Un nuovo film parla degli effetti della diseguaglianza (lo trovate qui: http://vimeo.com/64995158 )
Quello della diseguaglianza è un tema molto interessante, di cui s'era parlato tempo fa qui http://econoliberal.blogspot.it/2009/12/libri-la-misura-dellanima.html
Per chi se lo fosse perso, il libro La misura dell'anima è uscito anche in edizione economica: http://www.lafeltrinelli.it/products/9788807723933/La_misura_dell%27anima_Perche_le_disuguaglianze_rendono_le_societa_piu_infelici/Kate_Pickett.html
31 maggio 2013
29 maggio 2013
Corte dei Conti
Qualche giorno il presidente della Corte dei Conti Giampaolino ha presentato il Rapporto 2013 sul coordinamento delal finanza pubblica e, come sempre in questi casi, ha sintetizzato il suo pensiero (vedi qui).
Alcuni punti sono interessanti, altri un pò strani.
Anzitutto Giampaolino ha osservato che cinque anni di crisi hanno prodotto una perdita di 230 miliardi di euro di PIL con conseguente mancati introiti per lo Stato di 90 miliardi.
Una cifra enorme, pari all'incirca alla cifra che lo Stato spende per pagare gli interessi sul debito.
Poi si osserva chel’intensità delle politiche di rigore adottate in Italia e in Europa è stata una "rilevante concausa dell'avvitamento verso la recessione", vale a dire senza interventi per sistemare a tutti i costi i conti pubblici, la recessione sarebbe stata minore e avremmo maggiori entrate fiscali e maggiore PIL.
Alcuni punti sono interessanti, altri un pò strani.
Anzitutto Giampaolino ha osservato che cinque anni di crisi hanno prodotto una perdita di 230 miliardi di euro di PIL con conseguente mancati introiti per lo Stato di 90 miliardi.
Una cifra enorme, pari all'incirca alla cifra che lo Stato spende per pagare gli interessi sul debito.
Poi si osserva chel’intensità delle politiche di rigore adottate in Italia e in Europa è stata una "rilevante concausa dell'avvitamento verso la recessione", vale a dire senza interventi per sistemare a tutti i costi i conti pubblici, la recessione sarebbe stata minore e avremmo maggiori entrate fiscali e maggiore PIL.
Una bocciatura dunque di Monti e delle politiche economiche degli ultimi anni, ma anche l'ammissione implicita che la Corte dei Conti può dire quel che vuole ma nessuno l'ascolta se è vero, come osserva Giampaolino, che aveva messo in guardia dal rischio che la politica del rigore portasse a una recessione pesante per i conti dello Stato.
Infine la Corte dice, come riporta il Sole 24 Ore, che servono nuovi stimoli alla crescita, ..ben consapevoli però che all'Italia servono «stimoli per crescere di più non
deroghe per spendere di più».
Ma se non si spende di più, anzi se lo Stato fa il possibile per spendere di meno e se i privati fanno i conti con un eccesso di imposte, come è possibile che si cresca in tempi brevi?
Il magistrato contabile Luigi Giampaolino non lo spiega.
Il magistrato contabile Luigi Giampaolino non lo spiega.
28 maggio 2013
Il fallimento risanatore di Pizzarotti
Il comune di Parma annuncia un calo dei debiti.
Sarebbe una buona cosa se non fosse che tra i minori debiti si calcolano 110 milioni della SPIP, una controllata del comune che il tribunale ha dichiarato fallita dopo che un pool di banche ha respinto la richiesta di finanziare la holding controllante e quindi, indirettamente, la SPIP.
Il debito diminuisce, creando un danno ai creditori della SPIP che con un pò di fortuna avranno solo una piccola parte dei loro crediti e con molto ritardo.
Pizzarotti se ne vanta, sbandiera la riduzione del debito comunale, dimenticando le conseguenze, di certo poco gradevoli se è vero che il Comune di Parma avrebbe preferito il concordato preventivo, respinto dal tribunale perché le garanzie offerte dal Comune sono state giudicate inadeguate.
26 maggio 2013
La buona uscita del fu Giulio A.
Ma se un senatore è a vita, ha bisogno dei soldi per rientrare nel mondo del lavoro? Certo che no. Lo stipendio gli è assicurato finché vive e di solito quando il presidente nomina un senatore a vita, non si tratta di un poveraccio: sicuramente ha ottime entrate, visto che ha "illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario", come recita l'articolo 56 comma 2 della Costituzione.
Ma ha sempre diritto alla buonuscita, come sanno gli eredi del senatore Giulio Andreotti, morto qualche settimana fa, che hanno chiesto al Senato di poter incassare il tfr del famoso genitore. Incasseranno una cifra ingente, perché il senatore non aveva bisogno di soldi e non ha mai chiesto un'anticipo.
Servirà forse a ricollocare il famoso babbo nell'aldilà?
24 maggio 2013
Una bufala...
Qualche giorno fa l'Huffington Post titolava Krugman smonta i bocconi boys.
Il premio Nobel per l'economia 2008 avrebbe Attaccato Alesina e Ardagna osservando che le politiche di austerity dell'Europa dipendono da loro errori economici.
Qualche ora dopo il rettore dell'Università Bocconi, Guido Tabellini, intervistato ha sostenuto che i due economisti non hanno incarichi alla Bocconi e che, in ogni caso, una teoria sbagliata rappresenta solo chi l'ha espressa, non l'università di appartenenza.
Leggendo la notizia mi sono reso conto che si trattava di una vecchia conoscenza: delle strana tesi di Alesina ne avevo scritto il 22 gennaio (vedi qui) riportando quanto scritto da Krugman nel suo libro Fuori da questa crisi, adesso, del 2012.
Nel libro di Krugman si fa riferimento a Alesina, indicato come economista di Harvard. Non si parla invece dell'università Bocconi.
Forse si parla della Bocconi altrove? Sono andato sul sito del New York Times dove Krugman scrive, ho inserito Bocconi e Alesina nella funzione di ricerca e ho scoperto che non appare alcun risultato. Alesina e Bocconi sono due parole mai presenti nello stesso articolo on line del quotidiano newyorkese.
Dunque è molto improbabile che Krugman abbia attaccato i bocconi boys. S'è trattato di un'invenzione giornalistica, che sembra trovare conferma nel fatto che il giornalista autore dell'articolo, a cui ho chiesto via email di indicarmi dove Krugman parla di Bocconi con riferimento a Alesina, non mi ha risposto.
Nè ho ricevuto alcuna risposta dal rettore Tabellini, avvertito via email che non c'è alcun riferimento alla Bocconi, evidentemente caduto nella trappola di un giornalista alla ricerca di uno scoop.
Il premio Nobel per l'economia 2008 avrebbe Attaccato Alesina e Ardagna osservando che le politiche di austerity dell'Europa dipendono da loro errori economici.
Qualche ora dopo il rettore dell'Università Bocconi, Guido Tabellini, intervistato ha sostenuto che i due economisti non hanno incarichi alla Bocconi e che, in ogni caso, una teoria sbagliata rappresenta solo chi l'ha espressa, non l'università di appartenenza.
Leggendo la notizia mi sono reso conto che si trattava di una vecchia conoscenza: delle strana tesi di Alesina ne avevo scritto il 22 gennaio (vedi qui) riportando quanto scritto da Krugman nel suo libro Fuori da questa crisi, adesso, del 2012.
Nel libro di Krugman si fa riferimento a Alesina, indicato come economista di Harvard. Non si parla invece dell'università Bocconi.
Forse si parla della Bocconi altrove? Sono andato sul sito del New York Times dove Krugman scrive, ho inserito Bocconi e Alesina nella funzione di ricerca e ho scoperto che non appare alcun risultato. Alesina e Bocconi sono due parole mai presenti nello stesso articolo on line del quotidiano newyorkese.
Dunque è molto improbabile che Krugman abbia attaccato i bocconi boys. S'è trattato di un'invenzione giornalistica, che sembra trovare conferma nel fatto che il giornalista autore dell'articolo, a cui ho chiesto via email di indicarmi dove Krugman parla di Bocconi con riferimento a Alesina, non mi ha risposto.
Nè ho ricevuto alcuna risposta dal rettore Tabellini, avvertito via email che non c'è alcun riferimento alla Bocconi, evidentemente caduto nella trappola di un giornalista alla ricerca di uno scoop.
21 maggio 2013
La finanza (non creativa) degli enti locali
Oggi parlerò della finanza degli enti locali cercando di mettere in evidenza alcuni dei problemi e di sfatare alcuni miti che circondano la finanza locale.
Per parlare dei problemi devo però spiegare prima alcune cose, quindi spero che mi perdonerete la lunghezza dell'articolo.
Per enti locali si intendono comuni e province, le regioni sono un caso un po' a sé. I comuni, perché è a questi che principalmente mi riferisco, perché le province, pur gestendo molti soldi, sono enti sostanzialmente tecnici, fino all'unità d'Italia, diversamente dal resto del mondo, contabilizzavano in partita doppia, mentre il resto del mondo usava la contabilità finanziaria.
Come si sa la partita doppia funziona con un criterio di competenza temporale, cioé ogni anno solare si calcola quello che è l'utile o la perdita con il conto economico, che poi si "tramanda" di anno in anno nello stato patrimoniale, che contiene anche debiti e crediti.
Bene, negli enti locali non funziona così.
Ogni anno, idealmente in ottobre/novembre, si redige il bilancio preventivo per l'anno successivo - dico idealmente perché quest'anno è stata data la possibilità ai comuni di slittare fino ottobre 2013 a causa delle modifiche IMU - che determina le entrate e le spese possibili per l'anno.
In un ente locale, a differenza di un'azienda, le entrate sono sufficientemente certe: Imposte locali, trasferimenti e qualche occasionale attività commerciale (tipo la gestione dei parcheggi), quindi si sa quanto entrerà. Diciamo che nel 2013 entreranno 20 milioni (le tasse di una città di circa 25.000 abitanti) di Euro.
Questi 20 milioni devono essere impegnati in spese, quindi ce ne saranno molte vincolate tipo gli stipendi e gli affitti (gestione corrente) altre in conto capitale (come i mutui).
La cosa importante è che nella contabilità finanziaria le entrate sono in pratica considerati ricavi, e le uscite spese, quindi un mutuo è considerato un entrata, diversamente dalla partita doppia dove non è né un ricavo né una spesa.
Quindi quando vado a redigere i bilanci potrò spendere fino al totale delle mie entrate future previste. Ma non finisce qui. Infatti esistono anche i residui attivi e passivi.
I residui attivi sono - semplificando - le entrate non riscosse, quelli passivi le uscite non pagate. In pratica se di quei 20 milioni ne incasso solo 15, gli altri 5 saranno un residuo attivo.
Ora vi chiederete: se avevo previsto incassi per 20 e spese per 20, ma ne ho incassati 15, dove ho preso i soldi per gli altri 5 milioni?
Le risposte sono le più varie: mutui per le spese correnti (orrore!), anticipazioni di cassa dalla cassa depositi e prestiti, ritardati pagamenti alle aziendde fornitrici e così via.
Visto che i conti devono pareggiarsi, avrò anche 5 milioni di residui passivi, cioè di impegni da pagare l'anno successivo.
Quando vado a fare il bilancio l'anno successivo, il mio bilancio all'attivo avrà i 20 milioni entrate previste + 5 milioni di residui attivi, meno 20 milioni di uscite, meno 5 milioni di residui passivi.
Dopo qualche anno di quei 5 milioni di residui attivi ne starò per incassare (grazie a equitalia) diciamo 3, gli altri 2 saranno diventati inesigibili, quindi a questo punto dovrò radiarli dal bilancio.
Questo però non accade quasi mai, perché se li tolgo succede questo:
Entrate previste 20 milioni +
Residui attivi 3 milioni +
Uscite previste 20 milioni -
Residui passivi 5 milioni -
Questo perché i 5 milioni di residui passivi sono spese impegnate ed è un po' difficile che qualcuno rinunci o si scordi di incassare da un ente pubblico.
Quindi avrò un disavanzo previsto di 2 milioni, quindi a questo punto, per evitare il dissesto e quindi lo scioglimento di giunta, consiglio e sindaco (che si scioglie di dispiacere....) bisognerà tagliare le uscite correnti di 2 milioni e qui cominciano i grossi guai. Guai in cui si trovano buona parte dei comuni italiani che continuano a procrastinare la cancellazione dei residui attivi.
Prossimamente tornerò sull'argomento per approfondire altri problemi di finanza locale.
Signoraggio alla Camera: ancora?!?!?
Come segnala VxVendemmia, il tema signoraggio è tornato a infestare le aule parlamentari.
Merito, si fa per dire, del Movimento 5 Stelle, che ha preso il posto, su questo tema, dei neofascisti che in passato hanno riproposto le stesse bufale.
Poveri noi...
Merito, si fa per dire, del Movimento 5 Stelle, che ha preso il posto, su questo tema, dei neofascisti che in passato hanno riproposto le stesse bufale.
Poveri noi...
20 maggio 2013
La politica economica degli enti locali: il caso del Comune di Asti
Continua la rubrica dedicata alla politica economica degli enti locali. Riporto di seguito l'esperienza del Comune di Asti, presa da qui. Agli interessanti spunti di riflessione che possono sorgere da questa lettura, aggiungerei che il Comune di Polistena aveva già avviato una politica di incentivo fiscale per coloro i quali avessero impiegato canoni convenzionati o comunque contratti d'affitto registrati, ma non mi dilungo oltre, buona lettura!
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Dopo essere stata la prima a prevedere il rimborso dell’Imu ai soggetti deboli, la Città di Asti è anche la prima Città in Italia a realizzare, grazie ad un accordo con le associazioni di categoria del commercio e dell’artigianato, nonché dei proprietari di immobili e degli inquilini, un piano per abbassare i canoni di affitto di negozi e botteghe artigiane.
Le associazioni hanno stipulato un accordo che definisce i valori dei “canoni calmierati”, in corrispondenza dei quali viene accordata un’agevolazione Imu e un fondo di garanzia.
Ai proprietari di immobili che accetteranno di concedere in locazione negozi e botteghe artigiane rispettando i valori massimi delle “fasce di canoni calmierati” dell’accordo, l’aliquota Imu verrà ridotta da 1,06 a 0,76. Verrà inoltre erogato un contributo pari al 100% del costo di una fideiussione a garanzia di sei mesi di canone, per una durata di tre anni e fino a un tetto massimo di 500 euro.
Gli stessi vantaggi verranno riconosciuti a chi abbasserà un canone di un contratto in corso del 20% oltre alla rinuncia all’incremento Istat.
“Questo accordo - ha commentato entusiasta il Sindaco Brignolo - segna una pietra miliare, perché per la prima volta in Italia le associazioni sono riuscite a inventare un concetto di canone calmierato e siamo riusciti a usare la poca discrezionalità fiscale che abbiamo, per incentivare il lavoro e l’economia”.
“Per la nostra amministrazione - ha precisato l’assessore al bilancio Santo Cannella - il piccolo commercio e l’artigianato sono importantissimi non solo per l’economia ma per il valore sociale delle vetrine accese in Città”.
Soddisfazione è stata espressa anche dai rappresentanti di Ascom Bruno e Fenoglio e Confesercenti Ardissone e Visconti.
L’accordo divide la città in dieci zone per ognuna delle quali viene indicato il valore di “canone calmierato”.
“Questo è l’inizio di un percorso, perché è evidente che si tratta di una novità che dovrà esse affinata e migliorata negli anni. Seriamo anche -conclude il Sindaco- che possano aggiungersi altri soggetti che si aggiungano al Comune nel finanziare il fondo di garanzia”.
19 maggio 2013
Perché occorrerà cambiare la legge elettorale?
Il porcellum (legge n. 270 del 21 dicembre 2005) è stato rinviato dalla Cassazione alla Corte costituzionale per i dubbi fondamenti di incostituzionalità più volte rimarcati da costituzionalisti e parlamentari. Trovate ogni notizia qui.
Ma a che cosa serve una legge elettorale?
La scienza politica (materia strutturata a sé a livello accademico), suddivide in due categorie gli obbiettivi delle leggi elettorali:
- la creazione di un'assemblea che rispecchi il corpo elettorale in modo più o meno aderente alla realtà;
- l'assicurare la governabilità per il periodo di durata del mandato.
Nell'Italia repubblicana, ci son stati 62 governi (quasi un governo all'anno, in media). Mentre ci sono state 17 legislature (poco meno di 4 anni di durata media).
Che cosa si prefiggeva il nostro costituente nel 1946 e 1947? Vi erano molte anime, è vero, ma possiamo assommare la filosofia di fondo con una frase semplice: "mai più il fascismo". E ne avevano ben ragione, visto lo sfacelo da cui arrivavano.
Venendo da un'esperienza in cui il potere esecutivo, che storicamente è sempre quello che ha compromesso la democraticità dei paesi - non è MAI esistito un paese in cui la magistratura o il parlamento abbiano sovvertito l'ordine costituito, tanto per intenderci - l'opzione che risultò vincente in sede di assemblea costituente fu la volontà di dare voce a tutti. Per cui il parlamento avrebbe dovuto essere l'immagine in piccolo (nell'ottica della democrazia rappresentativa) di tutta la nazione. La legge elettorale prevedeva, per la Camera, blande regole per l'accesso, bastava aver presto 300.000 voti a livello nazionale per poter rientrare nel riparto proporzionale.
Com'è stato possibile non collassare prima?
Semplice, esistevano grandi partiti di massa, catalizzanti l'interesse di milioni di persone ed un assetto da mobilitazione elettorale che ormai ci sogniamo. Tanto per dare qualche numero, la prima DC che si presentò al voto raccolse il 48% da sola, al Senato (che aveva già regole diverse che accennerò a breve) aveva addirittura la maggioranza assoluta da sola. Quello fu il picco massimo per un partito in Italia.
Com'è stato possibile non collassare prima?
Semplice, esistevano grandi partiti di massa, catalizzanti l'interesse di milioni di persone ed un assetto da mobilitazione elettorale che ormai ci sogniamo. Tanto per dare qualche numero, la prima DC che si presentò al voto raccolse il 48% da sola, al Senato (che aveva già regole diverse che accennerò a breve) aveva addirittura la maggioranza assoluta da sola. Quello fu il picco massimo per un partito in Italia.
Il Senato aveva una particolarità: come capita ancora oggi, i collegi erano a base regionale: in dottrina avere più collegi favorisce i partiti "grandi" (occasionalmente i partiti "riserve indiane", ma non era il caso della cd. Prima Repubblica), mentre averne uno unico nazionale (come avveniva per la Camera), favoriva i "nanetti" (Sartori).
Siamo arrivati a un punto in cui l'instabilità parlamentare (parola nata con Giolitti, addirittura), non era più compatibile con l'andamento dei nostri conti pubblici e non solo: mutando lo scenario geopolitico mondiale, con la fine dei blocchi, e venuta meno la conventio ad excludendum dei comunisti, si sarebbero rotti equilibri immobili, o fossilizzati da oltre 50 anni.
Si è così posto il dilemma: rappresentatività o governabilità? Sì, perché era quel periodo in cui la cd. Prima Repubblica stava assumendo tutte le colpe possibili immaginabili della mala politica, in cui pesò molto il tema dell'instabilità dei governi. Era il periodo di Segni e dei referendum abrogativi in materia elettorale (orrore per qualsiasi giurista e persone sensate, più per lo strumento che non per i propositi). Venne detto che le tre preferenze favorivano le mafie, salvo nascondere che con le tre preferenze vigeva, soprattutto nelle sinistre, quella di merito, quella giovanile e quella femminile, e queste due ultime furono quelle danneggiate da quella rimozione, difatti la classe politica non è poi molto cambiata da allora a livello di vertice, se non a sinistra, dove c'era una maggiora sensibilità al tema. Curioso notare che alle imminenti amministrative ci sarà la possibilità della doppia preferenza di genere.
Il nuovo paradigma, quindi, è quello di un governo che duri quando la legislatura. Come realizzarlo?
Innanzitutto la legge elettorale che aveva prodotto un valido ricambio (il mattarellum) andrebbe ripresa, quantomeno idealmente e per quello che può ancora offrire: i collegi uninominali.
Il sistema elettorale poi dovrebbe decidere se essere a colpo singolo (si favoriscono partiti a conduzione familiare stile Mastella o con forte presenza in aree geografiche localizzate stile Lega Nord), oppure a doppio turno, permettendo agli elettori di riorientare il proprio voto quindici giorni dopo. Applicato in Francia per la prima volta nel 1958, produsse maggioranze mai viste e in stile Westminster, cosa che tutti noi vorremmo.
Un problema, però, si è evidenziato. Nonostante tutto, le Camere son comunque durate in media un po' meno di 4 anni. Un rafforzamento dell'esecutivo dovrà tener conto di un bilanciamento con il legislativo, ad esempio un rafforzamento delle garanzie delle minoranze sull'onda di quel che accade già oggi in Francia e Germania: un terzo delle Camere può inviare le leggi ad un controllo preventivo di costituzionalità presso la Corte costituzionale. Insieme a questo, l'abbassare la durata da 5 a 4 anni (e magari del Presidente della Repubblica da 7 a 6), permetterebbe di accelerare meglio i tempi del ricambio politico, senza nulla togliere all'efficacia dell'azione di governo: il Presidente degli USA dura 4 anni e riesce a fare quel che fa, addirittura il loro parlamento va a rinnovo ogni due anni ed è così da oltre 200 anni.
18 maggio 2013
La strana idea di Alesina e Giavazzi
Sul Corriere (vedi qui) Alesina e Giavazzi si domandano: conviene rispettare il deficit del 3%?
Attualmente la situazione è questa: il governo deve impegnarsi a rispettare un rapporto deficit/PIL del 3%. Entro questo limite può decidere tutto quel che vuole, senza vincoli europei.
Poiché i conti pubblici lasciano prevedere che il deficit del 2013 sarà attorno al 3%, il governo non ha margine di manovra. Non può abbassare le imposte e rilanciare la crescita.
Alesina e Giavazzi propongono di sforare temporaneamente il limite allo scopo di diminuire già quest'anno la pressione fiscale, impegnando l'Italia a dare un taglio nei prossimi 3 anni alla spesa pubblica per un ammontare dell'1% del PIL all'anno.
Un taglio contemporaneo di imposte e spesa pubblica rilancerebbe l'economia, convincerebbe l'Europa circa la necessità di concerci qualche deroga, senza mettere a repentaglio i conti pubblici nel lungo periodo.
Tesi convincente?
Non molto.
La prima ragione è che i tagli delle spese in passato si sono rivelati assai illusori. Difficile programmare un taglio addirittura del 3% del PIL, pari a 50 miliardi, su una spesa pubblica (al netto delle pensioni) di circa 500 miliardi di euro, vale a dire il 10% di tutte le spese dello Stato.
La seconda ragione è fino a un anno e mezzo fa abbiamo fatto i conti con mercati che vendevano i nostri BOT e CCT facendo salire alle stelle lo spread perché convinti che non fossimo in grado di tenere sotto controllo i conti pubblici. Possiamo rischiare di far salire lo spread? Se lo spread salisse, aumenterebbe anche la spesa pubblica sotto forma di interessi sul debito.
La terza (e più importante) ragione è che tagliare la spesa vuol dire quasi sempre deprimere la domanda. Se gli italiani si trovassero più soldi in tasca, di certo spenderebbero di più ma non è detto che a fronte di 100 euro di minore spesa pubblica e di minori imposte, un cittadino con 100 euro in più in tasca li spenderebbe tutti e subito.
La conseguenza sarebbe un calo della domanda pubblica compensata solo in parte da un aumento di quella privata, parte della quale finirebbe per confluire sull'acquisto di beni provenienti dall'estero, con pochi o nessun beneficio occupazionale.
Alesina e Giavazzi puntano infine a diminuire le imposte sul lavoro. Non specificano in cosa consisterebbe la diminuzione. Si può immaginare che vogliano ridurre l'Irap (su rapporto Irap-costo del lavoro vi consiglio questo post di William) oun taglio degli oneri sociali per ridare fiato alle imprese.
Buona idea, almeno per le imprese che esportano e devono fare i conti con la concorrenza internazionale. Le altre invece farebbero sempre i conti con una domanda debolissima, di cui riuscirebbero a intercettare forse una quota maggiore.
Le idee di Alesina e Giavazzi hanno come sempre un punto debole: si pongono dal punto di vista di chi produce e sottovalutano il ruolo della domanda, finendo per proporre soluzioni assai criticabili.
Attualmente la situazione è questa: il governo deve impegnarsi a rispettare un rapporto deficit/PIL del 3%. Entro questo limite può decidere tutto quel che vuole, senza vincoli europei.
Poiché i conti pubblici lasciano prevedere che il deficit del 2013 sarà attorno al 3%, il governo non ha margine di manovra. Non può abbassare le imposte e rilanciare la crescita.
Alesina e Giavazzi propongono di sforare temporaneamente il limite allo scopo di diminuire già quest'anno la pressione fiscale, impegnando l'Italia a dare un taglio nei prossimi 3 anni alla spesa pubblica per un ammontare dell'1% del PIL all'anno.
Un taglio contemporaneo di imposte e spesa pubblica rilancerebbe l'economia, convincerebbe l'Europa circa la necessità di concerci qualche deroga, senza mettere a repentaglio i conti pubblici nel lungo periodo.
Tesi convincente?
Non molto.
La prima ragione è che i tagli delle spese in passato si sono rivelati assai illusori. Difficile programmare un taglio addirittura del 3% del PIL, pari a 50 miliardi, su una spesa pubblica (al netto delle pensioni) di circa 500 miliardi di euro, vale a dire il 10% di tutte le spese dello Stato.
La seconda ragione è fino a un anno e mezzo fa abbiamo fatto i conti con mercati che vendevano i nostri BOT e CCT facendo salire alle stelle lo spread perché convinti che non fossimo in grado di tenere sotto controllo i conti pubblici. Possiamo rischiare di far salire lo spread? Se lo spread salisse, aumenterebbe anche la spesa pubblica sotto forma di interessi sul debito.
La terza (e più importante) ragione è che tagliare la spesa vuol dire quasi sempre deprimere la domanda. Se gli italiani si trovassero più soldi in tasca, di certo spenderebbero di più ma non è detto che a fronte di 100 euro di minore spesa pubblica e di minori imposte, un cittadino con 100 euro in più in tasca li spenderebbe tutti e subito.
La conseguenza sarebbe un calo della domanda pubblica compensata solo in parte da un aumento di quella privata, parte della quale finirebbe per confluire sull'acquisto di beni provenienti dall'estero, con pochi o nessun beneficio occupazionale.
Alesina e Giavazzi puntano infine a diminuire le imposte sul lavoro. Non specificano in cosa consisterebbe la diminuzione. Si può immaginare che vogliano ridurre l'Irap (su rapporto Irap-costo del lavoro vi consiglio questo post di William) oun taglio degli oneri sociali per ridare fiato alle imprese.
Buona idea, almeno per le imprese che esportano e devono fare i conti con la concorrenza internazionale. Le altre invece farebbero sempre i conti con una domanda debolissima, di cui riuscirebbero a intercettare forse una quota maggiore.
Le idee di Alesina e Giavazzi hanno come sempre un punto debole: si pongono dal punto di vista di chi produce e sottovalutano il ruolo della domanda, finendo per proporre soluzioni assai criticabili.
16 maggio 2013
M5S vs 15-M
In tutti i Paesi del Sud-Europa si sono affermati sotto varie sembianze movimenti forti di protesta e di rifiuto radicale del sistema poltico economico e sociale della Nazione in questione, e/o dell'Unione Europea.
In Grecia, il Paese più massacrato dalla crisi, la protesta ha assunto le forme più spaventose con la diffusione a macchia d'olio di Alba Dorata, un partito neonazista, che s'aggiunge ai movimenti radicali di sinistra (comunisti ed anarchici) che già erano forti nel Paese ellenico.
In Spagna come in Portogallo sono forti occupazioni delle piazze, (più volte sfociati in scontri violenti con le forze dell'ordine), in Italia è sbucato fuori il "grillismo".
Tutti fenomeni che lanciano un messaggio chiaro ed inequivocabile.
All'Unione Europea:
Cambiamo, si parli meno di finanza e più di politiche sociali.Ed ai partiti nazionali:
Aria nuova, si rinnovi radicalmente la politica attuale che c'ha deluso.
Proviamo però a fare un confronto fra "pentastellati" ed "indignados".
Analogie: -Entrambi presentano un rifiuto della democrazia rappresentativa, a favore della democrazia diretta, (soprattutto in Spagna è comprensibile...l'ultimo referendum se non sbaglio fu quello per la Costituzione! O forse al massimo per entrare nella NATO, non ricordo bene, ma in entrambi i casi sono passati decenni).
-Entrambi, pur alzando molto i toni, si prefiggono la non-violenza.
-Entrambi chiedono una moralizzazione della politica oltre a quella che Renzi chiamava "rottamazione", (che se non altro avrebbe almeno permesso alla sinistra italiana di far propria queste istanze popolari piuttosto che lasciarle a Grillo con le conseguenze che abbiamo visto), cioè il rinnovamento radicale della classe politica giudicata in toto disonesta ed incompetente.
-Entrambi difendono, almeno sulla carta (nonostante certe dichiarazioni contraddittorie di Grillo), lo Stato sociale.
-Entrambi, anche se in maniere molto diverse, vantano una forte presenza sul web e fanno di internet una loro arma.
-Entrambi sono sempre più euro-scettici.
-Entrambi hanno una forte componente complottista, spesso signoraggista, al loro interno.
Ma soprattutto:
-Entrambi nei fatti hanno favorito la destra conservatrice.
Il 15-M portando in piazza folle oceaniche di sinistra invocando l'astensione, sotto delle elezioni.
Ed era questo il motivo per cui inizialmente non partecipavo mai, ed anzi ero molto critico.
Il M5S rifiutando il dialogo con Bersani su un possibile governo di cambiamento con ministri e programmi negoziati con loro, obbligando di fatto il PD ad accettare il governo con Berlusconi.
Differenze: -il 15-M non ha alcun padrone, nemmeno un vero e proprio leader o rappresentante mediatico, (insomma nessun "semplice portavoce" che in realtà decide tutto).
-il 15-M non partecipa almeno per ora all'elezioni, e crede, coerentemente con la critica alla democrazia rappresentativa, nella politica fatta "dal basso". Manifestazioni, raccolte di fondi o firme, sit-in, "contro-informazione", assemblee popolari, scioperi, e soprattutto tante tante mobilitazioni.
Proprio in questi giorni una raccolta di firme (tra cui la mia), d'impressionante seguito, (circa un milione di firme in 5 giorni), contro il progetto brutale di privatizzazione della sanità, raccolta poi subito sconfessata dal consigliere regionale del PP che l'ha definita "una parodia", (come sempre molto democraticamente..del resto da un partito nato da una costola di Franco che ci si può aspettare).
Conclusioni: Personalmente, se stare in Parlamento significa prendersi i soldi per poi segregarsi, non assumersi le responsabilità quando ci viene proposto di fare qualcosa di utile, non spingere verso il cambiamento, anzi ostacolarlo, separarsi da ogni dibattito, nemmeno presentare alcun disegno di legge...Se la politica parlamentare deve essere solo mancanza di rispetto verso le istituzioni, preferisco anch'io quella di piazza.
Infatti vediamo un po' qualche risultato economico, di due movimenti di protesta con 3 anni di storia per l'italiano, e 2 per lo spagnolo:
Il 15-M è riuscito a far approvare una legge d'iniziativa popolare (alla quale inizialmente il PP che detiene la maggioranza assoluta in Parlamento era contrario), che di fatto blocca gli sfratti per impossibilità di pagare il mutuo e permette di spalmare i debiti delle famiglie in difficoltà. Salvando pare circa 300'000 famiglie spagnole in crisi col mutuo.
E vediamo come andrà a finire il braccio di ferro sulla sanità.
Il M5S ha rinunciato, forse anche giustamente, alle proteste di piazza per calmare gli animi, in favore di una presa di posizione in Parlamento che incidesse nella politica nazionale.
Per poi paradossalmente rinunciare ad incidere.
Con che risultati per ora? Forse me li sono persi, qualcuno me li può indicare?
Persino nei Comuni da loro amministrati non realizzano le loro proposte...
Insomma c'è chi lotta dormendo in Parlamento e chi si sporca le mani fra la gente, ottendendo qualche risultato.
La cosa migliore per me sarebbe riuscire a mettere insieme entrambe le cose, soprattutto entrare nei palazzi per fare qualcosa. Ma se non lo si vuole fare, benvenga solo la politica dal basso.
15 maggio 2013
La politica economica degli enti locali: il caso del Comune di Polistena (RC)
Quando si pensa ai Comuni, si ritiene che essi non possano più di tanto incidere sull'andamento economico cittadino. Questa opinione, ovviamente, è una leggerezza diffusa, tipica di ambienti quali bar sport o grillini (le due cose coincidono di norma).
Ebbene, non è così, ed una testimonianza ci arriva dal caso del Comune di Polistena, in provincia di Reggio Calabria.
Questo comune ha deciso di attuare, in tempi non sospetti, una modifica forte ai criteri di applicazione delle aliquote dell'Imposta Municipale Unica, seguendo criteri da politica economica non indifferenti. Potete trovare la delibera a questo link.
Sulla prima casa, il Consiglio Comunale ha deciso di andare incontro alla propria cittadinanza, optando per l'aliquota più bassa possibile, il cui range andava dal 2 per mille al 6 per mille (il 4 era quello medio "consigliato" dallo Stato), stanti le detrazioni per figli a carico e quella forfettaria di 200€. In sostanza, l'imu sulla prima casa l'han pagato in pochi, perché muovere carta negli uffici contabili per vedere pagamenti inferiori ai 50€?
Ma la parte più interessante e di politica economica locale è quella dedicata alle seconde case:
8,6 per mille, si applica ai fabbricati abitativi locati a canone concertato (legge n.431 del 09-12-1998).
9,6 per mille, si applica ai fabbricati abitativi locati a canone libero e con contratto registrato.
7,6 per mille, si applica ai fabbricati abitativi concessi in comodato ai parenti entro il primo grado, ove essi vi risiedano anagraficamente e di fatto con i propri familiari (molti comuni in precedenza avevano concesso agevolazioni da prima casa, quando non contava ancora la residenza abituale, per i parenti di primo grado o affini, per cui questa disposizione viene incontro a quell'esigenza, data la libertà di movimento degli enti locali).
Segue poi un elenco particolareggiato, che termina con la disposizione dell'aliquota massima, del 10,6 per mille, applicata "a tutte le tipologie di immobili non contemplate precedentemente".
La lezione che ne deriva è che questo comune ha attuato una vera e propria politica economica mediante la leva fiscale. Possono generarsi problemi a livello di controllo, ma che cosa non comporta l'esistenza di controlli, al giorno d'oggi? Inoltre si tratta di sconti sulle aliquote che producono effetti dietro una richiesta di parte, mediante produzione di un documento ufficiale (il contratto di affitto).
Sarebbe interessante, ed i comuni lo potrebbero fare senza bisogno di leggi strane, attuare analoghe politiche economiche per le ristrutturazioni energetiche degli edifici, del tipo: presenti richiesta di ristrutturazione energetica, nei documenti che devi presentare, indicando la classe energetica di partenza, a lavori ultimati alleghi fattura dei lavori e certificato energetico cui l'edificio è arrivato. Ogni tot classi, un per millesimo in meno di aliquota per l'anno successivo.
Se poi il comune fosse così illuminato da convocare tutte le aziende edili di riqualificazione energetica con sede entro i suoi confini e parlasse della cosa in modo che loro stessi siano un veicolo di diffusione di questo incentivo, il comune otterrebbe un aumento dei fatturati delle sue aziende, per cui un aumento possibile delle entrate:
guadagno maggiore delle imprese ---> più assunzioni ---> più trattenute irpef per il bilancio comunale
ma anche
guadagno maggiore delle imprese ---> maggiore capacità di spesa e quindi aumento dei consumi in generale ---> maggiore appetibilità del paese per nuove famiglie e imprese ---> aumento di popolazione e quindi delle trattenute irpef.
Sembrerebbe tutto perfetto, dove sta l'inghippo? Sta nel fatto che il caso di Polistena è un caso isolato! Non c'è un coordinamento a livello di ANCI per sponsorizzare esperienze simili o per insegnare proprio i fondamenti della politica economica (che è una disciplina a sé). I partiti non fanno più scuole di formazione come un tempo, salvo qualche eccezione, e le buone pratiche sono spesso gettate alle ortiche per problemi della vita amministrativa di tutti i giorni, legate magari alla mediocrità di amministratori pubblici che non intendono farsi venire il mal di pancia a litigare coi dipendenti comunali per farli lavorare di più, dovendo seguire 5/6 aliquote differenziate al posto delle 2 classiche: 4 per mille sulle prime case e 10,6 sulle seconde. In sostanza si ripete il problema di sempre: puoi avere le migliori leggi del mondo, ma se hai pessimi politici, non andrai lontano; viceversa puoi avere le peggiori leggi del mondo (prima l'ici no, poi l'imu maggiorata sì, ora di nuovo l'incertezza), ma con i politici giusti puoi ottenere grandi risultati (come a Polistena).
14 maggio 2013
Lo spread dei farmaci: un esempio di tutti i giorni
Mi sono recato a prendere alcuni farmaci e per una fortuita occasione, ho avuto modo di vedere due negozi:
Ecco il costo di un famoso disinfettante cutaneo (principio attivo benzoxonio cloruro) al reparto "farmacia" della locale Iper Coop:
€ 2,07.
Ecco il costo dello stesso flaconcino (in più ha solo l'involucro di cartoncino)in una locale farmacia classica:
€ 4,35.
Quando si sente parlare del differenziale (o spread!) tra i nostri medicinali e quelli francesi, bisognerebbe prima guardarsi meglio attorno. Ciò accade forse perché il sistema cooperativo ha una serie di vincoli e legami con il mondo dei propri soci tale per cui il consumatore finale è tenuto in maggiore considerazione rispetto a quella casta di farmacisti che ha sempre fatto levate di scudi micidiali rispetto ad ogni disegno di liberalizzazione del proprio frammento di mercato?
13 maggio 2013
Trony
Come uscire dalla crisi?
A mio parere una strada da percorrere è quella di creare imprese più grandi, capaci di affrontare meglio, fin da subito, la concorrenza e essere più competitive.
Qualcosa sta succedendo nel settore della distribuzione. Negli anni scorsi in molte grandi città italiane i francesi di Fnac e Darty hanno aperto molti negozi in molte città italiane, operanti soprattutto nell'elettronica.
La crisi e il calo del PIL del 2012 hanno spinto i due gruppi francesi a disimpegnarsi. Fnac ha chiuso alcuni negozi e i restanti sono stati venduti, come quelli di Darty, a un gruppo italiano, Dps, che opera con il marchio Trony, costola della Rinascente poi venduta a imprenditori lombardi.
Curiosamente sono gli italiani a comprare aziende straniere. E' il bello della crisi: chi non ce la fa lascia spazio a altri. Trony si troverà in pochi mesi a aumentare, spendendo pochi soldi, i propri punti vendita.
Una buona notizia, perché una grande imprese ha più possibilità di fare utili, crescere, creare occupazione di un'impresa di dimensioni minori, specie in un settore come quello della distribuzione, in cui chi compra tv o computer può spuntare un prezzo migliore se è grande.
L'aspetto negativo è che l'acquisto di Fnac e Darty da parte di Trony pare un caso isolato. Manca una strategia pubblica per favorire fusioni e acquisizioni, che sarebbero utilissime dove la crisi e la concorrenza straniera colpiscono duro.
A mio parere una strada da percorrere è quella di creare imprese più grandi, capaci di affrontare meglio, fin da subito, la concorrenza e essere più competitive.
Qualcosa sta succedendo nel settore della distribuzione. Negli anni scorsi in molte grandi città italiane i francesi di Fnac e Darty hanno aperto molti negozi in molte città italiane, operanti soprattutto nell'elettronica.
La crisi e il calo del PIL del 2012 hanno spinto i due gruppi francesi a disimpegnarsi. Fnac ha chiuso alcuni negozi e i restanti sono stati venduti, come quelli di Darty, a un gruppo italiano, Dps, che opera con il marchio Trony, costola della Rinascente poi venduta a imprenditori lombardi.
Curiosamente sono gli italiani a comprare aziende straniere. E' il bello della crisi: chi non ce la fa lascia spazio a altri. Trony si troverà in pochi mesi a aumentare, spendendo pochi soldi, i propri punti vendita.
Una buona notizia, perché una grande imprese ha più possibilità di fare utili, crescere, creare occupazione di un'impresa di dimensioni minori, specie in un settore come quello della distribuzione, in cui chi compra tv o computer può spuntare un prezzo migliore se è grande.
L'aspetto negativo è che l'acquisto di Fnac e Darty da parte di Trony pare un caso isolato. Manca una strategia pubblica per favorire fusioni e acquisizioni, che sarebbero utilissime dove la crisi e la concorrenza straniera colpiscono duro.
12 maggio 2013
La festa militare è finita?
L'ultima novità degli F35 è che pare non riescano a atterrare correttamente in caso di tempo caldo e umido: serviranno a fare la guerra solo d'inverno o sono il simbolo di un'industria militare mondiale che vive di sprechi?
L'elenco degli sprechi della spesa militare è infinito. Luca Marco Comellini, che ha creato un partito per difendere i diritti dei militari, ne elenca diversi: "l'indennità di ausiliaria (415 mln/anno), gli avanzamenti di grado all'ultimo giorno di servizio, i richiami in servizio e i trattamenti economici superiori percepiti al compimento dei 13-15 e 23-25 anni di servizio, le indennità antiesodo dei piloti e controllori di volo (45 mln/anno), i costi del Cocer (5,2 mln/anno), gli stipendi dei cappellani militari (6,3 mln/anno)" e propone "l’unificazione delle forze di polizia" che permetterebbe a suo avviso "una riduzione della spesa per la sicurezza di ulteriori 4 miliardi all’anno".
Ma l'elenco non finisce qui: si potrebbe creare un solo esercito europeo, senza inutili doppioni nazionali, eliminando uomini, mezzi e strutture destinate in passato a difendere i singoli paesi dal rischio di guerra con i vicini europei. Secondo qualche calcolo, il risparmio a livello europeo se si adottasse un esercito unico europeo supererebbe i 120 miliardi di euro l'anno. Di questi almeno 7-10 sarebbero soldi risparmiati dall'Italia.
Perchè dunque non farlo? E soprattutto, perché i tanti che fanno politica, a parole, contro gli sprechi non partono proprio dell'enorme spreco collegato alle spese militari?
Per ora una buona notizia c'è: Enrico Letta ha scritto ai ministri dell''Interno, della Giustizia, della Difesa e dell'Economia manifestando l'intenzione di ridimensionare, "ridefinire le modalità di organizzazione delle feste delle singole forze armate, dei corpi militari e dei corpi non armati dello Stato".
La festa per il 152° anniversario dell'esercito che si doveva tenere all'ippodromo militare di Roma è stata cancellata, come quella della Guardia di Finanza. Speriamo sia solo l'inizio di una dura lotta agli sprechi militari, iniziando da quelle feste la cui abolizione avevamo sostenuto già 3 anni fa (vedi qui).
L'elenco degli sprechi della spesa militare è infinito. Luca Marco Comellini, che ha creato un partito per difendere i diritti dei militari, ne elenca diversi: "l'indennità di ausiliaria (415 mln/anno), gli avanzamenti di grado all'ultimo giorno di servizio, i richiami in servizio e i trattamenti economici superiori percepiti al compimento dei 13-15 e 23-25 anni di servizio, le indennità antiesodo dei piloti e controllori di volo (45 mln/anno), i costi del Cocer (5,2 mln/anno), gli stipendi dei cappellani militari (6,3 mln/anno)" e propone "l’unificazione delle forze di polizia" che permetterebbe a suo avviso "una riduzione della spesa per la sicurezza di ulteriori 4 miliardi all’anno".
Ma l'elenco non finisce qui: si potrebbe creare un solo esercito europeo, senza inutili doppioni nazionali, eliminando uomini, mezzi e strutture destinate in passato a difendere i singoli paesi dal rischio di guerra con i vicini europei. Secondo qualche calcolo, il risparmio a livello europeo se si adottasse un esercito unico europeo supererebbe i 120 miliardi di euro l'anno. Di questi almeno 7-10 sarebbero soldi risparmiati dall'Italia.
Perchè dunque non farlo? E soprattutto, perché i tanti che fanno politica, a parole, contro gli sprechi non partono proprio dell'enorme spreco collegato alle spese militari?
Per ora una buona notizia c'è: Enrico Letta ha scritto ai ministri dell''Interno, della Giustizia, della Difesa e dell'Economia manifestando l'intenzione di ridimensionare, "ridefinire le modalità di organizzazione delle feste delle singole forze armate, dei corpi militari e dei corpi non armati dello Stato".
La festa per il 152° anniversario dell'esercito che si doveva tenere all'ippodromo militare di Roma è stata cancellata, come quella della Guardia di Finanza. Speriamo sia solo l'inizio di una dura lotta agli sprechi militari, iniziando da quelle feste la cui abolizione avevamo sostenuto già 3 anni fa (vedi qui).
10 maggio 2013
Dai bamboccioni ai deputati bamboccioni?
Alessandro Furnari, 36 anni, libero professionista
nella comunicazione, frequenta il corso di laurea in scienze della
comunicazione. Realizza siti internet ed ha competenze sia di strategie
di marketing nel web che di tecnologie di e-commerce.
Questo il curriculum di un deputato grillino di Taranto, che ha rilasciato un'intervista a La Stampa dai risvolti molto interessanti.
L'oggetto del contendere è la diaria, vale a dire i soldi che i deputati ricevano per pagarsi pranzo cena, pernottamento e altre spese durante i soggiorni a Roma.
Beppe Grillo ha spiegato che i deputati cinquestellati dovrebbero rendicontare tutte le spese e restituire i soldi della diaria non spesi. Gran parte dei parlamentari sono di diverso avviso, non vogliono rendicontare le spese forse perchè, come ha spiegato qualcuno, se metti online la ricevuta del pranzo o della cena finisce che qualcuno ti accusa di aver speso un giorno qualche euro in più del giorno prima e ti insulta.
Meglio incassare la diaria e vivere sereni, senza la paura che una fetta di torta in più si trasformi in un insulto dei propri elettori.
Intervistato, Fornari spiega "il regolamento che abbiamo firmato non impone affatto di restituire il denaro non rendicontato", e che prima di chiedere la restituzione dei fondi bisognerebbe valutare le singole situazioni familiari.
Ad esempio, lui, Furnari, deputato, è "nello stato di famiglia dei genitori e con tutta la busta paga che prend[e] rischi[a] di far perdere a loro gli assegni pubblici".
Insomma siamo passati dai bamboccioni di Tommaso Padoa-Schioppa, che forse non si rendeva conto che non è facile per i giovani andare a vivere da soli con pochi soldi e un lavoro precario, ai deputati (bamboccioni) preoccupati di non far perdere gli assegni pubblici ai genitori, colpevoli di avere un figlio in Parlamento.
Questo il curriculum di un deputato grillino di Taranto, che ha rilasciato un'intervista a La Stampa dai risvolti molto interessanti.
L'oggetto del contendere è la diaria, vale a dire i soldi che i deputati ricevano per pagarsi pranzo cena, pernottamento e altre spese durante i soggiorni a Roma.
Beppe Grillo ha spiegato che i deputati cinquestellati dovrebbero rendicontare tutte le spese e restituire i soldi della diaria non spesi. Gran parte dei parlamentari sono di diverso avviso, non vogliono rendicontare le spese forse perchè, come ha spiegato qualcuno, se metti online la ricevuta del pranzo o della cena finisce che qualcuno ti accusa di aver speso un giorno qualche euro in più del giorno prima e ti insulta.
Meglio incassare la diaria e vivere sereni, senza la paura che una fetta di torta in più si trasformi in un insulto dei propri elettori.
Intervistato, Fornari spiega "il regolamento che abbiamo firmato non impone affatto di restituire il denaro non rendicontato", e che prima di chiedere la restituzione dei fondi bisognerebbe valutare le singole situazioni familiari.
Ad esempio, lui, Furnari, deputato, è "nello stato di famiglia dei genitori e con tutta la busta paga che prend[e] rischi[a] di far perdere a loro gli assegni pubblici".
Insomma siamo passati dai bamboccioni di Tommaso Padoa-Schioppa, che forse non si rendeva conto che non è facile per i giovani andare a vivere da soli con pochi soldi e un lavoro precario, ai deputati (bamboccioni) preoccupati di non far perdere gli assegni pubblici ai genitori, colpevoli di avere un figlio in Parlamento.
09 maggio 2013
Welfare mediterraneo..Verso l'implosione?
Stando ai miei libri universitari (studio Trabajo Social, "Lavoro Sociale) nel mondo occidentale, a grandi linee, i sistemi di welfare sono quattro:
-Liberista: tipico di Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti.
Detto anche "modello anglosassone".
Caratterizzato da un abbandono delle politiche sociali al mercato ed alla gestione privata o del terzo settore, (ong, associazioni eccetera), col ruolo dello Stato limitato solamente ad azioni assistenziali contro la povertà (per esempio i sussidi di disoccupazione anche universali inglesi, oppure certe assicurazioni sanitarie pubbliche come i medicare e medicaid negli USA).
Un sistema che non se lo pone nemmeno l'obiettivo della giustizia sociale, al massimo si prefigge di evitare forme esagerate di povertà.
-Conservatore: tipico di Germania, Austria, Belgio, Francia, Canada.
Detto anche "modello bismarckiano", orientato soprattutto all'ambito del lavoro ed in cui l'assistenza sociale varia fortemente a seconda dello strato sociale del cittadino (in quanto si darebbe un forte peso alle prestazioni contributive, e quindi alla situazione lavorativa dell'individuo, sebbene oggigiorno esistano in questi Paesi pure prestazioni minori non contributive), ed alle responsabilità familiari.
Quindi sistema detto conservatore perché pur mirando all'attenuazione delle situazioni di disagio sociale, preserverebbe comunque la disuguaglianza, oltre a sostenere la famiglia tradizionale.
-Socialdemocratico: tipico di Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda, Lettonia, Estonia, Lituania.
Detto anche "modello scandinavo".
Si basa sul protagonismo dello Stato in tutta la sfera sociale, dalla sanità all'istruzione, dalle pensioni alla disoccupazione, dagli asili nido all'assistenza agli anziani eccetera eccetera. Con forte carattere assistenziale (ovvero prestazioni non contributive, finanziate dalla fiscalità generale fortemente progressiva).
L'unico modello di welfare in grado di ridurre in maniera significativa la disuguaglianza sociale.
Infine esisterebbe un quarto modello, che però molti autori considerano una semplice variante "imperfetta" di quello conservatore:
-Mediterraneo: tipico di Italia, Spagna, Portogallo, Grecia.
Detto anche "meridionale", o "cattolico".
La cui caratteristica sarebbe quella di essere un ibrido degli altri sistemi.
Tradizionalmente ispirato al modello scandinavo per quel che riguarda pensioni, sanità ed istruzione (pur perdendo progressivamente le caratteristiche di universalità ed assistenzialità passando infatti al sistema contributivo per le pensioni o anche in ambito sanitario, basti pensare a quanti oggi fanno fatica a pagare i ticket in Italia, o alla continua privatizzazione d'ospedali in Spagna). A quello conservatore quanto alla disoccupazione con nettissima prevalenza delle prestazioni contributive (ma con insufficienti, talvolta nulle, prestazioni universali e non contributive). A quello liberista per quanto riguarda l'assistenza agli anziani ed invalidi, o gli asili nido (intervento pubblico assolutamente insufficiente, quasi assente)..eccetera insomma si attinge qualcosa da tutti gli altri sistemi...con sempre meno di socialdemocratico, soprattutto per problemi finanziari.
Riguardo al modello mediterraneo però secondo praticamente tutti gli autori, la questione sarebbe anche culturale: si dà per scontato, soprattutto in passato, che molte di queste funzioni assistenziali spettino alla famiglia, (il che poi tradotto, soprattutto per quanto riguarda anziani, invalidi e bambini, significa alle donne).
Giustificando così socialmente il disinvestimento dello Stato in questi ambiti, che per tanto tempo non è stato nemmeno richiesto in quanto da tutti era visto come qualcosa di naturale che le donne si occupassero delle faccende domestiche.
Questo ha sul lungo periodo un effetto, amplificato dalla terribile crisi economica che stiamo vivendo, molto perverso:
Oltre a scoraggiare l'occupazione femminile, si favorisce un invecchiamento della popolazione (comunque presente, pur se con tassi molto più bassi, anche nei Paesi del centro e nord Europa), mitigato solo grazie ai flussi migratori...(che comunque a causa della crisi si stanno riducendo).
L'invecchiamento della popolazione poi a sua volta mette a rischio prima di tutto la sostenibilità pubblica di sanità e pensioni.
Proprio gli ambiti in cui tradizionalmente i Paesi meridionali avevano un maggior investimento pubblico.
Se cadono anche questi, cosa rimane del welfare mediterraneo? Avrebbe ancora senso differenziarlo tanto da quello liberista? Questo secondo me è un grande interrogativo.
Ma con una differenza: che almeno in quei Paesi il senso del disinvestimento pubblico era l'abbattimento della pressione fiscale, che oggi invece nel sud Europa aumenta.
Insomma: pressione fiscale da svedesi, ma servizi pubblici da irlandesi. Cornuti e mazziati. Se non facciamo qualcosa i rischi per il Sud Europa sono grossi.
Questioni che la politica, anche a livello europeo, dovrebbe cominciare a porsi.
Non solo per metterci una pezza ora sul momento, ma per trovare soluzioni strutturali.
Benvenga quindi l'asse Roma-Madrid su cui insiste tanto Rajoy. I Paesi mediterranei devono farsi sentire. Di solo spread il Sud Europa muore.
-Liberista: tipico di Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti.
Detto anche "modello anglosassone".
Caratterizzato da un abbandono delle politiche sociali al mercato ed alla gestione privata o del terzo settore, (ong, associazioni eccetera), col ruolo dello Stato limitato solamente ad azioni assistenziali contro la povertà (per esempio i sussidi di disoccupazione anche universali inglesi, oppure certe assicurazioni sanitarie pubbliche come i medicare e medicaid negli USA).
Un sistema che non se lo pone nemmeno l'obiettivo della giustizia sociale, al massimo si prefigge di evitare forme esagerate di povertà.
-Conservatore: tipico di Germania, Austria, Belgio, Francia, Canada.
Detto anche "modello bismarckiano", orientato soprattutto all'ambito del lavoro ed in cui l'assistenza sociale varia fortemente a seconda dello strato sociale del cittadino (in quanto si darebbe un forte peso alle prestazioni contributive, e quindi alla situazione lavorativa dell'individuo, sebbene oggigiorno esistano in questi Paesi pure prestazioni minori non contributive), ed alle responsabilità familiari.
Quindi sistema detto conservatore perché pur mirando all'attenuazione delle situazioni di disagio sociale, preserverebbe comunque la disuguaglianza, oltre a sostenere la famiglia tradizionale.
-Socialdemocratico: tipico di Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda, Lettonia, Estonia, Lituania.
Detto anche "modello scandinavo".
Si basa sul protagonismo dello Stato in tutta la sfera sociale, dalla sanità all'istruzione, dalle pensioni alla disoccupazione, dagli asili nido all'assistenza agli anziani eccetera eccetera. Con forte carattere assistenziale (ovvero prestazioni non contributive, finanziate dalla fiscalità generale fortemente progressiva).
L'unico modello di welfare in grado di ridurre in maniera significativa la disuguaglianza sociale.
Infine esisterebbe un quarto modello, che però molti autori considerano una semplice variante "imperfetta" di quello conservatore:
-Mediterraneo: tipico di Italia, Spagna, Portogallo, Grecia.
Detto anche "meridionale", o "cattolico".
La cui caratteristica sarebbe quella di essere un ibrido degli altri sistemi.
Tradizionalmente ispirato al modello scandinavo per quel che riguarda pensioni, sanità ed istruzione (pur perdendo progressivamente le caratteristiche di universalità ed assistenzialità passando infatti al sistema contributivo per le pensioni o anche in ambito sanitario, basti pensare a quanti oggi fanno fatica a pagare i ticket in Italia, o alla continua privatizzazione d'ospedali in Spagna). A quello conservatore quanto alla disoccupazione con nettissima prevalenza delle prestazioni contributive (ma con insufficienti, talvolta nulle, prestazioni universali e non contributive). A quello liberista per quanto riguarda l'assistenza agli anziani ed invalidi, o gli asili nido (intervento pubblico assolutamente insufficiente, quasi assente)..eccetera insomma si attinge qualcosa da tutti gli altri sistemi...con sempre meno di socialdemocratico, soprattutto per problemi finanziari.
Riguardo al modello mediterraneo però secondo praticamente tutti gli autori, la questione sarebbe anche culturale: si dà per scontato, soprattutto in passato, che molte di queste funzioni assistenziali spettino alla famiglia, (il che poi tradotto, soprattutto per quanto riguarda anziani, invalidi e bambini, significa alle donne).
Giustificando così socialmente il disinvestimento dello Stato in questi ambiti, che per tanto tempo non è stato nemmeno richiesto in quanto da tutti era visto come qualcosa di naturale che le donne si occupassero delle faccende domestiche.
Questo ha sul lungo periodo un effetto, amplificato dalla terribile crisi economica che stiamo vivendo, molto perverso:
Oltre a scoraggiare l'occupazione femminile, si favorisce un invecchiamento della popolazione (comunque presente, pur se con tassi molto più bassi, anche nei Paesi del centro e nord Europa), mitigato solo grazie ai flussi migratori...(che comunque a causa della crisi si stanno riducendo).
L'invecchiamento della popolazione poi a sua volta mette a rischio prima di tutto la sostenibilità pubblica di sanità e pensioni.
Proprio gli ambiti in cui tradizionalmente i Paesi meridionali avevano un maggior investimento pubblico.
Se cadono anche questi, cosa rimane del welfare mediterraneo? Avrebbe ancora senso differenziarlo tanto da quello liberista? Questo secondo me è un grande interrogativo.
Ma con una differenza: che almeno in quei Paesi il senso del disinvestimento pubblico era l'abbattimento della pressione fiscale, che oggi invece nel sud Europa aumenta.
Insomma: pressione fiscale da svedesi, ma servizi pubblici da irlandesi. Cornuti e mazziati. Se non facciamo qualcosa i rischi per il Sud Europa sono grossi.
Questioni che la politica, anche a livello europeo, dovrebbe cominciare a porsi.
Non solo per metterci una pezza ora sul momento, ma per trovare soluzioni strutturali.
Benvenga quindi l'asse Roma-Madrid su cui insiste tanto Rajoy. I Paesi mediterranei devono farsi sentire. Di solo spread il Sud Europa muore.
08 maggio 2013
Don Milani, citazione
Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. Don Milani, Lettera a una professoressa
06 maggio 2013
Andreotti
E' morto Giulio Andreotti, 94 anni, senatore a vita con un lunghissimo passato politico fatto di mille incarichi come presidente del consiglio, ministro, sottosegretario, ma anche sospettato di aver commesso numerosi reati gravi (la Cassazione ha stabilito che Andreotti ha fatto favori alla mafia), dai quali è stato assolto politicamente o giudiziariamente (prescrizione compresa).
Andreotti è stato un simbolo dell'Italia politica, molto amato e molto odiato, ha incarnato il potere fine a se stesso, la mediazione infinita tra poteri diversi, compresi quelli illegali.
Ognuno aveva qualcosa, molti erano riconoscenti, il potere di Andreotti cresceva, ma l'Italia restava sempre uguale a se stessa, figlia di un conservatorismo che non aveva nulla in comune con Reagan o la Thatcher. Era il puro e semplice rifiuto di ogni cambiamento che ricorda l'atteggiamento di un nobile del passato intenzionato a mantenere le vecchie abitudini incurante dei cambiamenti in atto attorno a lui.
Questo era il conservatorismo di Andreotti. Non fingeva neppure di essere diverso. Altri conservatori avrebbero fatto propria la famosa massima del Gattopardo, cambiare tutto per cambiare nulla. Lui no, era cinico e rimproverò Ambrosoli, ucciso per essersi opposto al salvataggio della banca di Sindona (che Andreotti aveva esaltato definendolo "salvatore della lira") con soldi pubblici, di essersela andata a cercare.
C'è molto di Andreotti, del suo cinismo, del potere che incarnava e rappresentava, in questa Italia in crisi. L'Italia della spesa pubblica per fini elettorali, delle corporazioni che si oppongono a qualsiasi cambiamento, della politica ridotta a battuta, degli interessi economici difesi anche quando causano disastri, era la sua Italia. Lui è morto, ma quell'Italia resta. Disastrata e incorreggibile.
Andreotti è stato un simbolo dell'Italia politica, molto amato e molto odiato, ha incarnato il potere fine a se stesso, la mediazione infinita tra poteri diversi, compresi quelli illegali.
Ognuno aveva qualcosa, molti erano riconoscenti, il potere di Andreotti cresceva, ma l'Italia restava sempre uguale a se stessa, figlia di un conservatorismo che non aveva nulla in comune con Reagan o la Thatcher. Era il puro e semplice rifiuto di ogni cambiamento che ricorda l'atteggiamento di un nobile del passato intenzionato a mantenere le vecchie abitudini incurante dei cambiamenti in atto attorno a lui.
Questo era il conservatorismo di Andreotti. Non fingeva neppure di essere diverso. Altri conservatori avrebbero fatto propria la famosa massima del Gattopardo, cambiare tutto per cambiare nulla. Lui no, era cinico e rimproverò Ambrosoli, ucciso per essersi opposto al salvataggio della banca di Sindona (che Andreotti aveva esaltato definendolo "salvatore della lira") con soldi pubblici, di essersela andata a cercare.
C'è molto di Andreotti, del suo cinismo, del potere che incarnava e rappresentava, in questa Italia in crisi. L'Italia della spesa pubblica per fini elettorali, delle corporazioni che si oppongono a qualsiasi cambiamento, della politica ridotta a battuta, degli interessi economici difesi anche quando causano disastri, era la sua Italia. Lui è morto, ma quell'Italia resta. Disastrata e incorreggibile.
04 maggio 2013
Tasse e politica economica
Quando leggo dei prossimi tagli sulle tasse, sull'IMU, sull'aumento dell'IVA, il taglio del cuneo fiscale, rimango a volte interdetto sugli obiettivi di politica economica che si vogliono perseguire.
Mi spiego meglio.
Sappiamo tutti che le leve con cui un governo può incidere sulla ricchezza e sul reddito dei cittadini sono in genere due: quella monetaria e quella fiscale. Vi sono ovviamente altre leve, che però presuppongono un intervento diretto nell'economia, ad esempio costruire un'infrastruttura (un porto o un'autostrada), ma ultimamente, dal ripudio dei piani quinquennali, non sono molto popolari.
La leva monetaria, cioè il rafforzamento o la svalutazione della moneta è ormai pochissimo manovrabile essendo in mano alla BCE, resta quindi la leva fiscale.
Quello che mi lascia sorpreso è che si parli semplicemente di tagli alle tasse senza pensare che dietro "dovrebbe" esserci un ragionamento di politica economica. Mi spiego meglio.
Se decido di tagliare l'IMU, implicitamente decido di non tassare più la ricchezza (che per sua natura produce rendita), favorendo gli investimenti in questo campo, cioè nello specifico nel mattone.
Se decido di tagliare l'IVA (in questo caso dovrei dire più propriamente di "non aumentare"...) favorisco i consumi interni.
Se decido di operare sul cuneo fiscale dei lavoratori favorisco sia i consumi interni, sia sprono le imprese a assumere lavoratori in Italia perché il costo del lavoro diminuisce.
E potrei continuare così per molto e per tutta Europa.
Quindi in teoria il processo dovrebbe essere inverso: ho una politica economica che fa parte della mia visione dell'Italia dei prossimi anni, quindi voglio arrivare a quell'obiettivo che nello specifico potrebbe essere rilanciare i consumi o la rendita (giusto o sbagliato che sia), quindi prendo alcuni provvedimenti fiscali, sia tasse che incentivi, che indirizzeranno l'economia su quella strada.
Io francamente ho qualche difficoltà a capire dove le forze politiche vogliano arrivare, perché il processo decisionale mi sembra ancora molto ideologizzato: aboliamo l'IMU perché è una cosa di destra (ma la destra non dovrebbe essere liberista ?!?) o tagliamo le tasse sul lavoro perché è una cosa di sinistra.
Ma chi ha una visione, un'idea di come dovrà essere questo paese tra 5 anni?
Mi spiego meglio.
Sappiamo tutti che le leve con cui un governo può incidere sulla ricchezza e sul reddito dei cittadini sono in genere due: quella monetaria e quella fiscale. Vi sono ovviamente altre leve, che però presuppongono un intervento diretto nell'economia, ad esempio costruire un'infrastruttura (un porto o un'autostrada), ma ultimamente, dal ripudio dei piani quinquennali, non sono molto popolari.
La leva monetaria, cioè il rafforzamento o la svalutazione della moneta è ormai pochissimo manovrabile essendo in mano alla BCE, resta quindi la leva fiscale.
Quello che mi lascia sorpreso è che si parli semplicemente di tagli alle tasse senza pensare che dietro "dovrebbe" esserci un ragionamento di politica economica. Mi spiego meglio.
Se decido di tagliare l'IMU, implicitamente decido di non tassare più la ricchezza (che per sua natura produce rendita), favorendo gli investimenti in questo campo, cioè nello specifico nel mattone.
Se decido di tagliare l'IVA (in questo caso dovrei dire più propriamente di "non aumentare"...) favorisco i consumi interni.
Se decido di operare sul cuneo fiscale dei lavoratori favorisco sia i consumi interni, sia sprono le imprese a assumere lavoratori in Italia perché il costo del lavoro diminuisce.
E potrei continuare così per molto e per tutta Europa.
Quindi in teoria il processo dovrebbe essere inverso: ho una politica economica che fa parte della mia visione dell'Italia dei prossimi anni, quindi voglio arrivare a quell'obiettivo che nello specifico potrebbe essere rilanciare i consumi o la rendita (giusto o sbagliato che sia), quindi prendo alcuni provvedimenti fiscali, sia tasse che incentivi, che indirizzeranno l'economia su quella strada.
Io francamente ho qualche difficoltà a capire dove le forze politiche vogliano arrivare, perché il processo decisionale mi sembra ancora molto ideologizzato: aboliamo l'IMU perché è una cosa di destra (ma la destra non dovrebbe essere liberista ?!?) o tagliamo le tasse sul lavoro perché è una cosa di sinistra.
Ma chi ha una visione, un'idea di come dovrà essere questo paese tra 5 anni?
Inceneritori
A Parma l'inceneritore è entrato in funzione, nonostante Pizzarotti e Grillo avessero promesso di bloccarlo.
A Torino invece per evitare le contestazioni, l'inceneritore è stato acceso senza alcun clamore. Nessuna cerimonia, nessun annuncio. Solo l'osservazione, quasi beffarda, da parte del gestore che se non ci sono lamentele allora significa che l'impatto dell'inceneritore non è quello previsto da chi si oppone al suo uso.
L'inceneritore torinese produrrà calore per il teleriscaldamento (che ormai riscalda oltre la metà della città e diverse aree dei comuni circostanti), come succede a Oslo dove l'immondizia per l'inceneritore non basta, come racconta il Post (vedi qui).
I cittadini della capitale norvegese riciclano tutto il riciclabile e il resto lo bruciano, usando il calore per riscaldarsi. Ma la parte dell'immondizia che finisce nell'inceneritore non basta a soddisfare le esigenze di una città che non vuole usare combustibili fossili (come la Danimarca, vedi qui).
Così a Oslo devono importare immondizia dal resto d'Europa, subendo la concorrenza di altre città scandinave che, avendo deciso di non usare combustibili fossili, cercano rifiuti da bruciare.
Noi italiani invece faccciamo parte di un altro mondo: a Palermo i rifiuti restano per strada, come successo qualche anno fa a Napoli, e un pò ovunque c'è chi si oppone agli inceneritori che, dove esistono, fanno i conti con mille vincoli che impediscono l'uso dei rifiuti di altre regioni. Anche perché il teleriscaldamento nelle grandi città non si sa proprio cosa sia. Con qualche eccezione, naturalmente.
A Torino invece per evitare le contestazioni, l'inceneritore è stato acceso senza alcun clamore. Nessuna cerimonia, nessun annuncio. Solo l'osservazione, quasi beffarda, da parte del gestore che se non ci sono lamentele allora significa che l'impatto dell'inceneritore non è quello previsto da chi si oppone al suo uso.
L'inceneritore torinese produrrà calore per il teleriscaldamento (che ormai riscalda oltre la metà della città e diverse aree dei comuni circostanti), come succede a Oslo dove l'immondizia per l'inceneritore non basta, come racconta il Post (vedi qui).
I cittadini della capitale norvegese riciclano tutto il riciclabile e il resto lo bruciano, usando il calore per riscaldarsi. Ma la parte dell'immondizia che finisce nell'inceneritore non basta a soddisfare le esigenze di una città che non vuole usare combustibili fossili (come la Danimarca, vedi qui).
Così a Oslo devono importare immondizia dal resto d'Europa, subendo la concorrenza di altre città scandinave che, avendo deciso di non usare combustibili fossili, cercano rifiuti da bruciare.
Noi italiani invece faccciamo parte di un altro mondo: a Palermo i rifiuti restano per strada, come successo qualche anno fa a Napoli, e un pò ovunque c'è chi si oppone agli inceneritori che, dove esistono, fanno i conti con mille vincoli che impediscono l'uso dei rifiuti di altre regioni. Anche perché il teleriscaldamento nelle grandi città non si sa proprio cosa sia. Con qualche eccezione, naturalmente.
02 maggio 2013
Il curioso caso dello studente che...
Due economisti americani, docenti nella celebre università di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno scritto un paper in cui analizzano il legame tra debito pubblico e crescita, giungendo alla conclusione che se il debito pubblico è inferiore al 90% del PIL non ci sono significativi legami tra debito e crescita, mentre esiste una correlazione negativa tra debito e crescita se il debito supera la soglia del 90% del PIL.
Reinhart e Rogoff sono giunti a questa conclusione analizzando i dati di una serie di paesi, giungendo alla conclusione che sia nei paesi ricchi che nei paesi emergenti alti livelli nel rapporto debito/PIL sono associati con bassi tassi di crescita [across both advanced countries and emerging markets, high debt/GDP levels (90 percent and above) are associated with notably lower growth outcomes].
E' opportuno a questo punto fare una precisazione: dire che un debito elevato è associato a una bassa crescita non significa che il debito sia la causa di una bassa crescita.
Ma molti, soprattutto politici, hanno pensato che un calo del debito pubblico fosse una tappa obbligata per far crescere l'economia. Tra questi Paul Ryan, candidato repubblicano alla vicepresidenza nel 2012, che citava lo studio di Reinhart e Rogoff nel Path to Prosperity, il programma americano in tema di finanza pubblica.
Mentre sul tema si stavano esercitando numerosi economisti, alla ricerca di spiegazioni alternative, uno studente dell'università del Massachussetts, Thomas Herndon (insieme ai colleghi Michael Ash, e Robert Pollin) ha ricevuto un compito: replicare i risultati di un paper a suo piacimento. Ha scelto proprio lo studio di Reinhart e Rogoff e s'è messo a fare i conti, scoprendo che c'erano molti errori (per saperne di più leggete qui), sufficienti a viziare i risultati.
Insomma dubitate di chi vi racconta che è assolutamente necessario diminuire il debito per far crescere l'economia. E' una teoria dubbia e chi l'avrebbe dimostrata in realtà ha commesso errori banali, scoperti da alcuni studenti che -a differenza di molti economisti- si sono presi la briga, su richiesta del loro docente, di controllare.
Reinhart e Rogoff sono giunti a questa conclusione analizzando i dati di una serie di paesi, giungendo alla conclusione che sia nei paesi ricchi che nei paesi emergenti alti livelli nel rapporto debito/PIL sono associati con bassi tassi di crescita [across both advanced countries and emerging markets, high debt/GDP levels (90 percent and above) are associated with notably lower growth outcomes].
E' opportuno a questo punto fare una precisazione: dire che un debito elevato è associato a una bassa crescita non significa che il debito sia la causa di una bassa crescita.
Ma molti, soprattutto politici, hanno pensato che un calo del debito pubblico fosse una tappa obbligata per far crescere l'economia. Tra questi Paul Ryan, candidato repubblicano alla vicepresidenza nel 2012, che citava lo studio di Reinhart e Rogoff nel Path to Prosperity, il programma americano in tema di finanza pubblica.
Mentre sul tema si stavano esercitando numerosi economisti, alla ricerca di spiegazioni alternative, uno studente dell'università del Massachussetts, Thomas Herndon (insieme ai colleghi Michael Ash, e Robert Pollin) ha ricevuto un compito: replicare i risultati di un paper a suo piacimento. Ha scelto proprio lo studio di Reinhart e Rogoff e s'è messo a fare i conti, scoprendo che c'erano molti errori (per saperne di più leggete qui), sufficienti a viziare i risultati.
Insomma dubitate di chi vi racconta che è assolutamente necessario diminuire il debito per far crescere l'economia. E' una teoria dubbia e chi l'avrebbe dimostrata in realtà ha commesso errori banali, scoperti da alcuni studenti che -a differenza di molti economisti- si sono presi la briga, su richiesta del loro docente, di controllare.
01 maggio 2013
Letta
Nel presentare il suo programma alla Camera, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha elencato una serie di provvedimenti che comportano un aumento rilevante delle spese dello Stato.
Esodati, abolizione dell'IMU, mancato aumento dell'IVA a luglio, finanziamento della cassa integrazione in deroga: sono alcuni dei punti del programma che richiederanno miliardi di euro. Sarà possibile mantenere le promesse?
L'Italia esce da un'anno e mezzo di disastri targati Monti. Le cose sono andate peggio del previsto: il PIL è diminuito del 2,5% nel 2012 e calerà anche nel 2013, provocando un'ecatombe di imprese e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e i conti pubblici sono in affanno, nonostante un forte aumento della pressione fiscale.
L'economista Monti ha fallito su tutta la linea probabilmente perché non ha considerato che le misure amare imposte agli italiani hanno fatto crollare i consumi per effetto non solo dell'aumento delle imposte e della recessione, ma anche della paura di futuri incrementi di imposte e di ulteriori peggioramenti della situazione economica.
Facciamo un esempio: se una famiglia si trova a pagare 500 euro di IMU, teme che in futuro le imposte aumenteranno e prevede che la situazione economica peggiorerà, potrebbe decidere di tagliare i consumi in misura superiore ai 500 euro da pagare. Supponiamo che il calo dei consumi sia di 1000 euro: se da una parte lo Stato incassa 500 euro di IMU, dall'altra vede le entrate fiscali diminuire (supponiamo di 400 euro) per effetto del minor consumo.
Non sarebbe stato meglio far pagare un'imposta più bassa per deprimere di meno i consumi e salvaguardare imprese e posti di lavoro?
Letta può forse correggere gli errori di Monti, rompendo il circolo vizioso di imposte che generano buchi nei conti pubblici, che a loro volta richiedono aumenti di imposte.
Non importa in questa fase se aumenterà il deficit pubblico. E' più importante che si fermi la recessione. In seguito si potranno sistemare i conti pubblici sfruttando la crescita dell'economia. Basterà tenere sotto controllo la spesa pubblica e usare le maggiori entrate per ridurre il deficit.
Per questo motivo penso che Letta faccia bene a rivoluzionare la politica economica finora disastrosa del governo Monti, inseguendo gli obiettivi molto ambiziosi che ha elencato alla Camera.
Esodati, abolizione dell'IMU, mancato aumento dell'IVA a luglio, finanziamento della cassa integrazione in deroga: sono alcuni dei punti del programma che richiederanno miliardi di euro. Sarà possibile mantenere le promesse?
L'Italia esce da un'anno e mezzo di disastri targati Monti. Le cose sono andate peggio del previsto: il PIL è diminuito del 2,5% nel 2012 e calerà anche nel 2013, provocando un'ecatombe di imprese e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e i conti pubblici sono in affanno, nonostante un forte aumento della pressione fiscale.
L'economista Monti ha fallito su tutta la linea probabilmente perché non ha considerato che le misure amare imposte agli italiani hanno fatto crollare i consumi per effetto non solo dell'aumento delle imposte e della recessione, ma anche della paura di futuri incrementi di imposte e di ulteriori peggioramenti della situazione economica.
Facciamo un esempio: se una famiglia si trova a pagare 500 euro di IMU, teme che in futuro le imposte aumenteranno e prevede che la situazione economica peggiorerà, potrebbe decidere di tagliare i consumi in misura superiore ai 500 euro da pagare. Supponiamo che il calo dei consumi sia di 1000 euro: se da una parte lo Stato incassa 500 euro di IMU, dall'altra vede le entrate fiscali diminuire (supponiamo di 400 euro) per effetto del minor consumo.
Non sarebbe stato meglio far pagare un'imposta più bassa per deprimere di meno i consumi e salvaguardare imprese e posti di lavoro?
Letta può forse correggere gli errori di Monti, rompendo il circolo vizioso di imposte che generano buchi nei conti pubblici, che a loro volta richiedono aumenti di imposte.
Non importa in questa fase se aumenterà il deficit pubblico. E' più importante che si fermi la recessione. In seguito si potranno sistemare i conti pubblici sfruttando la crescita dell'economia. Basterà tenere sotto controllo la spesa pubblica e usare le maggiori entrate per ridurre il deficit.
Per questo motivo penso che Letta faccia bene a rivoluzionare la politica economica finora disastrosa del governo Monti, inseguendo gli obiettivi molto ambiziosi che ha elencato alla Camera.
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