31 ottobre 2013

Pensioni di guerra

Sapete quanto si spende in pensioni di guerra?

822 milioni l'anno, secondo il bilancio dello Stato in forma ridotta scaricabile dal sito della ragioneria dello stato. Se ogni pensione costasse in media 20.000 euro l'anno, si tratterebbe di oltre 41. 000 pensioni. A quasi 70 anni dalla fine dell'ultima guerra. Incredibile.. o forse c'è altro?

Forse nelle pensioni di guerra ci sono anche spese relative a chi ha perso la vita o è rimasto invalido nelle cosiddette missioni di pace, come ad esempio la disgraziatissima avventura in Somalia dei primi anni '90?

Se è così almeno sarebbe opportuno ricordarsi dell'articolo 11 e non chiamarle pensioni di guerra...

30 ottobre 2013

Libri: Soldi, Galbraith

Si intitola Soldi, ma si dovrebbe intitolare Storia della moneta.

La Rizzoli ripropone un vecchio (l'edizione americana è del 1975, in Italia è stato pubblicato nel 1997) libro di John Kenneth Galbraith, economista canadese, grande divulgatore ma anche consulente di Kennedy, morto quasi centenario nel 2006.

Decisamente un bel libro. Non è una storia della moneta in stile accademico. Non ci sono grafici e numeri. E' un saggio piuttosto leggero, pieno di considerazioni intelligenti che aiutano a capire i meccanismi di funzionamento della moneta nel corso della storia.

Una lettura utile, da consigliare soprattutto a chi la spara grossa su argomenti come euro e emissione della moneta, a cominciare dai signoraggisti.

28 ottobre 2013

Teletrasporto

Chiunque abbia visto almeno una puntata di Star Trek sa bene cosa sia il teletrasporto.

Per chi non lo sapesse, Star Trek racconta le avventure di una nave spaziale che incontra pianeti e popoli spesso ostili. Per passare dall'astronave a un pianeta o ad un'altra astronave, i protagonisti della serie usano il teletrasporto. Entrano in una stanza, azionano una macchina, la loro immagine si dissolve e riappaiono altrove.

E' forse l'effetto più famoso di Star Trek. Quello che molti non sanno è che il teletrasporto venne inventato per questioni economiche.

Il progetto di Star Trek non ha entusiasmato la NBC, e, all'inizio, neanche il pubblico americano. Cosi registi e produttori hanno dovuto fare i conti con un budget limitato. Come trasportare i protagonisti dall'astronave Enterprise alla superficie di un pianeta?

Avrebbero potuto costruire un'apposita astronave, ma non avevano i soldi. Aguzzarono l'ingegno e inventarono così il teletrasporto: fantasioso e conveniente.

27 ottobre 2013

Grande distribuzione: rivincita degli italiani

Da alcuni mesi in un grande supermercato vicino a casa è iniziata una lenta ristrutturazione.

Dopo 20 anni l'edificio aveva bisogno di qualche restauro, e la proprietà, una catena di distribuzione francese, ne ha approfittato per rinnovare anche arredi, i prodotti, disposizioni delle merci, insomma un pò di tutto. Hanno rifatto a tappe il pavimento e introdotto nuovi servizi come

E' colpa della crisi, che spinge a innovare per cercare di non far diminuire il fatturato, ma c'è altro. Le due catene di distribuzione francesi molto presenti in Italia, Carrefour e Auchan, stanno perdendo terreno, superate dagli italiani.

E' una sorpresa. In testa alla graduatoria della distribuzione in Italia ci sono Coop e Conad, seguite dal gruppo Selex, che unisce diversi marchi come A&O e Famila, e Esselunga. Poi, al quinto e al sesto posto, i francesi di Carrefour e Auchan.

Fino a qualche anno fa i francesi occupavano il terzo e il quarto posto e per molti erano destinati a scalare le classifiche (ricordate le dichiarazioni di Tremonti sugli italiani che avevano venduto i supermercati ai francesi o di Grillo secondo cui la TAV Torino-Lione servirebbe a portare in Italia le merci francesi?). Oggi Carrefour e Auchan hanno perso posizioni e corrono ai ripari. 

I grandi supermercati all'interno dei centro commerciali costruiti in periferia attirano di meno il cliente per tre ragioni.

La prima è che i clienti, per spendere meno, preferiscono lasciare a casa l'auto e recarsi al supermercato più piccolo ma più vicino a casa.

La seconda ragione è che risparmiare sulla spesa significa evitare i grandi acquisti una volta a settimana per evitare di comprare troppe cose e in quantità eccessiva. Per evitare gli sprechi è meglio acquistare l'indispensabile più volte a settimana.

La terza ragione è che qualità per molti significa comprare il prodotto locale venduto in piccola quantità da un supermercato non troppo grande, in cui sia possibile instaurare un rapporto con il personale un pò come succedeva un tempo nel negozio sotto casa.

Dunque i supermercati più piccoli e vicini al consumatore stanno attirando clienti e costringono chi, come i francesi, ha puntato sui grandissimi spazi a rivedere le strategie di vendita. Con qualche ritardo, perché la "testa" dei grandi gruppi è altrove. Così gli italiani, più veloci a capire cosa vuole il cliente italiano, prevalgono su chi invece può cambiare strategia ma solo con l'approvazione della casa madre, che si trova al di là delle alpi.






26 ottobre 2013

Siro Lombardini

E' morto oggi a 89 anni Siro Lombardini, economista nato a Milano che però ha trascorso a Torino gran parte della sua carriera universitaria.

Non è stato solo un brillantissimo economista di fama internazionale. E' stato anche ministro delle partecipazioni statali, presidente della Banca Popolare di Novara, con l'ingrato compito di risanare l'istituto in difficoltà.

E' stato anche antifascista cattolico, che si ribellava alle ideologie e cercava di mettere in guardia i giovani dai rischi della massificazione.

Personalmente lo ricordo in una serata presso il mio ex liceo. Andai a sentirlo insieme a due compagni di università, c'era poca gente, ci sedemmo nelle prime file. Mi aspettavo un economista famoso che illustrasse teorie di non immediata comprensione.

Invece trovai una persona che univa le ottime conoscenze economiche, la sua cultura cattolica e, in generale, umanistica, molto buon senso, molto senso pratico e molta attenzione al futuro.

Futuro che quella sera era rappresentato da noi, tre studenti di economia incuriositi dal famoso economista, desideroso non solo di rispondere a una nostra domanda, ma anche di stringerci la mano e farci i complimenti.

23 ottobre 2013

Sicurezza e lavoro

So già di scrivere qualcosa di politicamente scorretto e di attirarmi parecchie critiche, però spero di stimolare la riflessione sull'argomento.

Recentemente sto frequentando il corso per datori di lavoro per responsabile per la sicurezza. Faccio presente che la mia "azienda" conta un dipendente (e la donna delle pulizie) e che la stessa dipendente deve frequentare il corso come rappresentante dei lavoratori (cioè di se stessa) per la sicurezza e ho avuto modo di scambiare alcune opinioni in maniera abbastanza vivace con i docenti.

La causa di tutto questo è il monumentale decreto 81/2008 che prevede una serie di obblighi a carico dei datori di lavoro al momento dell'assunzione del primo dipendente. Le critiche mosse da noi discenti erano sostanzialmente di tipo economico: tutti siamo consci che la sicurezza sul lavoro è importante, importantissima e che gli incidenti e le malattie professionali dovrebbero essere zero, ma come si conciliano con i costi connessi alla sicurezza? E soprattutto con la cultura necessaria per la sicurezza e con le tante scelte scomode che la politica per prima dovrebbe fare e che scarica sulle imprese?

Ma andiamo con ordine. Il decreto 81 prevede una serie di adempimenti a carico del datore di lavoro molto onerosi sia dal punto di vista dei costi (o del tempo necessario), sia dal punto di vista sanzionatorio, sia penale che civile. Considerate che in un'azienda perfetta, dove tutti rispettano la sicurezza in maniera impeccabile, in caso di infortunio il responsabile è il datore di lavoro.... sembra assurdo ma è così: si tende ad escludere l'imponderabile, tutto può essere previsto ed evitabile.

Ma fin dove si arriva ragionando così? E chi si assumerà il rischio e i costi connessi in caso di incidenti o malattie professionali?

I problemi sono terribili per le aziende piccole, le quali hanno più o meno gli stessi adempimenti di quelle grandi, con la differenza che in quelle piccole è il titolare (o l'amministratore) a dover fare tutto: fare i corsi, comprare le scarpe antinfortunistica, imporle ai dipendenti, controllare che le mettano e verificare che seguano tutte le prescrizioni. E se c'è un incidente?

Bisogna sperare che non ci sia: in caso di decesso le procure aprono fascicoli d'ufficio per omicidio colposo a carico del datore di lavoro e l'INAIL, se si omette anche un particolare negli adempimenti per la sicurezza, si rivale sull'impresa e in caso di decesso, parliamo anche di milioni di Euro. E questo significa la rovina per tutti, sia per il lavoratore deceduto, sia per l'imprenditore, sia per gli altri dipendenti, perché nella maggior parte dei casi l'impresa chiude!

Il problema sta proprio nel coniugare la sicurezza con l'economicità: come comportarsi se a causa della sicurezza (assoluta) un'attività diventa antieconomica?

Faccio alcuni esempi

Il docente accennava alla pericolosità del trattore in agricoltura e io ho proposto, per eliminare gli incidenti sui posti di lavoro di eliminare i trattori: in questo modo non si avrebbe più alcun caso di ribaltamento e incidenti. In maniera più economica si potrebbe installare un rollbar, che però non eliminerebbe del tutto il rischio in caso di ribaltamento. Poniamo (caso reale) che il nostro dipendente guidatore di trattore sia punto da un'ape e, essendo allergico, muore. Il datore di lavoro sarebbe responsabile perché avrebbe dovuto chiedergli un certificato sulle allergie, dotarlo di un antidoto e non mandarlo in giro da solo (è difficile autoiniettarsi un siero in shock anafilattico...).

E' chiaro, al di la di qualunque considerazione che si rischia, ragionando così, di arrivare all'assurdo: qualunque evento è evitabile in linea di principio, anche le pioggie di meteoriti, ma quale è il prezzo da pagare?

Facciamo un altro esempio.

Se l'ILVA (e tante altre aziende in Italia) inquina e provoca un aumento dei tumori tutt'intorno, allora perché tante remore a chiuderla?
Forse perché impiega 20.000 dipendenti e causerebbe un disastro economico a Taranto?
Però è' pericolosa, quindi va chiusa, esattamente come tutte le attività potenzialmente pericolose! E' possibile produrre acciaio in maniera assolutamente pulita a un prezzo concorrenziale, cioè che l'acciaio prodotto non costi 10 € al Kg? Se la risposta è no, allora non ci sono soluzioni: niente malattie e incidenti e chiusura immediata dell'azienda!

E' molto facile e vigliacco per la politica sanzionare ex post, la politica dovrebbe avere il coraggio e la responsabilità di dire che è impossibile produrre acciaio senza inquinare quindi l'azienda va chiusa subito e i dipendenti farebbero bene a trovarsi immediatamente un altro lavoro! E questo per tutte le aziende inquinanti in Italia, con il solo dettaglio che a quel punto la sicurezza sul lavoro diverrebbe superflua, perché non ci sarebbe più lavoro.

Il futuro sarà molto difficile per le aziende siderurgiche, petrolchimiche, chimiche, manifatturiere, edili, meccaniche! Cioè appartenenti a settori dove escludere del tutto incidenti è molto, ma molto difficile e sicuramente molto costoso.

Il futuro sarà la desertificazione industriale dell'Italia (in atto anche per altri motivi...) e il conseguente spostamento delle aziende inquinanti in altri paesi? Perché sporcare qui? Sporchiamo altrove!
I milioni di posti di lavoro persi in questi ultimi anni (e quelli che perderemo nell'industria prossimamente), non li recupereremo più, perché chi rischierebbe di aprire aziende minimamente pericolose qui in Italia? Voi lo fareste?

22 ottobre 2013

Semafori a LED: quanto si risparmia?

Quanto risparmiano i comuni se sostituiscono le lampadine nei semafori cittadini adottando i LED?


Il progetto dello scorso anno del comune di Milano (vedi qui) suppone un risparmio enorme, superiore al 90%. Analoghe sono le percentuali di risparmio secondo il comune di Capannori (vedi qui) mentre a Bressanone l'ing. Tarolli valuta il risparmio "fino all'80%" (vedi qui), come anche a Trieste (vedi qui).

A Bergamo il risparmio è tra il 70 e l'80%, a Pordenone (vedi qui) il risparmio di energia elettrica è attorno al 60%, a Genova si prevedeva un risparmio di spesa della metà circa (vedi qui), mentre a Torino (vedi ad esempio qui) la sostituzione di tutti i semafori risparmiare tra il 65% e il 75% di energia.

Insomma, il risparmio c'è ed è e vidente ma è a macchia di leopardo. Ogni comune dichiara risparmi, veri o potenziali, diversi.

21 ottobre 2013

Domande su IMU e TASI

L'IMU sulla prima casa non c'è più ma arriva la TASI, che in aggiunta a un'altra imposta calcolata sulla superficie degli immobili, darà vita alla TRISE.

La TASI avrà come imponibile lo stesso imponibile dell'IMU. L'aliquota di base sarà l'un per mille contro il 4 dell'IMU, aumentabile fino al 2,5 per mille. Niente esenzioni, previste invece nel caso dell'IMU.

I conti dicono che gli introiti derivanti dalla TASI non saranno molto diversi da quelli generati dall'IMU sulla prima casa. Ma come è possibile se l'aliquota è decisamente più bassa?

Dall'IMU erano esentate molte famiglie. I 200 euro di esenzione magari con l'aggiunta dei 50 per ogni figlio erano sufficienti a esentare molte famiglie. Tenuto conto dell'aliquota minima al 4 per mille, ciò significa che le famiglie esenti vivono in immobili che per il fisco valgono non più di 50.000 euro.


Sono dati realistici? A mio avviso no, la vecchia IMU era poco equa perchè il catasto offre valori poco realistici. E in alcuni casi offre situazioni paradossali, come dimostra questo articolo di Repubblica secondo il quale nella città di Genova esistono oltre 6000 case signorili, anche in quartieri popolari, e risultano esserci 62 castelli, secondo il catasto aggiornato oltre 70 anni fa.

Dati che appaiono ancora più assurdi se si considera che gli immobili di lusso nel capoluogo ligure sono oltre il doppio, sempre secondo i dati catastali, di quelli di Milano, nonostate Milano sia una città indubbiamente più popolosa e con un reddito medio più elevato.

La TASI ha forse qualche vantaggio: se in un comune i valori catastali fossero più altri di quelli di un altro comune, ma entrambi hanno bisogno di somme simili, il comune con valori catastali più elevati applicherà aliquote inferiori e i proprietari di immobili si troveranno a pagare somme simili.

Inoltre porrà un problema. Supponiamo che una famiglia possieda un immobile del valore di 100.000 euro (supponiamo 70.000 secondo il catasto) e un'altra un immobile che vale 300.000 euro (210.000 secondo il catasto). Il rapporto tra i due valori è 1 a 3. Con un'aliquota IMU al 4 per mille e 200 euro di detrazione, la prima famiglia paga 80 euro, l'altra 640 euro.

Il rapporto tra i valori degli immobili è 1 a 3 ma il rapporto tra le imposte è 1 a 8.

Con la TASI all'1 per mille, una pagherà 70 euro, l'altra 210. Si ritorna al rapporto 1 a 3.

Ora, considerando solo il rapporto tra le imposte cos'è meglio? l'IMU o la TASI? è meglio che il rapporto tra le imposte sia simile al rapporto tra i valori degli immobili o che una detrazione favorisca chi ha una casa di minore valore?

E sono accettabili i valori irrealistici che hanno esentato molte famiglie dal pagamento dell'IMU?

19 ottobre 2013

Stabilità

Si può fare una legge di stabilità che sia generosa verso i consumatori, le imprese e lo stato rispettando il vincolo di bilancio imposto dai patti europei e dalla necessità di non far salire i tassi di interesse?

Certo che no. Si spiegano così i tanti mal di pancia di fronte al progetto del governo, al punto da portare Mario Monti a dimettersi da Scelta Civica e Stefano Fassina a minacciare, per ora, di lasciare il governo.

Monti (e insieme a lui Fassina) avrebbero voluto mantenere l'IMU sulla prima casa, che invece il Pdl ha preteso prima di eliminare e poi di trasformare in una service tax finalmente federalista. Uno dei tanti contrasti tra forze politiche che offrono valori e politiche differenti.

Impossibile accontentarli tutti, e quindi s'è scelto il compromesso: un pò di soldi ai lavoratori, un pò di detrazioni in meno, un pò di imposta sulla casa, un pò di federalismo e così via.

Tutti un pò contenti e tutti delusi, con qualcuno che se ne va perché le sue proposte non sono state prese in considerazione.


Leggendo le proposte (vedi qui) mi pare che un indubbio merito la legge di stabilità ce l'abbia: si punta a non creare ulteriori squilibri, a non creare shock.

Due anni fa Mario Monti introdusse nella sua legge di stabilità molte novità, a cominiciare dall'IMU. L'austerità ha messo al tappeto l'economia, facendo crollare PIL, consumi e occupazione e creando un'Italia più insicura e instabile.

Per far crescere l'Italia servirebbero provvedimenti nella direzione opposta: meno imposte, più investimenti. Non è possibile, ma almeno si possono evitare altri shock all'economia, con una manovra che cerchi di distribuire i sacrifici.

E' questo l'aspetto positivo della legge di stabilità: sembra ispirata al nome della legge, promette stabilità per i cittadini che devono fare i conti con una pressione fiscale elevata e temono di dover fare i conti con nuove imposte, cerca di far intravedere agli italiani un futuro non roseo ma più tranquillo, che permetta a molti di incominciare a spendere qualche soldo in più, senza il timore di novità clamorose che spingono i consumatori a risparmiare di più e spendere di meno.




17 ottobre 2013

Moratti

Nei giorni scorsi si è conclusa la lunghissima trattativa tra Massimo Moratti e Erik Thohir per la compravendita dell'Inter. 250 milioni sono passati dall'imprenditore indonesiano a Moratti, che ha ceduto il 70% della società calcistica.

Si chiude così una storia durata 18 anni nei quali Moratti ha ottenuto risultati economici disastrosi: oltre un miliardo di euro spesi per coprire le perdite della squadra, a cui ha regalato molti giocatori costosi e pagati profumatamente.

I 250 milioni che incassa dalla vendita della maggioranza dell'Inter servono in gran parte a ripagare le banche, verso le quali Moratti si era indebitato personalmente, riducendo i debiti dell'Inter. Una cinquantina di milioni resteranno invece nelle tasche del quasi ex presidente, che ha pagato carissimo il sogno di imitare i successi calcistici del padre, proprietario dell'Inter negli anni '70.

E come il padre, Moratti non ha badato a spese, comprando molti giocatori e soprattutto offrendo loro contratti generosissimi. I conti dell'Inter hanno così presentato grandi perdite che Moratti ha coperto di tasca propria.

Almeno finchè ha potuto, ovvero fino a quando la Saras, l'impresa di famiglia che raffina petrolio, ha distribuito utili. Poi Moratti ha cercato di rimettere in sesto i disastrati conti della società, riuscendovi solo in parte perchè la rinuncia a giocatori importanti ha provocato il peggioramento dei risultati calcistici e, con essi, un calo preoccupante delle entrate.

Basti pensare che in tre anni l'Inter è passata dalla vittoria della Champions League, che significa decine di milioni di entrate tra premi, diritti tv e introiti dello stadio, alla mancata qualificazione in Europa League e quindi un desolante zero alla voce entrate da competizioni internazionali.

E ora? Thohir e i suoi soci indonesiani non sembrano intenzionati a spendere soldi che non recupereranno. Anzi l'imprenditore dei media indonesiani ha ceduto una quota che possedeva in una squadra di basket americana per finanziare l'operazione di acquisto dell'Inter.

E' quindi probabile che l'Inter per la prima volta in due decenni sarà costretta a camminare con le sue gambe, spendendo soltanto i soldi generati da biglietti, diritti tv, sponsor ecc.

Cercheranno di vendere il prodotto Inter in patria, organizzeranno tournè, cercheranno sponsor internazionali, offriranno a marchi indonesiani la possibilità di farsi conoscere in Europa. Ma sarà sufficiente tutto ciò a far ripetere all'Inter i risultati del passato? O Thohir e soci stanno solo cercando un modo di far soldi magari rivendendo in futuro una società risanata?

Di sicuro, oggi, c'è solo che il modello Moratti, fatto di spese folli coperte dal padrone del vapore, ha perso. E non solo nel calcio. La Saras raffinando petrolio ormai non genera più utili dal 2008 e altri petrolieri, i Garrone proprietari della ERG e di un'altra squadra di calcio, la Sampdoria, hanno ormai ceduto le loro attività di raffinazione, per concentrarsi su altri business più interessanti e remunerativi.

16 ottobre 2013

Alitalia

Si fa un gran parlare in questi giorni del caso Alitalia, degli errori del passato e delle prospettive future.

Discussioni che sembrano svolgersi tra persone che non hanno mai letto i numeri di Alitalia e preferiscono ripetere le tesi del 2008, secondo le quali Alitalia non può vivere da sola e deve per forza essere venduta a Airfrance o a un altro vettore.

Idea importante e condivisibile, ma con qualche necessaria osservazione.

Alitalia ha iniziato la propria storia con una perdita di oltre 260 milioni nel 2009, registrati tutti nella prima parte dell'anno. Il 2009 è stato, lo ricordiamo, un anno disastroso: il PIL  è crollato di quasi il 5% in seguito al fallimento di Lehman Brothers del settembre 2008 e allo scoppio della crisi.

In 2010 invece ha visto la ripresa dell'economia: il PIL è salito di quasi un punto e mezzo e il bilancio di Alitalia si ferma a una perdita di circa 72 milioni, con un risultato operativo lordo di 66 milioni.

Nell'anno successivo, il 2011, i conti migliorano: il risultato operativo della società sfiora la parità (e le perdite si attestano a 69 milioni).

E' un dato importante perchè significa che Alitalia è vicina al pareggio, al netto di interessi, oneri straordinari e imposte, ovvero considerando solo i costi e i ricavi connessi al trasporto di passeggeri.

E questo nonostante eventi imprevedibili come le rivolte arabe o il terremoto di Fukujima abbiano creato grossi problemi alla redditività della compagnia aerea, riducendo i ricavi delle rotte verso Giappone e nord Africa.

Poi la situazione di Alitalia è andata peggiorando, come l'economia italiana in recessione nel 2012 e nel 2013, con perdite che adesso gli azionisti preferirebbero non coprire più, abbandonando la compagnia al suo destino o cedendola a Airfrance.

Il tentativo di creare valore e cedere Alitalia incassando un buon prezzo oppure di tenerla in vita come società autonoma di proprietà di imprenditori italiani è fallito.

In parte per effetto della crisi, visto che quando l'economia italiana è cresciuta anche i conti di Alitalia sono migliorati. E in parte perché il settore è pieno di incognite, dipendendo dal prezzo del petrolio, da avvenimenti internazionali imprevedibili, che possono trasformare alcune tratte in fonti di forti perdite, e da una concorrenza molto forte che riduce i margini di profitto.

14 ottobre 2013

Premio Nobel 2013

Quest'anno il Nobel per l'economia è andato a tre americani: Eugene Fama, Robert Shiller e Lars Peter Hansen, che hanno contribuito a spiegare come funzionano i mercati finanziari.

I tre economisti sono uniti dal tentativo di prevedere l'andamento dei mercati azionari e delle obbligazioni.

Previsione praticamente impossibile nel breve periodo, vale a dire nell'arco di giorni o settimane. Mentre invece è possibile fare previsioni su un arco temporale più lungo. Come?

Studiando i dati, formulando ipotesi sull'andamento dei mercati e cercando conferme alle ipotesi attraverso l'uso di modelli econometrici.

Eugene Fama alla fine degli anni '60 studiò il modo in cui i prezzi dei titoli reagiscono alle notizie di split azionari (frazionamenti azionari in italiano, ovvero la pratica di aumentare il numero delle azioni di una società, assegnando nuove azioni gratuitamente agli azionisti) scoprendo che i mercati incorporano nei prezzi le nuove informazioni molto velocemente e che se invece il processo è lento, allora l'evoluzione del prezzo delle azioni è facilmente prevedibile.

Un decennio più tardi, nel 1981, Robert Shiller ha dimostrato che il prezzo delle azioni non rispecchia sempre il valore dei dividendi futuri attesi e per questo è molto volatile, con la conseguenza di poter prevedere in alcuni casi l'andamento delle azioni: se il prezzo è troppo alto rispetto al dividendo atteso, in futuro diminuirà.

Lars Peter Hansen invece l'anno dopo ha costruito il Generalized Method of Moments (GMM), utile per testare il CCAPM. Cos'è il CCAPM? E' una versione di un modello di equilibrio dei mercati finanziari, come spiega wikipedia, secondo la quale "il CAPM stabilisce una relazione tra il rendimento di un titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, detto beta".

Il CAPM si trova in molti libri di economia e pare, a prima vista, un modello incapace di spiegare il vero andamento del valore di un'azione. Hansen ha dimostrato, usando la GMM, che il CCAPM non è un buon modello, e confermato implicitamente la tesi di Shiller sulla volatilità dei prezzi delle azioni.

Tante le implicazioni dei lavori dei Nobel e gli studi nati sulle orme degli studi dei tre economisti, premiati con il Nobel.




12 ottobre 2013

Motorshow

Anni fa a Torino c'era il salone dell'auto, frequentatissimo. Le novità automobilistiche targate Fiat e non solo attiravano migliaia di persone.

La crisi economica dell'inizio degli anni 2000 uccise il salone. Nel 2002 la società organizzatrice, che a Bologna gestiva il Motorshow, disse basta, niente più salone a Torino.

Qualcuno sospettò che la fine del salone dell'auto fosse una mossa strategica per favorire le attività a Bologna, un candidato sindaco fece del ritorno del salone a Torino un punto forte della sua campagna elettorale.

La realtà era banale: alcuni big dell'auto avevano disertato la manifestazione torinese anche se erano stati proposti spazi espositivi gratuiti perchè il costo della partecipazione al salone non era giustificato in presenza di un mercato dell'auto in calo. Inutile mostrare auto che nessuno poi comprerà.

L'annullamento del Motorshow di Bologna ripropone lo stesso schema, 11 anni dopo: i big dell'auto hanno deciso di non partecipare e la manifestazione è stata annullata.

Ma non c'è solo la crisi da raccontare. Negli anni successivi lo spazio del salone dell'auto è stato occupato da altre manifestazioni di grande popolarità, come il salone del libro e il salone del gusto. Le folle oceaniche che un tempo facevano la coda per vedere le Ferrari oggi si occupano di vini, formaggi e libri. L'economia si modifica, anche se a volte borbotta come un motore ingolfato.

10 ottobre 2013

Effetto spiazzamento

Cos'è l'effetto spiazzamento (crowding out in inglese)?

L'idea è semplice e si può riassumere in questo modo: se una nazione risparmia 100 euro e ne usa 60 per finanziare il debito pubblico, resteranno 40 per finanziare i privati, vale a dire gli investimenti. Se aumenta il debito da finanziare, diminuiranno le risorse a disposizione degli investimenti.

L'effetto spiazzamento induce quindi alcuni economisti a sostenere la necessità di ridurre il deficit pubblico e il debito pubblico. Se accadesse, aumenterebbero le risorse a disposizione per gli investimenti privati, con evidenti benefici per l'economia.

Questa è la teoria, molto semplificata, a cui possono fare alcune obiezioni.

Non è affatto detto che il risparmio si trasformi in investimenti, che dipendono più dal buon andamento dell'economia che dalla disponibilità di capitali. L'imprenditore investe, in altri termini, per offrire beni e servizi solo se è convinto di poterli vendere, cioè se la esiste una domanda da soddisfare.

Domanda che, a livello macroeconomico, dipende dal reddito dei cittadini, vale a dire dall'andamento del PIL: se questo sale anche la domanda cresce e con essa gli investimenti.

Se però il PIL cala per effetto dei tagli alla spesa pubblica, ci sarebbero sì più capitali a disposizione per gli investimenti, ma anche condizioni meno favorevoli per investire. Il solo effetto positivo potrebbe essere un calo dei tassi di interesse.

Se diminuiscono i capitali usati per comprare titoli di stato, aumentano quelli a disposizione degli investimenti? Non necessariamente: il risparmiatore può decidere di non investire i suoi soldi o può decidere di investirli all'estero.
Quindi una riduzione del deficit e magari del debito pubblico, non significa necessariamente un aumento degli investimenti. Anzi gli investimenti e i soldi a disposizione per investire potrebbero diminuire se la riduzione del deficit deprimesse la domanda.

Chi sostiene che è meglio ridurre deficit e debito pubblico perché ci sarebbero più risorse a disposizione degli investimenti privati dovrebbe specificare quando questo può avvenire. Servono almeno due condizioni: un'economia in crescita, senza la quale gli investimenti latitano, e che i risparmiatori investano nel proprio paese, cosa non scontata in un mondo senza vincoli alla libera circolazione dei capitali.

08 ottobre 2013

Le pensioni d'oro e la demagogia


Oggi affronto un tema che è il cavallo di battaglia di tutti quelli che di pensioni ne capiscono poco e che in maniera demagogica pensano di poter risolvere i problemi dimenticando che viviamo in uno stato di diritto.

Se ci sono delle regole - ahimé - queste vanno rispettate. Al limite si cambiano, ma finché ci sono si rispettano.

Partiamo un po' indietro, dalla spiegazione dei sistemi pensionistici.

Ci sono essenzialmente due sistemi pensionistici: retributivo e contributivo. Questi sistemi, pubblici o privati, si dividono poi in due categorie: accumulo e ripartizione. Vediamo cosa significa e come funziona tutto ciò in maniera semplice, evitando di essere troppo tecnici.

Il sistema contributivo (quello attualmente in vigore in Italia) prevede che si versino dei contributi pensionistici in rapporto alla propria retribuzione. I contributi versati vengono poi rivalutati secondo un coefficente (un tasso attivo, chiamiamolo così...) esattamente come il TFR. Quindi alla fine della carriera lavorativa il totale dei contributi versati, rivalutato, costituisce il "montante retributivo".
Il montante viene diviso per gli anni rimasti in base alle statistiche sulla vita media ed erogato sotto forma di pensione.
Per fare un esempio pratico (ma non realistico, i calcoli sono molto più complessi), se verso il 33% del mio stipendio (lordo) di 2.000 € al mese per 12 mesi e 40 anni, otterrò:

2.000 x 33% x 12 x 40 = 316.800 €

Se vado in pensione a 65 anni e la vita media è - poniamo - 85, dovrò dividere per 20 anni e poi per 12 mesi per ottenere la pensione lorda (su cui pagare le tasse):

316.800 / 20 / 12 = 1.320 € (circa 1.100 € al mese netto)

Questo sistema evidentemente è creato e pensato per rimanere in equilibrio, perché si riprende quanto si era versato e all'allungarsi della vita media cambia il coefficiente e si prende meno. Ma evidentemente una volta che si va in pensione la differenza con l'ultimo stipendio (il tasso di sostituzione) è alta. Quindi bisogna rassegnarsi in vecchiaia sia ad abbassare il proprio tenore di vita che rinunciare ad aiutare i figli. Di fare i nonni, viste le prospettive di portare l'età pensionabile a 70 anni e oltre, non se ne parla proprio.

Il sistema retributivo invece prevede anche esso che si versino dei contributi in relazione alla propria retribuzione, ma poi la pensione è calcolata con un sistema slegato ai contributi versati. In pratica si prende una percentuale sulla media degli stipendi degli ultimi 5 anni.
Questo sistema, se ha l'indubbio vantaggio di avere un tasso di sostituzione molto favorevole - si arriva anche oltre l'80% dell'ultimo stipendio - ha lo svantaggio che considera solo una porzione molto piccola della vita lavorativa. Presuppone che le persone siano dipendenti a vita con sostanzialmente la stessa mansione (in questi casi le differenze con il contributivo sono piccole), ma se un soggetto fa a vita l'usciere e guadagna per 30 anni 1.200 € al mese e poi viene promosso gli ultimi 5 anni a dirigente (esagero un po'...) a 4.000 € al mese si avrà una grossa differenza tra la pensione ricevuta e i contributi versati. Facciamo due conti:

Contributi versati da usciere: 30 anni x 12 mesi x 1.200 x 33% = 142.560 €
Contributi versati da dirigente: 5 anni x 12 mesi x 4.000 x 33% = 79.200 €
Totale contributi: 221.760

Poniamo che la pensione sia il 75% della media degli stipendi degli ultimi 5 anni:

5 anni x 12 mesi /5 x 4.000 x 75% = 36.000 €

Che fa una pensione di 3.000 € al mese (2.160 € al mese netti)

Se supponiamo che il soggetto viva 20 anni (per paragonarlo al precedente), otteniamo che dallo stato avrà 36.000 x 20 anni = 720.000 € a fronte di un versamento di contributi di 221.760 €, generando uno squilibrio di 498.240 €

Veniamo ora al problema delle pensioni d'oro. Tagliarle e basta, dicendo ad esempio: "3.000 € al mese e basta!" sarebbe bello, ma questo si scontra con la realtà, perché come dimostrato sopra chi ha una pensione d'oro è andato in pensione con il retributivo. Se avesse una pensione d'oro con il contributivo, penso, non ci sarebbe nulla di male, perché starebbe solo riprendendo i propri soldi...**
Quindi che ha una pensione d'oro "retributiva" ha comunque versato all'INPS, ma prende più di quanto prenderebbe con il contributivo e quindi ogni pensione, una per una, andrebbe rideterminata perché, come minimo, un soggetto dovrebbe prendere quanto ha versato. Tale lavoro, unito al fatto che molti soggetti hanno più di una pensione e quindi queste si cumulano arrivando a cifre stratosferiche, rende molto difficile e complicato il calcolo e il taglio, che se fosse effettuato come propongono certi soggetti, diverrebbe istantaneamente incostituzionale.

Quindi, visto che tagliarle è molto difficile (art. 3 della costituzione), forse è meglio limarle e limitarle in attesa che finiscano.

Dal punto di vista morale non posso che concordare sul fatto che è scandalosa qualunque pensione sopra i 5.000 € che non sia ottenuta con il contributivo, ma come detto all'inizio, se si vive in uno stato di diritto, o si osservano sempre le regole, oppure le si cambia in maniera democratica.

** in realtà prendere una pensione d'oro con il contributivo è impossibile: esiste un limite massimo di contributi versabili all'anno

Capitalism: a love story

Geniale e provocatorio, Capitalism a love story di Michael Moore stasera sarà in onda su Rai5!


07 ottobre 2013

Tweeter

Twitter ha presentato qualche giorno fa i documenti per la quotazione alla borsa di New York. Non si sa quando sarà quotata, ma si suppone che potrà valere un miliatdo di dollari.

Una quotazione che attira molti, al punto che la scorsa settimana sono state scambiate in un solo giorno 15 milioni di azioni di Tweeter, una società americana di scarsissime prospettive neanche quotata al prestigioso Nasdaq, ma in un mercato secondario, una specie di cimitero che raccoglie le azioni che non hanno più i requisiti per restare nel Dow Jones o nel Nasdaq.

Risultato? L'azione di Tweeter è crescita di oltre 20 volte in una sola seduta per poi precipitare di nuovo ai livelli bassissimi in cui si trova da mesi.

E poi c'è chi pensa che i mercati siano razionali...

05 ottobre 2013

Parigi contro il dumping di Amazon

Le teorie sul libero commercio sono affascinanti perchè promettono al consumatore, messo al centro del sistema economiche, che potrà acquistare qualunque bene o servizio al prezzo più conveniente.

C'è anche il rovescio della medaglia: se il prezzo è troppo basso qualcuno rischia di pagarne le conseguenze. Un lavoratore perderà il posto perché il bene, che produceva, uscirà da una fabbrica dove lavora un operaio pagato molto meno. L'aria o l'acqua saranno inquinati da un produttore che non rispetta le normative ambientali o produce in uno stato dove le regole a tutela dell'ambiente permettono di inquinare.

Una delle conseguenze del libero commercio è il dumping. Consiste nel vendere su un mercato straniero un bene a un prezzo molto basso, allo scopo di conquistare il mercato e impedire ai produttori locali di svilupparsi. Chi mette in pratica il dumping ottiene profitti in alcuni mercati e con questi finanzia le perdite derivanti dalla vendita sottocosto di un bene in un mercato straniero.

La conquista di un mercato a spese di altri produttori, garantisce all'impresa di praticare prezzi più alti, una volta che il mercato è diventato meno concorrenziale. Per questo motivo il dumping è sanzionato: l'interesse del consumatore ancora una volta prevale.

Ma c'è anche chi combatte il dumping senza pensare esclusivamente a tutelare il consumatore. E' il caso della Francia, che negli anni '80 ha deciso che chi vende libri non può praticare sconti superiori al 5%. Lo scopo era evitare la morte delle librerie più piccole, uccise dagli sconti dei negozi più grandi, capaci di vendere grandi quantità di libri e quindi di ottenere prezzi più favorevoli dagli editori.

Oggi il nemico è Amazon è in generale il commercio online, che rischia di mettere in crisi i venditori tradizionali con prezzi stracciati. Per raggiungere i clienti, i venditori online decidono spesso di consegnare gratuitamente i beni acquistati, che altrimenti rischiano di costare più del prezzo praticato nel negozio tradizionale.

Così i francesi hanno deciso che le aziende come Amazon non possono cumulare lo sconto (massimo il 5%) e la consegna gratuita.

Tutela del consumatore,
ma anche del produttore o del commerciante: questa è la logica che segue il legislatore francese.

03 ottobre 2013

Spesa Sociale


Avrei voluto scrivere riguardo ai costi del separatismo catalano, ma lo lascio per un altro giorno visto oggi mi sono imbattuto in un dato interessante:

Ho acquistato stamani un libro del 4° anno del mio studio in Spagna.
Il titolo è "Trabajo Social en Perspectiva Comparada", Autore: Alfredo Hidalgo Lavié (in realtà mette poi  fra parentesi"coordinatore" perché ci sono in realtà molti autori provenienti da vari Paesi tra cui l'Italia), Casa Editrice: UNED Ediciones Académicas.

Sfogliandolo ho notato una tabella che classificava la percentuale di spesa sociale di ogni Paese di UE e dintorni (dintorni intendo tipo Svizzera, Norvegia..) in rapporto al PIL nel 2008.
Colpisce il dato che l'Italia era ai piani alti della classifica, a pari merito con la Germania.
E, togliendo Svezia e Paesi scandinavi in generale, (che sono su un altro livello rispetto agli altri), seconda solo (e di poco), ad Austria, Francia, Belgio e Olanda (quest'ultima è comunque considerata un Paese con Welfare scandinavo come spiegavo in un altro vecchio post). Staccando di abbastanza tutti gli altri Paesi mediterranei, con tipo 6% in più di spesa sociale rispetto alla Spagna. Uno dice: "accidenti ci s'ha la socialdemocrazia e non me n'ero accorto!".

Poi però un'altra tabella dettagliava come si distribuivano sempre nel 2008 le voci della spesa sociale di ogni Paese.
Lì emergeva che l'italia spendeva molto piu' degli altri, (in percentuale ovviamente), ma solo in pensioni (che assorbivano nel 2008 il 16,1% della spesa sociale, il dato più alto in assoluto fra tutti i Paesi osservati, staccando persino la Svezia, al secondo posto, le cui pensioni valevano il 12% della spesa sociale), poi relativamente alta la spesa sanitaria, ma bassissime tutte le altre, da fondo della classifica per: disoccupati, case popolari, invalidi, esclusione sociale, tutto da ultimi posti in classifica....

Quindi uno dice: "aaaah c'era il trucco!"...Si fanno le cose senza pianificare minimamente, si lasciano i giovani disoccupati a casa senza una lira e poi ci teniamo baby-pensioni d'oro, (in contrasto con altri pensionati che non arrivano manco a fine mese).

02 ottobre 2013

01 ottobre 2013

IVA al 22%

Da domani, grazie alla crisi per questioni personali, l'IVA massima salità al 22%.

Di quanto aumenteranno i prezzi? Per i beni coinvolti, saliranno dello 0,83% (circa). Un bene che costa 100 euro + iva, passerà da 121 a 122 euro.

1 euro su 121 di aumento cioè lo 0,83%.

Una famiglia che, supponiamo, spende 2000 euro al mese si troverà a spendere 16 euro in più, ovvero circa 200 euro l'anno.

Contrari naturalmente un pò tutti, a cominciare dalla grande distruzione, che probabilmente pagherà, almeno in parte, l'aumento dell'IVA. Coop, Esselunga e IKEA hanno annunciato (vedi qui) che nei loro negozi l'IVA non aumenterà. Perché?

Pensate a IKEA, una delle aziende che oggi protesta: sulla copertina del catalogo di quest'anno c'è un lampadario a 14,99 € e una poltrona a 199 €.

Si usa un meccanismo psicologico: 199 euro invece di 200 dà a qualcuno la sensazione di un prezzo inferiore e invoglia a acquistare. L'aumento dell'IVA rovina questa tecnica di vendita. I 199 euro diventano, con l'iva al 22%, 200,64 €.

Se vuole che il prezzo resti allettante, IKEA deve lasciare il prezzo a 199 € e rassegnarsi a pagare la maggiore IVA, senza scaricarla sul consumatore.

Link Interni

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