ai minimi storici, il sistema monarchico è fortemente protetto dalla Costituzione del '78.
Entrando brevemente nello specifico dell'ultimo scandalo: Iñaki Urdangarin, Duca di Palma, ex-genero del Re, (la principessa Cristina corse ai ripari divorziando non appena fu reso pubblico lo scandalo) e soprattutto suo ex-uomo di fiducia, membro importantissimo della famiglia reale che amministrava e rappresentava tante fondazioni legate ad essa, fu accusato l'anno scorso di corruzione e d'acquisizione illecita di fondi pubblici.
Finora tutta la vicenda giudiziaria era ricaduta solo di lui e qualche altro suo socio. La Corona infatti ha cercato in tutti i modi di smarcarsi da Urdagarin e fingere di non sapere nulla delle sue malefatte.
Tesi che per vari motivi non ha mai convinto i pm che hanno continuato ad indagare fino ad arrivare alla svolta di questi giorni: si scoprono delle email che inchioderebbero la Principessa Cristina, che viene immediatamente anch'essa imputata.
Nel frattempo suo padre "non commenta le decisioni del potere giudiziario" e riflette sull'opportunità d'abdicare, decisione forte e che, tra l'altro, permetterebbe di venire imputato eventualmente (qualora ce ne fossero ovviamente gli estremi) anche lui stesso, come vorrebbero alcuni che lo sospettano "collaboratore necessario" di Urdagarin.
La linea di rispettare la magistratura anche quando ti colpisce frontalmente non può che far piacere ad un osservatore italiano. Sinceramente, temo che nel mio Paese temo si sarebbe gridato al "golpe repubblicano".
E da buon osservatore italiano ho pensato di ribattezzare la vicenda "borbonopoli", ("scandalo Nòos" per la stampa spagnola).
Questo comunque è solo l'ultimo di una lunga serie di episodi negativi che coinvolgono i Borboni, alcuni più direttamente il Re stesso, (come conti milionari in banche svizzere legati a Juan Carlos e a suo padre, battute di caccia d'elefanti in Botsuana ogni anno pagate con soldi pubblici, probabili pressioni esercitate su di una exministro del PSOE, ed un lungo eccetera). Vari altri episodi, che gettano ombre sull'immagine dei Borboni e sulla legittimità del loro Regno.
Ma dal punto di vista prettamente economico la mia domanda è questa:
Premettendo che gli scandali avvengono sia nelle repubbliche che nelle monarchie (e noi italiani questo lo sappiamo bene), però può essere per caso che in un sistema in cui una famiglia che solo per discendenza, senza alcun motivo meritocratico, si trovi eternamente ai vertici delle istituzioni di un Paese, ed in cui una singola persona (di nuovo non per meritocrazia), stia decenni sempre ai vertici di questa famiglia; inevitabilmente prima o poi rischia d'entrare in giochi di palazzo, "inciuci" finanziati con soldi pubblici, e cattiva gestione economica degli enti da loro amministrati?
Del resto in Spagna proprio per questo motivo il Presidente del Governo ha un limite di due mandati (come vorrebbe Grillo)...Ma il Capo dello Stato??
Insomma la crisi della monarchia spagnola in qualche modo fa riflettere, a mio avviso, sull'idea di limitare la permanenza dei personaggi politici ed istituzionali sulle loro poltrone, anche da un punto di vista economico.
E pensare che con tutti i problemi che ha il Mezzogiorno in Italia, c'è chi rivorrebbe perfino i Borboni...
(nella foto "Sua Maestà" con il principale imputato Urdagarin).
03 aprile 2013
I debiti della pubblica amministrazione
Mi limito a segnalare questo ottimo articolo che dice tutto e spazza via molta della demagogia e delle sciocchezze dette ultimamente sull'argomento:
buona lettura a tutti!
buona lettura a tutti!
02 aprile 2013
Sogno di un bambino, affari di un adulto
Uno dei motivi che spesso vengono indicati dell'enorme successo del calcio spagnolo e de "La Roja" la Nazionale guidata dal 2008 da Vicente Del Bosque conquistando un successo dopo l'altro, è il forte investimento sulle giovani promesse e sui settori giovanili in generale.
Uno dei club spagnoli presi a modello per le sue capacità di coltivare talenti è sempre stato senza dubbio il Barcellona. Pochi sanno però dei trucchi economici utilizzati al rispetto dal club spagnolo.
Una sentenza appena raccontata su El Pais adesso rischia di far saltare il metodo di lavoro della società catalana con i giovani.
Infatti pare che approfittando del proprio prestigio il club blaugrana abbia sempre offerto ai genitori dei tesserati minori di 16 anni contratti che blindano i possibili futuri talenti. In pratica pagano alla famiglia gli studi, l'alloggio e gli versano una "compensazione generale per le spese".
Il tutto a cambio della garanzia che la giovane promessa non possa andarsene in un altro club, pena il pagamento di un risarcimento spesso molto elevato.
Concretamente hanno l'effetto di dei veri e propri pre-contratti di lavoro lunghi anche 10 anni firmati dai genitori del minore.
Metodo finora risultato vincente...Finchè la sentenza della Corte di Cassazione di oggi non ha dichiarato nullo un contratto del genere impugnato dal 2007 da un giocatore catalano Raul Baena (oggi 24enne) a cui la società rossoblu richiedeva la bellezza di oltre 3 milioni d'euro per essere passato dal settore giovanile del Barcellona a quello dell'Espanyol infrangendo il contratto firmato anni fa' dai suoi genitori. Il club catalano dovrà rinunciare completamente a qualsiasi tipo di risarcimento accordato e firmato da chi rappresentava Baena quando aveva 13 anni.
Tali contratti secondo la sentenza violano l'interesse superiore del minore (ovvero il fondamentale principio proclamato nell'ordinamento spagnolo dalla Legge di Protezione dei Minori del '96, che anche a me ribadiscono ad ogni singolo esame sui servizi sociali), ed i genitori che li firmano eccedono nella loro rappresentanza legale.
Una brutta notizia per il "Barca": un precedente che rischia di rivoluzionare la sua politica del settore giovanile del club, abituato a blindare le proprie giovani promesse in cambio di aiuti economici ai genitori.
Uno dei club spagnoli presi a modello per le sue capacità di coltivare talenti è sempre stato senza dubbio il Barcellona. Pochi sanno però dei trucchi economici utilizzati al rispetto dal club spagnolo.
Una sentenza appena raccontata su El Pais adesso rischia di far saltare il metodo di lavoro della società catalana con i giovani.
Infatti pare che approfittando del proprio prestigio il club blaugrana abbia sempre offerto ai genitori dei tesserati minori di 16 anni contratti che blindano i possibili futuri talenti. In pratica pagano alla famiglia gli studi, l'alloggio e gli versano una "compensazione generale per le spese".
Il tutto a cambio della garanzia che la giovane promessa non possa andarsene in un altro club, pena il pagamento di un risarcimento spesso molto elevato.
Concretamente hanno l'effetto di dei veri e propri pre-contratti di lavoro lunghi anche 10 anni firmati dai genitori del minore.
Metodo finora risultato vincente...Finchè la sentenza della Corte di Cassazione di oggi non ha dichiarato nullo un contratto del genere impugnato dal 2007 da un giocatore catalano Raul Baena (oggi 24enne) a cui la società rossoblu richiedeva la bellezza di oltre 3 milioni d'euro per essere passato dal settore giovanile del Barcellona a quello dell'Espanyol infrangendo il contratto firmato anni fa' dai suoi genitori. Il club catalano dovrà rinunciare completamente a qualsiasi tipo di risarcimento accordato e firmato da chi rappresentava Baena quando aveva 13 anni.
Tali contratti secondo la sentenza violano l'interesse superiore del minore (ovvero il fondamentale principio proclamato nell'ordinamento spagnolo dalla Legge di Protezione dei Minori del '96, che anche a me ribadiscono ad ogni singolo esame sui servizi sociali), ed i genitori che li firmano eccedono nella loro rappresentanza legale.
Una brutta notizia per il "Barca": un precedente che rischia di rivoluzionare la sua politica del settore giovanile del club, abituato a blindare le proprie giovani promesse in cambio di aiuti economici ai genitori.
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