Due anni e mezzo fa gli argentini hanno eletto Mauricio Macrì presidente.
Di origini italiane, a capo dell'impero economico di famiglia, Macrì ha vinto promettendo una rivoluzione economica di stampo liberista fatta di tagli alla spesa assistenziale, apertura dei mercati, in particolare dei capitali, licenziamento di dipendenti pubblici, soprattutto se assunti con criteri politici dai precedenti governi, e stimoli agli investimenti stranieri.
Una ricetta che non sta dando i risultati attesi. I mali tradizionali dell'economia argentina, ovvero inflazione, svalutazione, conti pubblici in profondo rosso si sono ripresentati.
Il taglio dei contributi pubblici ha stimolato l'inflazione, che l'istituto di statistica non ha neppure saputo misurare negli anni scorsi al punto che nessuno credeva ai dati ufficiali. Il peso è crollato, complice un mercato della valuta di modeste dimensioni (l'acquisto o la vendita di modeste quantità di pesos possono causare forti oscillazioni del il cambio in un paese che di fatto usa e ragioni in dollari) spingendo la banca centrale argentina a alzare i tassi al 40% anche per contrastare la (solita) fuga di capitali dal paese.
La scarsa credibilità dell'economia argentina ha fatto sì che gli investimenti sperati non siano avvenuti, nonostante il programma liberista. Anzi non appena sono cresciuti i tassi americani i potenziali investitori hanno preferito i titoli di stato americani al rischio di investire nel pesos argentino.
Così l'ultimo collocamento di titoli di stato è riuscito solo grazie all'intervento della banca centrale e ad una telefonata di Macrì a Trump perchè convinca qualche fondo americano a acquistare un pò di bond argentini.
Insomma niente di nuovo sotto il sole argentino. La ricetta economica liberista non ha cambiato nulla. Il ripresentarsi dei vecchi mali dell'economia ci ricorda che una moneta sovrana in una economia debole può solo illudere di risolvere i problemi in modo semplicistico.
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