Martedì sera come sempre è andato in onda Ballarò, che ha ospitato, tra gli altri, il neo ministro Giuliano Poletti, con un passato nel mondo cooperativo, e Laura Ravetto, politica di Forza Italia.
A un certo punto (esattamente dopo 1 ora e 27 minuti di questo video) Poletti incomincia a sostenere che l'economia si può rilanciare con un aumento dei consumi finanziato da un taglio delle imposte. Laura Ravetto di Forza Italia raggiante approva, spiegando che si tratta del programma di Forza Italia.
Lo stesso concetto era stato espresso da Peter Gomez: meno imposte quindi più soldi nelle tasche degli italiani e più consumi.
Tutti convinti? E' davvero la soluzione?
No, Giacomo Vaciago, il solo tra i presenti a capire davvero qualcosa di economia, spiega come stanno le cose: sarebbe bello, dice Vaciago, se gli italiani spendessero i soldi che gli mettiamo in tasca. In realtà nella situazione attuale del paese, corrono a metterli sotto il materasso.
Dunque se mettiamo più soldi nelle tasche degli italiani non è detto che corrano a spenderli.
Ora, capite in che situazione si trova l'Italia? Due esponenti dei due maggiori partiti e un famoso giornalista ignorano l'abc dell'economia e anzi Gomez contesta Vaciago... Poi ci stupiamo che il Parlamento non sappia risolvere i problemi economici del paese...
28 febbraio 2014
26 febbraio 2014
La spending review di Obama
Qualche mese fa quando sembrava imminente un attacco alla Siria da parte degli USA, spiegai a qualche amico che speravo Obama cambiasse idea. Se non si fanno le guerre, era il mio ragionamento, magari prima o poi ci si convince che è meglio non usare eserciti e armi e si riduce la spesa militare, con benefici per molti, se non per tutti.
Dopo qualche mese arriva la buona notizia: Obama che deve ridurre il deficit e rallentare la velocità di crescita del debito pubblico, ha deciso di tagliare la spesa militare.
Il piano è semplice: oltre 100 mila militari in meno, fino a raggiungere il più basso numero di militari dal decenni, taglio della spesa complessiva del 30%, una portaerei in meno, e altri tagli e razionalizzazioni.
Tagli che possono avere molte conseguenze positive. Anzitutto nell'immediato, con un calo della spesa, necessaria per contenere il deficit pubblico. Poi si salvaguarda il più possibile la spesa sociale, che invece i repubblicani vorrebbero tagliare.
Un altro vantaggio economico si vedrà nel lungo periodo. Un esercito con meno uomini e mezzi farà passare la voglia -si spera- di intervenire ovunque nel mondo. E più pace significa meno spese, se è vero che la disgraziata guerra in Irak costerà 3.000 miliardi di dollari nel corso di qualche decennio, e meno morti, che suscitano sempre insani desideri di vendicarsi attraverso altri conflitti.
Dopo qualche mese arriva la buona notizia: Obama che deve ridurre il deficit e rallentare la velocità di crescita del debito pubblico, ha deciso di tagliare la spesa militare.
Il piano è semplice: oltre 100 mila militari in meno, fino a raggiungere il più basso numero di militari dal decenni, taglio della spesa complessiva del 30%, una portaerei in meno, e altri tagli e razionalizzazioni.
Tagli che possono avere molte conseguenze positive. Anzitutto nell'immediato, con un calo della spesa, necessaria per contenere il deficit pubblico. Poi si salvaguarda il più possibile la spesa sociale, che invece i repubblicani vorrebbero tagliare.
Un altro vantaggio economico si vedrà nel lungo periodo. Un esercito con meno uomini e mezzi farà passare la voglia -si spera- di intervenire ovunque nel mondo. E più pace significa meno spese, se è vero che la disgraziata guerra in Irak costerà 3.000 miliardi di dollari nel corso di qualche decennio, e meno morti, che suscitano sempre insani desideri di vendicarsi attraverso altri conflitti.
25 febbraio 2014
Renzi e la Cassa Depositi e Prestiti
Renzi, chiedendo la fiducia, ha parlato dell'azzeramento dei debiti della pubblica amministrazione facendo ricorso alla Cassa depositi e prestiti (CDP).
Che cosa vuol dire in concreto?
Per quel che si capisce, la spiegazione è questa: un le imprese fornitrici della pubblica amministrazione se questa non pagava nei tempi previsti, si rivolgevano a una banca che anticipava loro i soldi delle fatture da incassare. In questo modo l'impresa poteva pagare dipendenti e fornitori e svolgere regolarmente la propria attività.
Sopportava solo un costo aggiuntivo, vale a dire spese e interessi per ottenere l'anticipo. Se l'azienda era stata previdente, aveva però incluso tali costi tra quelli dell'impresa. Lo stato in altre parole pagava qualcosa in più ai fornitori per poterli pagare in ritardo.
Da tempo però questo meccanismo non funziona perchè lo Stato non è un buon pagatore e le banche non concedono volentieri credito ai fornitori dello Stato.
Come sbloccare questa situazione? La via più semplice sarebbe pagare i debiti, naturalmente, ma salirebbe il debito pubblico.
La soluzione inventata lo scorso anno dal governo Letta consiste nel certificare i crediti dei fornitori per farli anticipare dal sistema bancario con la garanzia della CDP.
In pratica si sostituisce la garanzia statale sui debiti con quella della CDP.
La norma che permette tutto questo è, come detto, figlia del governo Letta ma per qualche motivo il Tesoro ha fatto resistenza e non s'è mai applicata.
Perchè?
Spetterà a Padoan spiegare, eventualmente, che la disposizione non dev'essere applicata e a Renzi, se avrà il benestare di Padoan, farla applicare.
Che cosa vuol dire in concreto?
Per quel che si capisce, la spiegazione è questa: un le imprese fornitrici della pubblica amministrazione se questa non pagava nei tempi previsti, si rivolgevano a una banca che anticipava loro i soldi delle fatture da incassare. In questo modo l'impresa poteva pagare dipendenti e fornitori e svolgere regolarmente la propria attività.
Sopportava solo un costo aggiuntivo, vale a dire spese e interessi per ottenere l'anticipo. Se l'azienda era stata previdente, aveva però incluso tali costi tra quelli dell'impresa. Lo stato in altre parole pagava qualcosa in più ai fornitori per poterli pagare in ritardo.
Da tempo però questo meccanismo non funziona perchè lo Stato non è un buon pagatore e le banche non concedono volentieri credito ai fornitori dello Stato.
Come sbloccare questa situazione? La via più semplice sarebbe pagare i debiti, naturalmente, ma salirebbe il debito pubblico.
La soluzione inventata lo scorso anno dal governo Letta consiste nel certificare i crediti dei fornitori per farli anticipare dal sistema bancario con la garanzia della CDP.
In pratica si sostituisce la garanzia statale sui debiti con quella della CDP.
La norma che permette tutto questo è, come detto, figlia del governo Letta ma per qualche motivo il Tesoro ha fatto resistenza e non s'è mai applicata.
Perchè?
Spetterà a Padoan spiegare, eventualmente, che la disposizione non dev'essere applicata e a Renzi, se avrà il benestare di Padoan, farla applicare.
23 febbraio 2014
Perchè Delrio non è ministro dell'economia
Il governo è nato da poco più di 24 ore e Graziano Delrio, vicepresidente del Consiglio, la spara grossa, paventando l'idea di una piccola tassa sui BOT.
Non contento del progetto di eliminare le province, il medico modenese spiega che il governo non vuole una patrimoniale, come successo con l'Imu ("fu una patrimoniale a tutti gli effetti, il governo Monti la introdusse perche il Paese aveva bisogno di sistemare i conti") ma valuta "un aumento delle tasse sulle rendite finanziarie ... per destinare risorse «alla fasce più deboli». Se una signora anziana, ha detto Delrio, «ha messo da parte 100 mila euro in Bot non credo che se le togli 25 o 30 euro ne avrà problemi di salute. Vediamo".
Una visione da medico che a tempo perso si diletta (male) in economia.
Se infatti Delrio conoscesse l'argomento saprebbe che quando è stata introdotta l'imposta sui titoli di stato il tasso è aumentato, perchè gli investitori decidono prendendo in considerazione il rendimento netto. Un'imposta aggiuntiva farebbe salire -nella migliore delle ipotesi- il tasso lordo, lasciando invariato il tasso netto.
Ma potrebbe andare peggio. Cerchiamo di capire il perchè. Supponiamo che la signora compri titoli decennali che rendono oggi attorno al 3,5% annuo (per semplicità supponiamo sia un tasso al netto). Vuol dire 3500 euro l'anno di interessi.
Ora supponiamo che i risparmiatori temano un'imposta imprevista che possa colpire i possessori di titoli di stato e per questo possano acquistare meno titoli di stato alle prossime aste, facendo salire lo spread e quindi il rendimento netto di soli 10 punti.
L'effetto sarebbe un tasso che sale dello 0,1% che applicato ai 100.000 euro della signora di cui parla Delrio significano 100 euro di maggiore spesa per l'Italia.
Delrio per incassare 25 o 30 euro alla signora con 100.000 euro di BOT rischia di doverne pagare 100 in più.
Al contrario ne pagherebbe 100 in meno se una buona politica economica abbassasse anche solo di 10 punti lo spread ovvero dello 0,1% il tasso pagato ai creditori dello Stato.
Ho il sospetto che Napolitano avesse ottime ragioni per non volere Delrio al ministero dell'economia: ha capito che gli mancano le basi per svolgere quel delicato ruolo.
Non contento del progetto di eliminare le province, il medico modenese spiega che il governo non vuole una patrimoniale, come successo con l'Imu ("fu una patrimoniale a tutti gli effetti, il governo Monti la introdusse perche il Paese aveva bisogno di sistemare i conti") ma valuta "un aumento delle tasse sulle rendite finanziarie ... per destinare risorse «alla fasce più deboli». Se una signora anziana, ha detto Delrio, «ha messo da parte 100 mila euro in Bot non credo che se le togli 25 o 30 euro ne avrà problemi di salute. Vediamo".
Una visione da medico che a tempo perso si diletta (male) in economia.
Se infatti Delrio conoscesse l'argomento saprebbe che quando è stata introdotta l'imposta sui titoli di stato il tasso è aumentato, perchè gli investitori decidono prendendo in considerazione il rendimento netto. Un'imposta aggiuntiva farebbe salire -nella migliore delle ipotesi- il tasso lordo, lasciando invariato il tasso netto.
Ma potrebbe andare peggio. Cerchiamo di capire il perchè. Supponiamo che la signora compri titoli decennali che rendono oggi attorno al 3,5% annuo (per semplicità supponiamo sia un tasso al netto). Vuol dire 3500 euro l'anno di interessi.
Ora supponiamo che i risparmiatori temano un'imposta imprevista che possa colpire i possessori di titoli di stato e per questo possano acquistare meno titoli di stato alle prossime aste, facendo salire lo spread e quindi il rendimento netto di soli 10 punti.
L'effetto sarebbe un tasso che sale dello 0,1% che applicato ai 100.000 euro della signora di cui parla Delrio significano 100 euro di maggiore spesa per l'Italia.
Delrio per incassare 25 o 30 euro alla signora con 100.000 euro di BOT rischia di doverne pagare 100 in più.
Al contrario ne pagherebbe 100 in meno se una buona politica economica abbassasse anche solo di 10 punti lo spread ovvero dello 0,1% il tasso pagato ai creditori dello Stato.
Ho il sospetto che Napolitano avesse ottime ragioni per non volere Delrio al ministero dell'economia: ha capito che gli mancano le basi per svolgere quel delicato ruolo.
21 febbraio 2014
Padoan
E' una scelta che lascia perplessi per diverse ragioni.
La scelta di Padoan è dettata dalla prudenza del Presidente Napolitano, che oggi svolge una sorta di ruolo di tutore dell'Italia rispetto all'Europa. L'Unione Europea, gli altri paesi forti del continente non si fidano troppo di noi e Napolitano offre loro la garanzia che l'Italia non farà sciocchezze sul piano economico.
Per questo Napolitano ha bocciato la scelta di Graziano Del Rio e preferisce un uomo ben conosciuto all'estero come Padoan. Che pare condividere quello che Joseph Stiglitz definisce Washington Consensus, cioè la necessità di affrontare le crisi con misure che deprimono la domanda e fanno peggiorare la crisi stessa, ovvero riduzione del deficit, tagli dei salari, taglio della spesa sociale.
Padoan pare in forte sintonia con questa visione che privilegia l'offerta e ignora la domanda e sulla stessa lunghezza d'onda pare sintonizzata Federica Guidi, ex presidente dei giovani industriali e neoministro dello sviluppo.
Se costoro seguiranno le classiche ricette di stimolo dell'offerta magari aumentando qualche imposta per finanziare tagli ai costi delle imprese, la domanda di beni e servizi difficilmente crescerà e la ripresa, se ci sarà, dipenderà in gran parte della domanda estera.
20 febbraio 2014
Di arte si campa, in alcuni casi
Succede raramente di leggere una buona notizia riguardante l'arte, per cui vale la pena riproporla.
A Torino sta per concludersi alla Galleria d'Arte Moderna (GAM) la mostra di dipinti di Renoir provenienti da Parigi.
Ed è un successo economico. Serviva vendere 170 mila biglietti per pareggiare i conti ovvero per coprire le spese per avere i dipinti, allestire la mostra, eccetera, e l'obettivo è stato abbondantemente superato.
Domenica c'era la coda fuori dalla GAM, gli ultimi spettatori prima della chiusura. Alla fine saranno in tutto 240-250 mila, con un guadagno netto per gli organizzatori di 400 mila euro che finiscono alla Fondazione Musei di Torino.
Naturalmente non tutti musei guadagnano, anzi, il comune spende molti milioni ogni anno per pagare costi solo in parte coperti dagli incassi dei biglietti. Ma in alcuni casi è possibile incassare più di quanto si spende, come dimostra la mostra di Renoir, attirando pubblico anche dall'estero.
A Torino sta per concludersi alla Galleria d'Arte Moderna (GAM) la mostra di dipinti di Renoir provenienti da Parigi.
Ed è un successo economico. Serviva vendere 170 mila biglietti per pareggiare i conti ovvero per coprire le spese per avere i dipinti, allestire la mostra, eccetera, e l'obettivo è stato abbondantemente superato.
Domenica c'era la coda fuori dalla GAM, gli ultimi spettatori prima della chiusura. Alla fine saranno in tutto 240-250 mila, con un guadagno netto per gli organizzatori di 400 mila euro che finiscono alla Fondazione Musei di Torino.
Naturalmente non tutti musei guadagnano, anzi, il comune spende molti milioni ogni anno per pagare costi solo in parte coperti dagli incassi dei biglietti. Ma in alcuni casi è possibile incassare più di quanto si spende, come dimostra la mostra di Renoir, attirando pubblico anche dall'estero.
19 febbraio 2014
Auto francesi
Un paio di notizie dal mondo dell'auto in Francia.
La Peugeot è sempre meno francese. Appartiene sempre meno alla storica famiglia da cui prende il nome, scesa al 14% del capitale. Un altro 14% appartiene allo Stato francese che ha offerto a Peugeot garanzie per ottenere capitali (vedi qui) e di fatto ha salvato la casa automobilistica freancese. Una quota analoga è in mano ai cinesi di Dongfeng, con cui Peugeot produce oltre mezzo milione di auto in Asia.
Renaut sta per abbandonare la costruzione della Fluence, auto elettrica nei progetti destinata per adesso a pochi mercati. Poche auto vendute e soprattutto problemi con le ricariche: di fronte al solito limite delle auto elettriche, la limitata autonomia delle batterie, Renault ha scelto una strada alternativa, offerta da un'azienda israeliana. Consiste nel cambiare le batterie preso le stazioni di servizio invece di ricaricarle.
Purtroppo però l'azienda israeliana che doveva offrire questo innovativo servizio è fallita la scorsa estate, mettendo in crisi il debole progetto della casa autobilistica francese.
La Peugeot è sempre meno francese. Appartiene sempre meno alla storica famiglia da cui prende il nome, scesa al 14% del capitale. Un altro 14% appartiene allo Stato francese che ha offerto a Peugeot garanzie per ottenere capitali (vedi qui) e di fatto ha salvato la casa automobilistica freancese. Una quota analoga è in mano ai cinesi di Dongfeng, con cui Peugeot produce oltre mezzo milione di auto in Asia.
Renaut sta per abbandonare la costruzione della Fluence, auto elettrica nei progetti destinata per adesso a pochi mercati. Poche auto vendute e soprattutto problemi con le ricariche: di fronte al solito limite delle auto elettriche, la limitata autonomia delle batterie, Renault ha scelto una strada alternativa, offerta da un'azienda israeliana. Consiste nel cambiare le batterie preso le stazioni di servizio invece di ricaricarle.
Purtroppo però l'azienda israeliana che doveva offrire questo innovativo servizio è fallita la scorsa estate, mettendo in crisi il debole progetto della casa autobilistica francese.
18 febbraio 2014
ABBA e il fisco
Gli ABBA, il famoso gruppo musicale svedese, sono un'icona della musica pop degli anni '70 e '80. Anni in cui andavano di moda vestiti e pettinature che oggi farebbero sorridere.
Oggi si scopre che gli stravaganti abiti dei quattro cantanti svedesi non erano solo figli del cattivo gusto. Le scelte degli abiti dipendevano dal fisco.
Se si fossero vestiti con abiti "normali" il severo fisco svedese non avrebbe concesso loro di detrarne il costo dalle imposte, mentre abiti di scena abbastanza strani da non poter essere confusi con i vestiti normali davano diritto allo sconto fiscale.
Così i quattro cantanti si sbizzarrivano con i costumi, diventando icone stilistiche non proprio di buon gusto di un'epoca passata.
Oggi si scopre che gli stravaganti abiti dei quattro cantanti svedesi non erano solo figli del cattivo gusto. Le scelte degli abiti dipendevano dal fisco.
Se si fossero vestiti con abiti "normali" il severo fisco svedese non avrebbe concesso loro di detrarne il costo dalle imposte, mentre abiti di scena abbastanza strani da non poter essere confusi con i vestiti normali davano diritto allo sconto fiscale.
Così i quattro cantanti si sbizzarrivano con i costumi, diventando icone stilistiche non proprio di buon gusto di un'epoca passata.
15 febbraio 2014
La diffusione delle frottole
Internet è un grande strumento, perchè ha moltiplicato le possibilità di informazione e interazione tra le persone, ma ha anche dei limiti. Primo fra tutti la possibilità di diffondere informazioni errate o false che in rete diventano virali: un'infinità di persone condivide le informazioni non vere che finiscono per essere prese in considerazione perché "popolari"e non perchè qualcuno le abbia verificate.
Così le balle diventano verità. Lo sanno bene quelli che si sono occupati di signoraggio allo scopo di smontare le frottole che circolano in rete.
La superficialità di molti internauti è tale che non si fermano neppure di fronte a informazioni palesemente poco credibili.
Ce ne offre un esempio il blog Volare è Potare: il blogger inventa un'intervista dove un personaggio inventato racconta che misteriosi poteri forti lo pagano per svolgere il lavoro di provocatore online.
Alcune informazioni sono volutamente poco credibili, ma questo non impedisce alla finta intervista di diventare virale, al punto che qualcuno, come l'onorevole Vito Crimi che crede ciecamente nella rete, usa la finta intervista per denunciare complotti, come si racconta qui.
Così le balle diventano verità. Lo sanno bene quelli che si sono occupati di signoraggio allo scopo di smontare le frottole che circolano in rete.
La superficialità di molti internauti è tale che non si fermano neppure di fronte a informazioni palesemente poco credibili.
Ce ne offre un esempio il blog Volare è Potare: il blogger inventa un'intervista dove un personaggio inventato racconta che misteriosi poteri forti lo pagano per svolgere il lavoro di provocatore online.
Alcune informazioni sono volutamente poco credibili, ma questo non impedisce alla finta intervista di diventare virale, al punto che qualcuno, come l'onorevole Vito Crimi che crede ciecamente nella rete, usa la finta intervista per denunciare complotti, come si racconta qui.
14 febbraio 2014
Citazioni esilaranti
"Ci sono tantissimi lavori da fare, c'è tantissima domanda di lavoro,
ma manca proprio l'offerta. Certo, io sono stato fortunato ad avere
molte opportunità, ma quando le ho viste ho saputo anche coglierle".
John Elkann
Tradotto: le imprese cercano lavoratori (c'è tantissima domanda di lavoro) ma pochi si presentano per ambire a quei posti. O forse è vero il contrario e John confonde domanda e offerta? O forse è solo confuso?
Inoltre non abbiamo dubbi sul fatto che la sua ricchezza dipenda dalla sua capacità di cogliere le opportunità. Peccato solo che come presidente della Juventus sia stato un disastro.
John Elkann
Tradotto: le imprese cercano lavoratori (c'è tantissima domanda di lavoro) ma pochi si presentano per ambire a quei posti. O forse è vero il contrario e John confonde domanda e offerta? O forse è solo confuso?
Inoltre non abbiamo dubbi sul fatto che la sua ricchezza dipenda dalla sua capacità di cogliere le opportunità. Peccato solo che come presidente della Juventus sia stato un disastro.
13 febbraio 2014
La sfida di Renzi
Matteo Renzi ha cacciato, di fatto, Enrico Letta dalla presidenza del consiglio e si appresta a cambiare i ministri. Forse non la maggioranza che governerà il paese nei prossimi mesi o forse nei prossimi anni.
Senza entrare nel merito del cambio politico, c'è da farsi qualche domanda.
Il governo Letta sembra, a detta di molti commentatori politici, fermo, incapace di accelerare, di cambiare la propria politica.
Penso che la maggior parte delle persone sia convinta che il vero problema del governo Letta sia stata l'incapacità di rilanciare l'economia.
E come si rilancia l'economia? Con i soldi...
Confindustria chiede un taglio del costo del lavoro, tutti chiedono un fisco meno pesante. Poi c'è un elenco infinito di spese possibili: tutti vorrebbero una maggiore spesa pubblica in diversi settori economici. Un pò per rilanciare l'economia, un pò per cambiare l'Italia, un pò per soddisfare bisogni che sono rimasti inevasi per colpa della crisi.
A questo punto la domanda è: riuscirà Renzi o qualche suo ministro a trovare decine di miliardi di euro per cercare di soddisfare le richieste che provengono da molte parti?
Questa è la vera sfida economica di Renzi.
Io dubito che esistano grandi cifre disponibili nell'immediato, a meno di forzare i conti con qualche trucco contabile.
Renzi potrebbe invece fare due cose molto difficili: tagliare alcune spese e convincere l'Europa a allentare i vincoli di bilancio.
Il taglio della spesa è una buona strada ma molto complicata da realizzare perchè i politici difendono gli interessi dei propri elettori. Se pensiamo di tagliare la spesa militare (cosa che a me piacerebbe moltissimo) troveremo qualche partito filo-militare che farà di tutto per difendere la spesa militare dalla mannaia.
Altrettanto difficile è la pista europea. Come pensaredi convincere i tedeschi a cambiare rotta, specie in un momento in cui i tassi di interesse sono bassi.
Aumentare il debito pubblico è molto pericoloso senza consenso dei partner europei e col rischio di un futuro rialzo dei tassi.
Sono, dunque, molti i dubbi che riguardano la sostituzione di Letta. Sembra essere un'operazione soltanto politica, che lascerà l'amaro in bocca a molti. A cominciare da chi aspetta una rivoluzione economica.
Senza entrare nel merito del cambio politico, c'è da farsi qualche domanda.
Il governo Letta sembra, a detta di molti commentatori politici, fermo, incapace di accelerare, di cambiare la propria politica.
Penso che la maggior parte delle persone sia convinta che il vero problema del governo Letta sia stata l'incapacità di rilanciare l'economia.
E come si rilancia l'economia? Con i soldi...
Confindustria chiede un taglio del costo del lavoro, tutti chiedono un fisco meno pesante. Poi c'è un elenco infinito di spese possibili: tutti vorrebbero una maggiore spesa pubblica in diversi settori economici. Un pò per rilanciare l'economia, un pò per cambiare l'Italia, un pò per soddisfare bisogni che sono rimasti inevasi per colpa della crisi.
A questo punto la domanda è: riuscirà Renzi o qualche suo ministro a trovare decine di miliardi di euro per cercare di soddisfare le richieste che provengono da molte parti?
Questa è la vera sfida economica di Renzi.
Io dubito che esistano grandi cifre disponibili nell'immediato, a meno di forzare i conti con qualche trucco contabile.
Renzi potrebbe invece fare due cose molto difficili: tagliare alcune spese e convincere l'Europa a allentare i vincoli di bilancio.
Il taglio della spesa è una buona strada ma molto complicata da realizzare perchè i politici difendono gli interessi dei propri elettori. Se pensiamo di tagliare la spesa militare (cosa che a me piacerebbe moltissimo) troveremo qualche partito filo-militare che farà di tutto per difendere la spesa militare dalla mannaia.
Altrettanto difficile è la pista europea. Come pensaredi convincere i tedeschi a cambiare rotta, specie in un momento in cui i tassi di interesse sono bassi.
Aumentare il debito pubblico è molto pericoloso senza consenso dei partner europei e col rischio di un futuro rialzo dei tassi.
Sono, dunque, molti i dubbi che riguardano la sostituzione di Letta. Sembra essere un'operazione soltanto politica, che lascerà l'amaro in bocca a molti. A cominciare da chi aspetta una rivoluzione economica.
12 febbraio 2014
Anche il Portogallo
Buone notizie dal Portogallo.
Stamattina il Portogallo ha collocato 3 miliardi di titoli decennali a tassi accettabili, poco superiori al 5% annuo.
La crisi dei debiti sovrani ha spinto il Portogallo a chiedere aiuto alle istituzioni, da cui ha ricevuto 78 miliardi che non avrebbe trovato sui mercati se non a tassi altissimi. In cambio ha dovuto accettare le condizioni poste dalla famosa troika: una serie di misure di austerità che il governo conservatore ha applicato per ridurre il deficit al 5,5% del PIL.
Ora che i sacrifici sono stati realizzati e, soprattutto, che i tassi europei sono bassi per effetto della politica monetaria della BCE, il Portogallo ricomincia a collocare i titoli del debito pubblico sul mercato. La possibilità di collocare i titoli di stato è possibile per tre ragioni: perchè la situazione dei conti pubblici portoghesi migliora, perchè i capitali tornano in Europa (vedi qui) e perchè oggi investire in titoli portoghesi conviene.
Se uno stato emette titoli a tassi elevati e, successivamente, i tassi pagati dallo stato diminuiscono, il prezzo dei titoli in circolazione aumenta. E' quello che sta succedendo con i titoli portoghesi, che hanno fatto guadagnare gli investitori alla ricerca di buone occasioni nel mercato dei titoli di stato.
Sarà un lungo rientro, durerà mesi, ma è indubbiamente un buon segnale per tutti, Italia compresa, che ha interesse a finanziarsi pagando bassi tassi di interesse.
Stamattina il Portogallo ha collocato 3 miliardi di titoli decennali a tassi accettabili, poco superiori al 5% annuo.
La crisi dei debiti sovrani ha spinto il Portogallo a chiedere aiuto alle istituzioni, da cui ha ricevuto 78 miliardi che non avrebbe trovato sui mercati se non a tassi altissimi. In cambio ha dovuto accettare le condizioni poste dalla famosa troika: una serie di misure di austerità che il governo conservatore ha applicato per ridurre il deficit al 5,5% del PIL.
Ora che i sacrifici sono stati realizzati e, soprattutto, che i tassi europei sono bassi per effetto della politica monetaria della BCE, il Portogallo ricomincia a collocare i titoli del debito pubblico sul mercato. La possibilità di collocare i titoli di stato è possibile per tre ragioni: perchè la situazione dei conti pubblici portoghesi migliora, perchè i capitali tornano in Europa (vedi qui) e perchè oggi investire in titoli portoghesi conviene.
Se uno stato emette titoli a tassi elevati e, successivamente, i tassi pagati dallo stato diminuiscono, il prezzo dei titoli in circolazione aumenta. E' quello che sta succedendo con i titoli portoghesi, che hanno fatto guadagnare gli investitori alla ricerca di buone occasioni nel mercato dei titoli di stato.
Sarà un lungo rientro, durerà mesi, ma è indubbiamente un buon segnale per tutti, Italia compresa, che ha interesse a finanziarsi pagando bassi tassi di interesse.
11 febbraio 2014
Nokia e il coltellino svizzero
Che cosa hanno in comune Nokia e il coltellino svizzero?
Nokia è un famoso marchio di cellulari che prende il nome da una cittadina finlandese e aggi appartiene al colosso del software Microsoft.
Il coltellino svizzero è un prodotto della svizzera Victorinox, che ha prodotto il coltellino multiuso su commessa dell'esercito svizzero. Una commessa pubblica che ha dato l'opportunità a un'impresa di crescere e offrire un'infinità di prodotti che traggono spunto dal celebre coltellino.
La Nokia ha una storia simile. E' nata a fine ottocendo in Finlandia e ovviamente non produceva cellulari, ma legname. Era un segheria che dal fiume Nokia prendeva l'energia necessaria a tagliare la legna.
Molti decenni più tardi, dopo essere stata acquistata da un'impresa che produceva altri beni, tra cui cavi elettrici, entrò in crisi. Aveva competenze ma gli affari andavano male, così decise di competere per ottenere una commessa pubblica: l'esercito aveva bisogno di radio ricetrasmittenti.
E' così che nasce la Nokia che produce cellulari e che un'altra crisi ha spinto nelle braccia di Microsoft.
Insomma dietro a due storie di successo di imprese europee ci sono i soldi pubblici, le commesse, gli investimenti pubblici che hanno permesso alle imprese di crescere e poi sviluppare altri beni e servizi offerti alla clientela.
Nokia è un famoso marchio di cellulari che prende il nome da una cittadina finlandese e aggi appartiene al colosso del software Microsoft.
Il coltellino svizzero è un prodotto della svizzera Victorinox, che ha prodotto il coltellino multiuso su commessa dell'esercito svizzero. Una commessa pubblica che ha dato l'opportunità a un'impresa di crescere e offrire un'infinità di prodotti che traggono spunto dal celebre coltellino.
La Nokia ha una storia simile. E' nata a fine ottocendo in Finlandia e ovviamente non produceva cellulari, ma legname. Era un segheria che dal fiume Nokia prendeva l'energia necessaria a tagliare la legna.
Molti decenni più tardi, dopo essere stata acquistata da un'impresa che produceva altri beni, tra cui cavi elettrici, entrò in crisi. Aveva competenze ma gli affari andavano male, così decise di competere per ottenere una commessa pubblica: l'esercito aveva bisogno di radio ricetrasmittenti.
E' così che nasce la Nokia che produce cellulari e che un'altra crisi ha spinto nelle braccia di Microsoft.
Insomma dietro a due storie di successo di imprese europee ci sono i soldi pubblici, le commesse, gli investimenti pubblici che hanno permesso alle imprese di crescere e poi sviluppare altri beni e servizi offerti alla clientela.
08 febbraio 2014
Citazioni interessanti
«Continuo a pensare che le teorie economiche keynesiane siano
estremamente importanti, e se qualcuno la pensava diversamente questa
crisi dovrebbe averlo fatto ricredere»
Stanley Fischer, governatore della banca centrale d'Israele tra il 2005 e il 2013
Stanley Fischer, governatore della banca centrale d'Israele tra il 2005 e il 2013
07 febbraio 2014
Buone notizie: tornano i capitali
La notizia di oggi, assai incoraggiante, è che il rendimento dei BTP è sceso ai minimi dal 2006. La BCE lascia fermi i tassi e si riserva di aumentarli in futuro. Due segnali che l'economia non va male.
E anche dalle banche italiane arriva qualche buona notizia. Intesa San Paolo restituisce 36 miliardi alla BCE, soldi ricevuto nell'ambito del progetto LTRO. In sostanza la grande banca italiana restituisce alla BCE le somme ricevute per comprare titoli di stato.
Mettiamo insieme questi fatti. Cosa otteniamo?
Che i capitali stanno tornando a fluire verso l'Europa e le sue banche.
La fuga dei capitali è stata la vera causa della crisi: le difficoltà delle banche e degli stati hanno spinto, nel corso degli anni, i capitalisti a ritirare i capitali dagli investimenti europei e americani e a spostarli altrove. Ciò ha fatto esplodere la crisi economica più grave del dopoguerra e costretto gli stati e banche centrali a intervenire, finanziando soprattutto il sistema finanziario, che non riusciva a trovare sul mercato i capitali.
Ora sta succedendo il contrario: le banche restituiscono i capitali, anche per far fronte ai prossimi stress test bancari, ma lo fanno perchè le condizioni sono favorevoli, i capitali tornano a essere investiti nei titoli e nelle banche europee.
Lo conferma anche la fuga de icapitali dai paesi emergenti, come testimonia il Sole 24 Ore (vedi qui): nel 2013 59 miliardi di dollari, la metà delle somme investite l'anno prima, sono stati disinvestiti dai paesi emergenti.
Europa, Stati Uniti, Canada e altri paesi occidentali restano le mete preferite, specie se si considerano le vicende politiche di molti paesi emergenti (pensiamo alle vicende di Egitto, Libia, Tunisia, Siria).
E anche dalle banche italiane arriva qualche buona notizia. Intesa San Paolo restituisce 36 miliardi alla BCE, soldi ricevuto nell'ambito del progetto LTRO. In sostanza la grande banca italiana restituisce alla BCE le somme ricevute per comprare titoli di stato.
Mettiamo insieme questi fatti. Cosa otteniamo?
Che i capitali stanno tornando a fluire verso l'Europa e le sue banche.
La fuga dei capitali è stata la vera causa della crisi: le difficoltà delle banche e degli stati hanno spinto, nel corso degli anni, i capitalisti a ritirare i capitali dagli investimenti europei e americani e a spostarli altrove. Ciò ha fatto esplodere la crisi economica più grave del dopoguerra e costretto gli stati e banche centrali a intervenire, finanziando soprattutto il sistema finanziario, che non riusciva a trovare sul mercato i capitali.
Ora sta succedendo il contrario: le banche restituiscono i capitali, anche per far fronte ai prossimi stress test bancari, ma lo fanno perchè le condizioni sono favorevoli, i capitali tornano a essere investiti nei titoli e nelle banche europee.
Lo conferma anche la fuga de icapitali dai paesi emergenti, come testimonia il Sole 24 Ore (vedi qui): nel 2013 59 miliardi di dollari, la metà delle somme investite l'anno prima, sono stati disinvestiti dai paesi emergenti.
Europa, Stati Uniti, Canada e altri paesi occidentali restano le mete preferite, specie se si considerano le vicende politiche di molti paesi emergenti (pensiamo alle vicende di Egitto, Libia, Tunisia, Siria).
05 febbraio 2014
La bufala dei 60 miliardi di corruzione
L'Italia secondo alcuni sarebbe uno dei paesi più corrotti al mondo. Corruzione stimata in 60 miliardi di euro (come scrive il Sole 24 Ore), più o meno il 4% del PIL. Una cifrà enorme che potremmo risparmiare con enormi benefici per le casse statali e per tutti noi.
C'è solo un problema: la cifrà è inventata, come spiega il Corriere (vedi qui). Secondo la ricostruzione del Corriere il tutto sarebbe nato da una stima della Banca Mondiale che ha stimato (vedi qui) i costi della corruzione pur affermando che è estremamente difficile valutare le dimensioni del problema dell'appropriazione di fondi pubblici (it is extremely difficult to assess the extent of worldwide embezzlement of public funds).
A quel punto qualcuno fa propria la stima della Banca Mondiale e stima in 60 miliardi la quota di corruzione che fa capo all'Italia. Un numero probabilmente inventato, che però molti accreditano, sbagliando due volte: nei numeri e nella paternità della stima.
Il Sole 24 Ore infatti scrive infatti: " Secondo la Corte dei Conti a Roma, i costi diretti di questo fenomeno ammontano ogni anno a 60 miliardi di euro". Ma la Corte non fa alcuna stima. Nel discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario il Procuratore Generale (a pagina 100 di questo documento) afferma che se la tima di 60 miliardi fosse vera, allora metà della corruzione europea apparterrebbe all'Italia. E questo perchè in Europa si stima un livello di corruzione pari all'1% del prodotto interno lordo., per un totale di 120 miliardi annui.
La Corte non stima, come detto, la corruzione in Italia, ma si riferisce ai dati del Servizio Anticorruzione e Trasparenza che a pagine 10 del suo primo rapporto scrive: "Le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi all’anno, senza un modello scientifico diventano opinioni da prendere come tali ma che, complice a volte la superficialità dei commentatori e dei media, aumentano la confusione ed anestetizzano qualsiasi slancio di indignazione e contrasto".
Insomma una bufala, numeri a caso che qualcuno ha inventato e tanti hanno diffuso senza chiedersi da dove arrivassero.
C'è solo un problema: la cifrà è inventata, come spiega il Corriere (vedi qui). Secondo la ricostruzione del Corriere il tutto sarebbe nato da una stima della Banca Mondiale che ha stimato (vedi qui) i costi della corruzione pur affermando che è estremamente difficile valutare le dimensioni del problema dell'appropriazione di fondi pubblici (it is extremely difficult to assess the extent of worldwide embezzlement of public funds).
A quel punto qualcuno fa propria la stima della Banca Mondiale e stima in 60 miliardi la quota di corruzione che fa capo all'Italia. Un numero probabilmente inventato, che però molti accreditano, sbagliando due volte: nei numeri e nella paternità della stima.
Il Sole 24 Ore infatti scrive infatti: " Secondo la Corte dei Conti a Roma, i costi diretti di questo fenomeno ammontano ogni anno a 60 miliardi di euro". Ma la Corte non fa alcuna stima. Nel discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario il Procuratore Generale (a pagina 100 di questo documento) afferma che se la tima di 60 miliardi fosse vera, allora metà della corruzione europea apparterrebbe all'Italia. E questo perchè in Europa si stima un livello di corruzione pari all'1% del prodotto interno lordo., per un totale di 120 miliardi annui.
La Corte non stima, come detto, la corruzione in Italia, ma si riferisce ai dati del Servizio Anticorruzione e Trasparenza che a pagine 10 del suo primo rapporto scrive: "Le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi all’anno, senza un modello scientifico diventano opinioni da prendere come tali ma che, complice a volte la superficialità dei commentatori e dei media, aumentano la confusione ed anestetizzano qualsiasi slancio di indignazione e contrasto".
Insomma una bufala, numeri a caso che qualcuno ha inventato e tanti hanno diffuso senza chiedersi da dove arrivassero.
04 febbraio 2014
La risposta di Bankitalia - 2
3. Effetti per lo Stato e i contribuenti (Chi tirerà fuori i 7,5 miliardi della
rivalutazione? E lo Stato non finirà per rimetterci, incassando dalla Banca d’Italia
meno soldi ogni anno?)
I 7,5 miliardi della rivalutazione sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano
iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i
diritti dei partecipanti. Il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo
un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione
nel tempo. Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il
patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato.
Il timore che lo Stato comunque ci rimetterà, perché incasserà meno soldi ogni anno
dalla Banca d’Italia, è infondato; nasce dal non prendere in considerazione tutte le
variabili in gioco. La Banca d’Italia chiude ogni anno con un risultato d’esercizio che,
in linea di principio, può essere sia positivo (profitto) sia negativo (perdita). Di fatto,
negli ultimi decenni si è trattato sempre di un profitto, variabile a seconda degli anni.
Il risultato discende dallo svolgimento delle attività istituzionali della Banca, che
implicano costi e ricavi. Sull’utile lordo la Banca paga allo Stato innanzitutto le
imposte. Dall’utile al netto delle imposte la Banca preleva i dividendi per i
partecipanti, alimenta le riserve statutarie nella misura massima del 40 per cento e
retrocede quel che residua allo Stato. Ad esempio, nel 2013, con riferimento
all’esercizio 2012, la Banca ha versato allo Stato un totale di 3,4 miliardi, di cui 1,9
per imposte e 1,5 per retrocessione del residuo finale.
Che fa la riforma? Da un lato, è vero, essa implicherà presumibilmente per i
partecipanti un dividendo accresciuto nell’immediato (ma non nel tempo) rispetto a
quello percepito negli anni recenti; dall’altro lato, c’è una novità. Il vecchio statuto
prevedeva, infatti, che il rendimento delle riserve statutarie venisse ogni anno
riversato a incrementare le riserve stesse, per cui non concorreva alla formazione di
quanto retrocesso allo Stato. Con il nuovo statuto questa alimentazione automatica
delle riserve è stata eliminata, in modo da poter meglio commisurare l’entità delle
riserve all’evoluzione dei rischi dell’Istituto. Ne potrà derivare un ampliamento
dell’utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato. I risultati di una
simulazione di quanto la Banca avrebbe dovuto riconoscere complessivamente allo
Stato nei passati dieci anni se fosse stato in vigore il nuovo statuto, tenendo conto di
entrambi gli effetti, indicano che si sarebbe potuto mantenere sostanzialmente
invariato il flusso di risorse trasferito alle casse dello Stato.
4. Il possibile riacquisto delle quote da parte della Banca d’Italia (Se nessuno
comprerà le quote in eccesso, il “riacquisto” da parte della Banca d’Italia non
costituisce un trasferimento di soldi pubblici alle banche venditrici?)
La legge di riforma considera il caso in cui il processo di redistribuzione e diffusione
delle quote su una platea più ampia di partecipanti, che deve compiersi entro tre anni,
incontri difficoltà: la Banca può acquistare essa stessa, temporaneamente, parte delle
quote in mano ai partecipanti che ne posseggono più del limite del 3 per cento e non
riescano a scendere in tempo utile al di sotto di tale limite. In ogni caso le quote non
resterebbero in capo alla Banca ma sarebbero ricollocate al più presto sul mercato. La
Banca d’Italia si limiterebbe quindi a esercitare un ruolo di intermediazione. Si tratta
di una cautela che il legislatore ha voluto introdurre, ma si può confidare che la
probabilità di ricorrere a questo meccanismo sia resa bassa da due ordini di
considerazioni.
Anzitutto, in caso di riacquisto non solo sarebbero congelati i diritti di voto, ma i
dividendi corrispondenti sarebbero riversati nei fondi di riserva, sui quali i
partecipanti non hanno diritti. Inoltre, l’affermazione di un “mercato” per le quote
della Banca d’Italia dipende dalla percezione della “qualità” dell’investimento. Ora, è
presumibile che le quote avranno un rendimento non inferiore a quello di strumenti
analoghi a parità di rischiosità (rendimento che dipende sostanzialmente dagli utili
generati nelle attività investite, a fronte delle passività accese per svolgere le sue
funzioni); inoltre, andrà considerato il valore simbolico dell’essere “partecipante al
capitale della Banca d’Italia”. Il numero di potenziali acquirenti è alto, l’investimento
di ciascuno può essere relativamente limitato. In ogni caso, il Consiglio Superiore
della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti
aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina
normativa e statutaria.
rivalutazione? E lo Stato non finirà per rimetterci, incassando dalla Banca d’Italia
meno soldi ogni anno?)
I 7,5 miliardi della rivalutazione sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano
iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i
diritti dei partecipanti. Il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo
un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione
nel tempo. Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il
patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato.
Il timore che lo Stato comunque ci rimetterà, perché incasserà meno soldi ogni anno
dalla Banca d’Italia, è infondato; nasce dal non prendere in considerazione tutte le
variabili in gioco. La Banca d’Italia chiude ogni anno con un risultato d’esercizio che,
in linea di principio, può essere sia positivo (profitto) sia negativo (perdita). Di fatto,
negli ultimi decenni si è trattato sempre di un profitto, variabile a seconda degli anni.
Il risultato discende dallo svolgimento delle attività istituzionali della Banca, che
implicano costi e ricavi. Sull’utile lordo la Banca paga allo Stato innanzitutto le
imposte. Dall’utile al netto delle imposte la Banca preleva i dividendi per i
partecipanti, alimenta le riserve statutarie nella misura massima del 40 per cento e
retrocede quel che residua allo Stato. Ad esempio, nel 2013, con riferimento
all’esercizio 2012, la Banca ha versato allo Stato un totale di 3,4 miliardi, di cui 1,9
per imposte e 1,5 per retrocessione del residuo finale.
Che fa la riforma? Da un lato, è vero, essa implicherà presumibilmente per i
partecipanti un dividendo accresciuto nell’immediato (ma non nel tempo) rispetto a
quello percepito negli anni recenti; dall’altro lato, c’è una novità. Il vecchio statuto
prevedeva, infatti, che il rendimento delle riserve statutarie venisse ogni anno
riversato a incrementare le riserve stesse, per cui non concorreva alla formazione di
quanto retrocesso allo Stato. Con il nuovo statuto questa alimentazione automatica
delle riserve è stata eliminata, in modo da poter meglio commisurare l’entità delle
riserve all’evoluzione dei rischi dell’Istituto. Ne potrà derivare un ampliamento
dell’utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato. I risultati di una
simulazione di quanto la Banca avrebbe dovuto riconoscere complessivamente allo
Stato nei passati dieci anni se fosse stato in vigore il nuovo statuto, tenendo conto di
entrambi gli effetti, indicano che si sarebbe potuto mantenere sostanzialmente
invariato il flusso di risorse trasferito alle casse dello Stato.
4. Il possibile riacquisto delle quote da parte della Banca d’Italia (Se nessuno
comprerà le quote in eccesso, il “riacquisto” da parte della Banca d’Italia non
costituisce un trasferimento di soldi pubblici alle banche venditrici?)
La legge di riforma considera il caso in cui il processo di redistribuzione e diffusione
delle quote su una platea più ampia di partecipanti, che deve compiersi entro tre anni,
incontri difficoltà: la Banca può acquistare essa stessa, temporaneamente, parte delle
quote in mano ai partecipanti che ne posseggono più del limite del 3 per cento e non
riescano a scendere in tempo utile al di sotto di tale limite. In ogni caso le quote non
resterebbero in capo alla Banca ma sarebbero ricollocate al più presto sul mercato. La
Banca d’Italia si limiterebbe quindi a esercitare un ruolo di intermediazione. Si tratta
di una cautela che il legislatore ha voluto introdurre, ma si può confidare che la
probabilità di ricorrere a questo meccanismo sia resa bassa da due ordini di
considerazioni.
Anzitutto, in caso di riacquisto non solo sarebbero congelati i diritti di voto, ma i
dividendi corrispondenti sarebbero riversati nei fondi di riserva, sui quali i
partecipanti non hanno diritti. Inoltre, l’affermazione di un “mercato” per le quote
della Banca d’Italia dipende dalla percezione della “qualità” dell’investimento. Ora, è
presumibile che le quote avranno un rendimento non inferiore a quello di strumenti
analoghi a parità di rischiosità (rendimento che dipende sostanzialmente dagli utili
generati nelle attività investite, a fronte delle passività accese per svolgere le sue
funzioni); inoltre, andrà considerato il valore simbolico dell’essere “partecipante al
capitale della Banca d’Italia”. Il numero di potenziali acquirenti è alto, l’investimento
di ciascuno può essere relativamente limitato. In ogni caso, il Consiglio Superiore
della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti
aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina
normativa e statutaria.
03 febbraio 2014
La risposta di Bankitalia - 1
La Banca d'Italia ha emesso alcune note relative al decreto approvato la scorsa settimana tra le polemiche del partito di Grillo, che accusa il governo di regalare 7.5 miliardi alle banche private.
Ecco la prima parte:
Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5
1. Natura e proprietà della Banca d’Italia (È vero che la Banca d’Italia viene
privatizzata?)
La Banca d’Italia era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, né mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi. Per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d’Italia già aveva una forma giuridica associativa, e che ricordava quella di una società per azioni; le quote di partecipazione al capitale erano distribuite tra banche ed enti di assicurazione e previdenza, per la maggior parte divenuti dagli anni Novanta di natura privata. La riforma crea le condizioni perché i partecipanti al capitale non siano più in pochi, come oggi, ma in tanti; non solo banche e compagnie assicurative, ma anche fondi pensione e fondazioni. È un
modello non dissimile da quello delle banche centrali di due tra i maggiori paesi del mondo avanzato, gli Stati Uniti e il Giappone. Nessuno mai penserebbe di considerare “private” la Federal Reserve americana o la Banca del Giappone.
La “Legge sul risparmio” del 2005 p
revedeva, tra l’altro, il passaggio del capitale
sociale della Banca allo Stato. Negli anni seguenti questa previsione non è stata attuata. In primo luogo, il mantenimento dell’indipendenza della Banca d’Italia, sancita e tutelata dal Trattato europeo sull’Unione economica e monetaria, avrebbe richiesto la predisposizione di un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza. Questa, come è stato più volte riconosciuto dalla Banca centrale europea, non è stata in alcun modo compromessa dall’assetto a partecipazione privata. In secondo luogo, lo Stato avrebbe dovuto indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti. La misura dell’indennizzo era incerta e ardua da determinare. Si è arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro; cfr. il documento Aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia). In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe
stata a carico del bilancio pubblico, cioè del contribuente.
2. Effetti sui bilanci dei partecipanti al capitale (Questa riforma non si risolve in
un regalo alle banche?)
La riforma ha due effetti fondamentali: il primo è quello di allargare la platea dei
partecipanti al capitale della Banca, in modo che ciascuno ne detenga una quota
piccola (non superiore al 3%, dice ora la legge; questo consente di eliminare
qualsivoglia dubbio, anche formale, che una concentrazione di quote in capo a un
singolo partecipante possa condizionare in qualche modo l’azione della banca
centrale); il secondo è quello di risolvere definitivamente un’ambiguità presente nello
statuto della Banca d’Italia fin dal 1948: i dividendi per i partecipanti erano fissati in
un modo complicato che li legava alle riserve patrimoniali della Banca, come se tali
riserve fossero di proprietà dei partecipanti stessi. Secondo il vecchio statuto, ai
partecipanti potevano essere assegnati dividendi fino al 4% delle riserve complessive;
queste erano pari a circa 15 miliardi nell’ultimo bilancio, quindi i partecipanti
avrebbero potuto ricevere l'anno scorso fino a 600 milioni in dividendi, anche se ne
hanno ottenuti solo 70, pari allo 0,5%. Ma le riserve nel patrimonio della Banca si
accumulano anno dopo anno grazie ai proventi dell’attività classica di una banca
centrale, il “battere moneta”. In quanto derivanti da una tipica attività di interesse
pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della
Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i
quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca,
diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati. Questo viene
chiarito con la riforma.
Allo stesso tempo viene affrontato un altro problema posto dal vecchio statuto: la possibilità che i dividendi per i partecipanti, essendo fissati come quota delle riserve, potessero crescere indefinitamente in cifra nominale al crescere delle stesse. Dieci anni fa erano stati pagati dividendi per 45 milioni, lo scorso anno per 70, con una progressione potenzialmente infinita. Con la riforma, i dividendi sono ora una quota (non più del 6%) del capitale in senso stretto, il quale è espresso in cifra fissa (7,5 miliardi): quindi, i dividendi non potranno mai eccedere i 450 milioni. Quelli che saranno effettivamente pagati dipenderanno ovviamente ogni anno dalle condizioni del bilancio; tuttavia, l’intero esercizio è costruito in modo che vi sia equivalenza tra i flussi complessivi di dividendi calcolati con i criteri pre e post riforma.
Quanto all’osservazione da più parti avanzata che la rivalutazione delle quote
aumenterebbe “artificialmente” i patrimoni delle banche partecipanti, va notato che
essa consente di riportare il valore di bilancio della partecipazione su livelli più
coerenti con la realtà dei fatti. Ai fini della valutazione dei rapporti di capitale che le
banche devono rispettare come requisiti di vigilanza, il patrimonio cosiddetto “di
migliore qualità” potrà in effetti aumentare in relazione alla disciplina del
Regolamento europeo; da quest’anno, tali requisiti non sono più oggetto di norme
nazionali; questo è coerente con il fatto che la riforma rimuove le caratteristiche di
immobilizzo permanente delle quote. L’aumento sarebbe di circa 40 punti base per la
media delle banche partecipanti oggi al capitale. Questo incremento non è un
artificio, ma dipenderà dall’applicazione delle norme contabili internazionali.
Comunque, non potrà essere incluso nel capitale iniziale valido ai fini dell’asset
quality review delle maggiori banche europee condotto dall’Eurosistema in vista del
lancio del Meccanismo unico di vigilanza, in quanto a tal fine si applicano i filtri
prudenziali previsti nelle norme della Banca d’Italia.
Ecco la prima parte:
Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5
1. Natura e proprietà della Banca d’Italia (È vero che la Banca d’Italia viene
privatizzata?)
La Banca d’Italia era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, né mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi. Per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d’Italia già aveva una forma giuridica associativa, e che ricordava quella di una società per azioni; le quote di partecipazione al capitale erano distribuite tra banche ed enti di assicurazione e previdenza, per la maggior parte divenuti dagli anni Novanta di natura privata. La riforma crea le condizioni perché i partecipanti al capitale non siano più in pochi, come oggi, ma in tanti; non solo banche e compagnie assicurative, ma anche fondi pensione e fondazioni. È un
modello non dissimile da quello delle banche centrali di due tra i maggiori paesi del mondo avanzato, gli Stati Uniti e il Giappone. Nessuno mai penserebbe di considerare “private” la Federal Reserve americana o la Banca del Giappone.
La “Legge sul risparmio” del 2005 p
revedeva, tra l’altro, il passaggio del capitale
sociale della Banca allo Stato. Negli anni seguenti questa previsione non è stata attuata. In primo luogo, il mantenimento dell’indipendenza della Banca d’Italia, sancita e tutelata dal Trattato europeo sull’Unione economica e monetaria, avrebbe richiesto la predisposizione di un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza. Questa, come è stato più volte riconosciuto dalla Banca centrale europea, non è stata in alcun modo compromessa dall’assetto a partecipazione privata. In secondo luogo, lo Stato avrebbe dovuto indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti. La misura dell’indennizzo era incerta e ardua da determinare. Si è arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro; cfr. il documento Aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia). In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe
stata a carico del bilancio pubblico, cioè del contribuente.
2. Effetti sui bilanci dei partecipanti al capitale (Questa riforma non si risolve in
un regalo alle banche?)
La riforma ha due effetti fondamentali: il primo è quello di allargare la platea dei
partecipanti al capitale della Banca, in modo che ciascuno ne detenga una quota
piccola (non superiore al 3%, dice ora la legge; questo consente di eliminare
qualsivoglia dubbio, anche formale, che una concentrazione di quote in capo a un
singolo partecipante possa condizionare in qualche modo l’azione della banca
centrale); il secondo è quello di risolvere definitivamente un’ambiguità presente nello
statuto della Banca d’Italia fin dal 1948: i dividendi per i partecipanti erano fissati in
un modo complicato che li legava alle riserve patrimoniali della Banca, come se tali
riserve fossero di proprietà dei partecipanti stessi. Secondo il vecchio statuto, ai
partecipanti potevano essere assegnati dividendi fino al 4% delle riserve complessive;
queste erano pari a circa 15 miliardi nell’ultimo bilancio, quindi i partecipanti
avrebbero potuto ricevere l'anno scorso fino a 600 milioni in dividendi, anche se ne
hanno ottenuti solo 70, pari allo 0,5%. Ma le riserve nel patrimonio della Banca si
accumulano anno dopo anno grazie ai proventi dell’attività classica di una banca
centrale, il “battere moneta”. In quanto derivanti da una tipica attività di interesse
pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della
Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i
quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca,
diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati. Questo viene
chiarito con la riforma.
Allo stesso tempo viene affrontato un altro problema posto dal vecchio statuto: la possibilità che i dividendi per i partecipanti, essendo fissati come quota delle riserve, potessero crescere indefinitamente in cifra nominale al crescere delle stesse. Dieci anni fa erano stati pagati dividendi per 45 milioni, lo scorso anno per 70, con una progressione potenzialmente infinita. Con la riforma, i dividendi sono ora una quota (non più del 6%) del capitale in senso stretto, il quale è espresso in cifra fissa (7,5 miliardi): quindi, i dividendi non potranno mai eccedere i 450 milioni. Quelli che saranno effettivamente pagati dipenderanno ovviamente ogni anno dalle condizioni del bilancio; tuttavia, l’intero esercizio è costruito in modo che vi sia equivalenza tra i flussi complessivi di dividendi calcolati con i criteri pre e post riforma.
Quanto all’osservazione da più parti avanzata che la rivalutazione delle quote
aumenterebbe “artificialmente” i patrimoni delle banche partecipanti, va notato che
essa consente di riportare il valore di bilancio della partecipazione su livelli più
coerenti con la realtà dei fatti. Ai fini della valutazione dei rapporti di capitale che le
banche devono rispettare come requisiti di vigilanza, il patrimonio cosiddetto “di
migliore qualità” potrà in effetti aumentare in relazione alla disciplina del
Regolamento europeo; da quest’anno, tali requisiti non sono più oggetto di norme
nazionali; questo è coerente con il fatto che la riforma rimuove le caratteristiche di
immobilizzo permanente delle quote. L’aumento sarebbe di circa 40 punti base per la
media delle banche partecipanti oggi al capitale. Questo incremento non è un
artificio, ma dipenderà dall’applicazione delle norme contabili internazionali.
Comunque, non potrà essere incluso nel capitale iniziale valido ai fini dell’asset
quality review delle maggiori banche europee condotto dall’Eurosistema in vista del
lancio del Meccanismo unico di vigilanza, in quanto a tal fine si applicano i filtri
prudenziali previsti nelle norme della Banca d’Italia.
01 febbraio 2014
Il vostro computer sarà rubato, sappiatelo
Efficienza è una parola poco nota, in Italia, ma a volte l'inefficienza diventa la regola.
Non sappiamo offrire un servizio decente? Allora non lo offriamo proprio.. e facciamo il possibile perchè non ce lo chiedano. Sembra essere questa la logica di Alitalia, che nelle condizioni generali di trasporto - diritti dei passeggeri (vedi qui) prevede la possibilità di portare in cabina il bastone da passeggio, le stampelle o la culla di un neonato, ma anche il personal computer.
Perchè il computer viene paragonato a un paio di stampelle? Semplice: metterlo nella stiva significa farselo rubare. E lo sanno così bene che al punto 9.2 Alitalia stabilisce il divieto di mettere in valigia e quindi nella stiva: "oggetti di valore oggetti di valore, fragili o deperibili, denaro, gioielli,
metalli preziosi, argenteria, computer e loro accessori, congegni o apparecchi elettronici per uso
personale, macchine ed equipaggiamenti fotografici, titoli negoziabili, titoli di credito, titoli di stato,
azionari e obbligazionari od altri valori, documenti di lavoro, di affari o commerciali, passaporti ed
altri documenti di identificazione personale, campionari, cimeli, antichità, prodotti di artigianato o
di antiquariato, di valore, opere d’arte, edizioni librarie rare, pubblicazioni o manoscritti di valore".
Insomma -sembra dire Alitalia- l'aeroporto non è un luogo sicuro. Gli addetti ai bagagli se possono vi rubano tutto e noi lo diciamo chiaramente. Inutile provare a cambiare, inutile assicurare il passeggero. Non mettete in valigia gli oggetti di valore, che è meglio.
Non sappiamo offrire un servizio decente? Allora non lo offriamo proprio.. e facciamo il possibile perchè non ce lo chiedano. Sembra essere questa la logica di Alitalia, che nelle condizioni generali di trasporto - diritti dei passeggeri (vedi qui) prevede la possibilità di portare in cabina il bastone da passeggio, le stampelle o la culla di un neonato, ma anche il personal computer.
Perchè il computer viene paragonato a un paio di stampelle? Semplice: metterlo nella stiva significa farselo rubare. E lo sanno così bene che al punto 9.2 Alitalia stabilisce il divieto di mettere in valigia e quindi nella stiva: "oggetti di valore oggetti di valore, fragili o deperibili, denaro, gioielli,
metalli preziosi, argenteria, computer e loro accessori, congegni o apparecchi elettronici per uso
personale, macchine ed equipaggiamenti fotografici, titoli negoziabili, titoli di credito, titoli di stato,
azionari e obbligazionari od altri valori, documenti di lavoro, di affari o commerciali, passaporti ed
altri documenti di identificazione personale, campionari, cimeli, antichità, prodotti di artigianato o
di antiquariato, di valore, opere d’arte, edizioni librarie rare, pubblicazioni o manoscritti di valore".
Insomma -sembra dire Alitalia- l'aeroporto non è un luogo sicuro. Gli addetti ai bagagli se possono vi rubano tutto e noi lo diciamo chiaramente. Inutile provare a cambiare, inutile assicurare il passeggero. Non mettete in valigia gli oggetti di valore, che è meglio.
Iscriviti a:
Post (Atom)